“Accade in Italia”: mostri, “fattore melodramma” ed entertainment. Echi e coincidenze di poetica tra letteratura nostrana e serie TV d’Oltreatlantico, da Lost a Dexter passando per Heroes
di Daniele Marotta*
[In calce a questo post: news internazionali, annunci e link a discussioni sul NIE]
All’inizio dell’estate cercavo di riordinare le idee sul New Italian Epic per scrivere questo intervento, e mi stupivo di come l’oggetto delle mie riflessioni fosse ovunque, nell’attualità di cinema e TV. Erano i giorni di Cannes 2008, Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone venivano celebrati dalla giuria di Sean Penn e splendevano alle luci della ribalta mondiale.
Il 30 di maggio la puntata di Anno Zero di Michele Santoro, al mio sguardo concentrato sul NIE, sembrava un presepe vivente.
Titolo della trasmissione: “Il divo e noi”.
“Ne hanno discusso in studio Paolo Cirino Pomicino, Claudio Martelli, il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, il regista del film “Il divo” Paolo Sorrentino, Anna Bonaiuto, attrice, lo scrittore Carlo Lucarelli, Umberto Ambrosoli (figlio di Giorgio, l’eroe borghese liquidatore della banca di Sindona), la giornalista Natalia Aspesi e Marco Travaglio”.
Freezando la scena, vediamo che ogni ospite rimanda a molti degli elementi citati nel saggio di Wu Ming 1 più altri, secondo me, inerenti.
Ci sono le luci e le ombre della storia; ci sono i vari fronti del passato recente e del presente; ci sono gli ospiti che appartengono a generazioni diverse, portatori di categorie, linguaggi e registri di comunicazione differenti, tutti che declinano, ognuno a suo modo, il confine tra realtà e rappresentazione; in ultimo, c’è un elemento detonante per assenza: la verità, l’oggetto.
Quella sul Divo sembra una trasmissione sul Graal, una ricerca di elementi ingoiati dalle tenebre del tempo anziché un programma su fatti del passato recente. Invece eccoci in un pezzo di teatro brechtiano in cui l’oggetto viene sfiorato, atteso, nominato ossessivamente ed inseguito senza che mai possa comparire. Con le dinamiche del New Italian Epic in mente, vedere Lucarelli che dibatteva con Pomicino sulla storia italiana recente mi ha colpito non poco.
L’apertura di Lucarelli nella trasmissione certo vale anche per la nostra discussione sul New Italian Epic:
“…i romanzi fanno una cosa molto importante, dicono un sacco di cose vere, perché i romanzi col linguaggio dell’arte, che diventa un linguaggio di solito molto emozionante, molto accattivante, mettono in scena dei meccanismi, in questo caso qui io ho visto mettere in scena i meccanismi di un certo potere, mettere in scena i meccanismi che stanno alla base di parte della nostra storia…”
Negli ultimi venticinque anni, fase di formazione di molti autori del New Italian Epic, il mondo è finito e ricominciato più volte. Lo spegnersi dei catalizzatori politici ed ideologici, la crisi economica, lo slittamento delle tettoniche sociali, l’impoverimento generalizzato, l’obsolescenza degli strumenti culturali, lo spostamento dei fronti di guerra reali o percepiti, tutti questi fattori spingono a cercare dei parametri, delle chiavi nuove per leggere il presente. Siamo spinti a seguire tracce che ci conducano ad un senso solido, sanare dicotomie storiche ormai insostenibili e creare cose ancora non classificate.
Forse proprio quando il frastuono mediatico quotidiano si fa petulante ed ossessivo come un disco rotto, la fiction diventa sponda e riva. Narrativa, fiction, epica, fiaba: la messa in scena può dismettere la maschera dell’evasione e diventare maschera di carnevale, sovversiva e seduttiva, grazie alla quale frugare tra le sottane del presente in cerca di nuda veritas .
Tutto questo per molti è già in atto, mentre altri dormono il sonno dei giusti: sono i figli prediletti del sistema, adoratori dello status quo, baronetti borbonici del villaggio locale italiano e dei suoi salotti, sono quelli che sul presente minimizzano, che tagliano corto credendo di capire tutto ma, invece affrontano la realtà con armi scariche, e cercano, confusi, di risalire sulla groppa di cavalli morti.
L’italia del Sistema Italia è un villaggio locale.
La piazza di questo villaggio locale è la televisione generalista, lo specchio del sistema in cuoi contenuti e spot sono sempre più fusi e confusi; tutto ciò di cui non si occupa la TV generalista resta underground, in pratica non esiste.
Manca un’industria dell’intrattenimento con al centro le opere.
L’intrattenimento di massa nostrano, in realtà, è solo accessorio ai divi e divetti che lo abitano; più che le storie raccontate, tutti amiamo vedere le stelline che sorgono, che prosperano o tramontano, seguiamo persone razzolare nel trash, rimbalzare tra i canali o su libri spazzatura e giornali a fare questo o quello.
L’opera è l’ultima cosa, sembra inutile al sistema, non merita rispetto e riverenza, con l’opera in sé non c’è guadagno o potere, non c’è possibilità di ingerenza.
Non sarebbe un problema se questo non impedisse a certi contenuti di arrivare alla gente, per questo alcuni “mutano”.
Ognuno di questi mutanti soffre un po’ il presente, qualcuno patisce abbastanza da cercare altrove, altri canali, altri siti, libri, poesie, canzoni o fumetti, altre dimensioni, con cui attingere e succhiare ciò che il sistema non offre.
Come nella relazione tra fantascienza e progresso tecnologico in cui non si capisce più chi insegue ed ispira chi, nella lettura del presente, potrebbe accadere nella relazione tra fiction e realtà.
Ecco la fucina degli UNO, gli oggetti narrativi non identificati battezzati da Wu Ming 1. come, per Gomorra esempio supremo, in cui si crea un circolo (quadrato) virtuoso tra, chi ispira chi, tra lo stato, l’autore, la società civile, la malavita.
Ma che sorte ha, o ha avuto fin ora la fiction con l’opera al centro, l’epica, la narrativa d’intrattenimento, l’affresco di storie ?
Nell’Italia dei mass media le dimensioni diverse da quella generale e popolare sono piccole partigianerie, avanguardie o solo fenomeni di costume, altrove, in paesi come Francia, Stati Uniti, Inghilterra dove si è fatta la pace con l’intrattenimento e l’industria, dove non esiste un solo modello sociale ma dove più mondi si intersecano e dove si stratificano realtà diverse, certi linguaggi sono cultura mainstream, sono classici, che a loro volta producono altri rivoli underground e altrettante galassie narrative che da noi i “Borboni salottieri” vedranno (ma soprattutto riterranno degne di attenzione) solo dopo anni-luce, come accade con le stelle lontane.
Per fortuna negli ultimi decenni siamo stati inondati dal mare transmediale e chi ha voluto ha sviluppato branchie, ali e piedi per poter godere di tutto. Nuovi sistemi hanno iniziato a formarsi e, tra questi, indubbiamente la nebulosa delle opere del New Italian Epic.
Oggi sguazziamo divertiti intorno all’iceberg, e intanto i colti di casta si ostinano a pontificare, mentre il loro sistema affonda come il Titanic con sopra l’orchestrina.
Il Titanic del mainstream affonda perché il sistema non può non accogliere i casi letterari, il fragore di buone storie e nell’accettarle si compiace senza averle ancora comprese del tutto; intanto, come dei virus, certe opere, alla ribalta, fanno mutare il villaggio locale avvelenandolo di senso e verità nuove, più connesse al resto mondo.
Accadde negli USA
Sui personaggi e sulle storie, proviamo a fare come Steve Martin, citato da WM1, e spostarci per star bene altrove.
Andiamo a vedere un piccolo ciclone che sta investendo un altro palcoscenico, quello delle serie TV americane. Non tenterò analisi assolute e perfette, vorrei solo offrire suggestioni ed ipotesi di riflessione.
Oggi, appena trasmesse negli Stati Uniti, le serie più amate vengono immediatamente “lavorate” nel cono d’ombra, nei “vicoli” del villaggio globale. Prima che responsabili del marketing di rete possano pianificare localizzazioni e vendite, le puntate vengono subito tradotte e sottotitolate da appassionati, quindi diffuse gratuitamente nel mondo tramite Internet, poi, come un tempo con le cassette di musica, copiate e condivise con amici e conoscenti meno avvezzi.
Un’unica fruizione globale immediata, con cui le reti TV cercano affannosamente di mettersi in pari.
Fino a pochi anni fa la struttura etica di quasi ogni opera narrativa popolare americana era un conflitto netto tra il bene ed il male: l’eroe buono, bianco, cristiano contro i terribili cattivi.
Questo non accadeva perché il conflitto seguisse canoni antichi del mito o della fiaba, ma per una chimica narrativa originale, totalmente made in USA.
A monte c’è una visione del male come entità oggettiva assediante e in agguato, idea che in Europa non ha mai attecchito, o per lo meno è finita da almeno trecento anni.
Per analizzare gran parte delle produzioni narrative di genere del Novecento americano, andava ancora bene l’analisi che fece, a suo tempo, H. P. Lovecraft nel saggio L’orrore soprannaturale in letteratura. In quel testo lo scrittore teorizzò il mondo fantasmatico del colono puritano in America come sorgente dell’orrore letterario. Secondo Lovecraft il colono europeo protestante era schiacciato e assillato dal conflitto interiore della propria fede, sempre in bilico tra giudizio divino e inferno, tanto quanto era assediato all’esterno da nativi, belve e ogni creatura minacciosa che potesse spuntare alle finestre della sua sperduta “casa nella prateria”.
Fin dai tempi delle pulp stories o dei primi western cinematografici, ogni eroe dell’immaginario popolare americano si adatta a questo schema: il campione assediato ed armato nel suo fortino di luce, dove ogni mostro o nemico – un’entità aberrante ed assolutamente negativa – tenta di fare irruzione.
Hollywood ha prosperato su questo tipo di allegoria per quasi cento anni, adattandola, sminuzzandola, ribaltandola all’infinito senza mai metterla in discussione.
Fino ad oggi.
Dopo l’11 settembre 2001 questa forma esplode come le torri gemelle: per alcuni diventa una chiave allegorica inutile (benché ancora ampiamente usata) o comunque relativa, si cercano nuove strade, il punto di vista è obbligato a distorcersi. Con alle torri ha ceduto anche una catena di certezze sulla realtà.
Tra i contesti di questa rivoluzione, consideriamo quello delle serie TV che, di fatto, in questi anni guidano, in anticipo anche sul cinema, l’esplorazione di nuove frontiere dell’intrattenimento popolare.
La maggioranza delle serie attuali seguono ancora il canone classico; ci sono tuttavia, grandi eventi televisivi di successo che segnano profondamente il nostro tempo e ci mostrano non solo che il male ed il bene sono diffusi, sfumati e disseminati, ma si interrogano anche sulla natura enigmatica del presente.
Prendiamo in esempio tre serie importanti come contenuti e successo precedenti il l’11 settembre e quattro successive.
Tre serie pre-11 Settembre: CSI, The Sopranos e Oz
Tutte hanno strutture complesse, sono grandi produzioni e i personaggi sono relativamente sfaccettati e approfonditi.
Queste serie sono narrazioni corali in cui il bene e il male sono declinati molte volte, ma dove il dualismo non è mai messo in discussione.
CSI (2000), la celebre serie che ha portato alla ribalta la patologia forense, porta il fortino e i cowboys dentro uno studio di medicina legale. La dinamica è quella dei tempi di Lone Ranger, il cavaliere solitario: un gruppo di eroi senza macchia che a ogni puntata, grazie alle loro abilità e peculiarità, riescono a beccare i cattivi. Niente di nuovo.
The Sopranos (1999) esplora la naturalezza del male alle prese col quotidiano. Il boss mafioso Anthony Soprano che va dall’analista è l’immagine chiave di questa serie, che si sviluppa sui binari già tracciati nel corso di trent’anni da Coppola e Scorsese, in film come Il padrino o Quei bravi ragazzi.
Oltre che essere, anche questa, una vicenda “aggiornata” ai nostri anni The Sopranos trova la sua peculiarità in quella che potremmo definire “tangenza”, la tangenza tra il mondo dei clan e quello reale.
Questo aspetto era un po’ accennato già ne Il padrino di Coppola con la figura di Michael Corleone (Al Pacino).
Michael è il bravo ragazzo studioso e laureato, da sempre escluso dai giochi sanguinari della famiglia, che al momento giusto stupisce tutti e si rivela il più degno successore del boss. In effetti ancora la tangenza non è compiuta e sviluppata, siamo più nei canoni fiabeschi in cui il figlio piccolo e debole diventa re e sposa la principessa riuscendo laddove i più grandi hanno fallito. Qui si parla di come la generazione di mafiosi americani emigrati e proletari lasciarono il passo alla generazione di leader moderni ricchi e colti, ben inseriti nella politica e negli affari.
Nei Sopranos, invece, la “tangenza” è il vero centro, non si parla più della mafia in senso storico ma si cerca di fotografare il presente, stressarlo per mostrare i buchi, le stranezze e debolezze.
Per questo motivo le sedute analitiche di Tony Soprano sono l’emblema della serie: nello spazio del setting terapeutico il mondo reale affronta il mondo del clan e vice versa. Come in uno specchio magico i due mondi si affacciano l’uno nell’altro in una sorta di tregua temporanea, per poi venire di nuovo risucchiati, ognuno nella propria dimensione.
E’ solo in questo momento di tangenza che vediamo quanto in realtà , fuori dallo studio dell’analista, i Soprano vivono in un mondo diverso dal nostro, come in una bolla narrativa, senza mai, mai avere contatti col mondo reale.
Ci accorgiamo che non c’è nessun compromesso possibile, il conflitto di Tony Soprano è insanabile, i normali e i mafiosi sono condannati a percorrere binari invisibili, e fuori dallo studio dell’analista i valori del clan e quelli della realtà civile non si toccano mai.
Da un lato questo apre una sequela di domande sulla società americana: essa si mostra a compartimenti stagni di classi sociali e gruppi etnici.
Da un altro lato, Tony Soprano è come dr. Jekyll o una sorta di Incredibile Hulk del piano etico-morale: in The Sopranos il bene ed il male possono essere solamente estremi di un sistema schizofrenico.
Oz (1997) usa il carcere per riflettere sui temi dell’esistenza seguendo i modi della tragedia greca.
Ogni puntata è aperta e chiusa da Augustus Hill, un personaggio detenuto che si rivolge direttamente al pubblico.
All’inizio Augustus presenta il nuovo arrivo, il detenuto che nella puntata viene arrestato ed entra in Oz, mentra alla fine svela le chiavi di lettura della puntata a cui abbiamo assistito. Hill è un vero e proprio corifeo che ci dichiara teatralmente l’allegoritmo preciso per raggiungere ogni volta un nucleo concettuale specifico: il tradimento, la vendetta, l’orgoglio, l’odio, il timore di dio ecc., alzando la vicenda su un registro etico e morale universale.
Il risultato è un meccanismo allo stesso tempo acuto e profondo, che ci svela quanto il carcere sia uno specchio della società e non uno scarto di essa. Oltre a ciò, le forze selvagge socialmente oscure e distruttive diventano allegorie e si agganciano alle forze altrettanto ancestrali del mito, della tragedia classica e di quella shakespeariana.
Oz rivela segnali interessanti nel presentare il rapporto tra la società e il carcere.
La trama parla di un carcere (Oswald detto “Oz”) in cui si attua una sperimentazione. Un’ala detta “il Paradiso” (biblico, miltoniano o cos’altro?) viene allestita con celle dalle pareti a vetro, senza sbarre, i detenuti sono liberi di circolare nel braccio senza per forza stare in cella, e si possono vestire come vogliono.
Le pareti di vetro permettono una lettura interessante: Oz mette la società tutta dentro su un vetrino o in un acquario. Nell’ambiente chiuso del carcere i personaggi sono spogliati delle maschere convenzionali, grazie all’idea del carcere si possono mettere in scena miserie e pulsioni profonde, l’azione è spietata e crudele. Carcerati e carcerieri si assimilano, il contrario preciso dei Sopranos, come in una grande lotta nel fango, e tutti, senza scampo, si dibattono ma restano (restiamo) schiacciati dal proprio tragico destino.
Quattro serie post-11 Settembre: lost, Desperate Housewives, Heroes e Dexter
Mentre la politica della Casa Bianca tenta di ricondurre entro schemi rigidi il polverone dell’11 Settembre, riportando il paese destabilizzato nel consueto sistema duale e arrivando anche a costruirsi nemici-fantoccio, in TV nel 2004 va in onda Lost.
Con Lost, uno dei maggiori eventi mediatici degli ultimi anni, viene messa in atto una nuova allegoria.
Le categorie classiche vengono polverizzate, ogni personaggio è abitato da luci ed ombre, ognuno è in qualche modo solo e bisogna sempre stabilire cosa sta succedendo, addirittura quale sia la natura del reale.
Lo sguardo è diffuso e la scena è affollata, lo straniamento dello spettatore coincide con quello dei sopravvissuti e probabilmente non ci sarà tregua fino alla fine. Siamo alla ricerca di qualcosa di nuovo, siamo di fronte ad un’epica nuova.
Le alleanze tra i personaggi sono rinegoziate di continuo e il segreto che ognuno porta in sé è pari ai segreti dell’isola. Si può dire che il mistero di ogni personaggio è grande quanto il mistero dell’isola. Incertezza e Indeterminatezza sono le vere protagoniste di questa trappola narrativa, studiata ad arte per stupire ogni volta, portando lo spettatore a perdere il senso complessivo della storia, che resta subordinata all’emozione momentanea.
Se pure l’intento è un intrattenimento da luna park e, in ultima analisi, vano, Lost non poteva essere concepito in un altro tempo, ma solo in un momento come questo, in cui lo smarrimento (l’essere “lost”) e lo straniamento trovano catene di corrispondenze un po’ in tutto il mondo occidentale.
Non ci sono buoni né cattivi, anzi ci sono, ma ai nostri occhi lo schieramento è sempre temporaneo. Siamo spinti a cambiare idea, parteggiare per questo o quello a seconda delle circostanze e trovarci spesso in disaccordo col nostro personaggio preferito.
L’allegoria è subito sottopelle, come se Lost, più di altri, fosse davvero solo un’impalcatura spoglia per lavorare sul presente. Ad esempio i cattivi, gli abitanti che i naufraghi trovano sull’isola, si chiamano “gli Altri”, più chiaro di così… Questi tempi non sono forse segnati dallo smarrimento e dal disagio generalizzato verso gli “altri”?
Assumendo Lost come una sorta di manifesto o di parametro, possiamo vedere altre serie successive sotto la stessa luce:
Desperate Housewives, sempre del 2004, rappresenta in parte la stessa inquietudine diffusa e la stessa dislocazione etica, collocata, però, nel tipico sobborgo residenziale americano, nel fortino moderno del colono.
Indubbiamente gli horror commerciali anni ’80 (alla Freddy Krueger, per intenderci) hanno ripreso parte della poetica del mostro di Frankenstein. Il nostro colono puritano, ovviamente, vuole il mostro come minaccia ancestrale, lo vuole a caccia di adolescenti che indulgano in trasgressioni e pruriti sessuali, pronto a tornare ciclicamente per la gioia dei box office.
Invece, nella fulgida comunità di Wisteria Lane, a essere violato il sacro forziere dell’intimità famigliare. Il male non è rappresentato, come accadeva nei thriller domestici anni ’90, da un cattivone psicotico celato nelle vesti di marito, amante o coinquilino, personaggio la cui sorte è sempre di essere smascherato, crivellato di proiettili e non morire mai fino all’ultimo balzo finale.
In Desperate Housewives i segreti prendono una dimensione più esistenziale: il nemico alieno, il male è, celato nelle pieghe del vivere in famiglia, è dentro ognuno di noi e, nonostante la superficie caramellata, nessuna casa potrà mai più essere un fortino da difendere con purezza, ma solo un possesso da proteggere con ostinazione, anzi, l’interrogativo si fa più radicale: si può amare e proteggere il male di casa nostra?
Heroes (2006) mette in scena una rivisitazione realistica delle dinamiche eroiche in stile X-Men, dinamiche che nei comics erano già state sviscerate da ogni angolazione possibile fin dei primi anni Ottanta. Anche qui la forza sta nella scrittura, intrecciata di trame e sotto trame, di binari su cui viaggia ogni personaggio, che di continuo si intersecano e allontanano gli uni dagli altri. Di ciascun filone vediamo i lati nascosti, le molle narrative, le dinamiche che spostano di continuo il fronte del sospetto e del conflitto etico estendendolo all’orizzonte o riducendolo fino ad accerchiare ogni personaggio.
Il fine è, anche qui, capire, scoprire cosa sta succedendo ed evitare minacce che ciascuno può incarnare. Il dubbio serpeggia a tutti i livelli e non si capisce chi sia realmente portatore di virtù.
Ogni personaggio ha dei poteri, questi poteri si manifestano come sintomi, non si sa più chi si è, i poteri vengono celati, dissimulati, o sfruttati per fare il bene o il male. Chi è il nemico? Noi? E’ l’altro strano tipo che incontro? Come in un romanzo giallo, la percezione che ognuno sia la vera minaccia per tutti passa di continuo da un personaggio all’altro.
Concluderei questa carrellata suggestiva, e certo non esauriente, con l’ultimo interessante oggetto televisivo: Dexter (2007).
In questa serie assistiamo a una nuova dinamica narrativa, che violenta nell’intimo lo schema poliziesco collocando il cattivo e l’eroe nel medesimo corpo. Infatti, il nostro ematologo forense ed eroe è in realtà uno spietato serial killer.
Tutta la serie diventa un dramma amletico sulla natura del bene e del male. La sfasatura passa dal teatro diffuso di Lost all’interno di un unico protagonista, la sola allegoria che funziona è quella della quest, della ricerca obbligata di un senso etico, indagine sul presente ed il passato, sulle cause che hanno portato alla condizione attuale.
La serie è il percorso del protagonista schizoide, che cerca di mettere insieme le parti di sé, come un essere circondato dal buio cerca di trovare un senso al proprio passato e costruire un possibile futuro. Dexter si chiede, e noi con lui, quanto sia giusto cambiare, e se non sia meglio accettarsi. Liberare gli impulsi o reprimerli? Credere a ciò che sappiamo o cercare nuove verità?
Il conflitto è ovunque e segue percorsi imprevisti, non ci sono certezze date a priori, l’eroe e il malvagio antagonista non si affrontano più da dietro le rocce dei canyon, quella chiave è da buttare, si lavora con nuove allegorie, a fatica ma con successo, cercando di rappresentare una realtà più autentica e complessa.
Nota sulla “morte del Vecchio”
Dopo aver letto la seconda postilla della versione 2.0 di New Italian Epic, ho notato che in tutte e quattro le serie che avevo preso a modello c’erano morti di “vecchi”:
– Lost mette in scena molti “vecchi”, e i naufraghi sono l’ultima generazione di attori nel teatro dell’isola, generazione che deve fare i conti con quanto fatto dai predecessori. Per non parlare del fatto che tutti i predecessori conoscono verità che i naufraghi ignorano.
– Desperate housewives si apre con la morte non di un Vecchio ma di una donna che avrebbe completato la cerchia amicale delle protagoniste. Mary Alice si uccide per un intollerabile segreto: come una sorta di “Eva”, lei per prima ha affrontato la natura del bene e del male, soccombendo. Su un piano simbolico diventa una “grande Vecchia”, col cui destino le amiche dovranno misurarsi.
– Seguendo Heroes scopriamo che in realtà quella dei protagonisti non è la prima generazione di eroi: prima di loro ne esisteva un’altra, i protagonisti si trovano a lottare nell’ombra di quella cerchia di terribili confratelli anziani, per affrontarli, vincerli o quantomeno comprenderne la natura etica.
– Dexter deve la sua doppia natura al padre adottivo, un poliziotto che, vista la natura omicida del figlio, cerca di fargliela quanto meno convogliare “a fin di bene”. All’inizio della serie il padre è morto. Il confronto con questa assenza e con i segreti e le bugie di questa figura sono un elemento portante di tutta la storia.
Che dire, quattro su quattro mi pare un buon punteggio.
Accade in Italia ma perché oggi?
Ovvero: O’ scarrafone nun se la scorda a’ mamma
Certamente il contesto in cui nascono le opere del NIE è molto diverso da quello in cui si scrivono e vanno in onda queste serie TV americane, ma è comune il tentativo di superare schemi obsoleti e cercare nuovi allegoritmi, verso significati pulsanti che reclamano attenzione.
Certo, come dice WM1 nel saggio, l’Italia è terreno fertile e unica patria possibile del New Italian Epic.
Oltre alla collocazione geografica, alla storia antica e recente, alle dinamiche del “fattore K” e della guerra fredda, si può anche considerare il Fattore M: il fattore Melodramma o fattore Mario Merola.
“Fattore M” è un modo sciocco di definire uno dei motivi per cui solo oggi tutti questi contenuti e fattori tipicamente italiani hanno potuto innescarsi, dando vita a un’epica nuova. Il tempo e le circostanze hanno portato cambiamenti legati al gusto, alle forme mentali, alle convenzioni, per cui oggi possiamo guardare serenamente e senza vergogne all’epica e, più in generale, alla cultura dell’intrattenimento.
Seppure molto diverse, a mio parere, epica e narrativa d’intrattenimento sono legate dalla sorte che hanno avuto nella nostra cultura in epoca contemporanea.
Al posto del dualismo americano di matrice protestante, da noi ha sempre prosperato un senso del dramma narrativo ed esistenziale, rappresentato come una messa in scena sfaccettata, complessa e spesso tragicomica.
Sarà la consapevolezza di una storia ricca e stratificata, sarà la convivenza di grandi ricchezze culturali e sociali con altrettante miserie culturali e sociali, o il fatto che siamo stati, per secoli, la patria di un papa-re; sarà l’assenza di un’industria dell’intrattenimento con una retorica precisa ed univoca, in ogni caso non possiamo non sorridere di fronte a chi ci dipinga le cose tutte bianche o tutte nere.
I grandi classici sono pregni di sfumature, dalla Divina Commedia a Manzoni. Il mainstream Italiano ha, da sempre, incorporato grandi macedonie etiche piuttosto che intensi conflitti duali. Le nostre storie si concentrano più sulla colpa o sulla salvezza che sull’azione e lo scontro.
L’epica da noi non riesce ad attecchire se rimane mero gioco di scacchi. Le figure assolute e le storie semplici vanno bene se provengono da un mondo come l’America, che per noi è ancora un luogo della mente. Ogni film americano è in fondo una fiaba, ma qui certi palloni scoppierebbero sotto il peso delle cose, dell’ironia, della sfumatura. Da noi, forse, non c’è posto per quell’epica o quella retorica. Qui la musica non accompagna eroi in bianche armature o mostri malvagi, ma suona il tempo della commedia umana o della tragedia antica.
Perché non è accaduto in Italia… prima?
(ovvero: Rock the Borbons!)
Per molto tempo ho cercato di capire i legami tra letteratura, società e intrattenimento, e come mai da noi non si fosse sviluppata una letteratura fantasy o una vera narrativa pulp, mentre, ad esempio, l’intrattenimento ha trovato terreno fertile con l’arte contemporanea o la musica: da noi il rock, il pop e perfino il punk sono arrivati portando rivoluzioni nel villaggio locale, senza conflitti tra arte, classifiche, contenuti e vendite.
Mi sono imbattuto negli strali crociani sulla narrativa di genere, ma questo non era sufficiente, e poi Croce se la prendeva coi generi come categorie di giudizio, e faceva bene.
Non ho ancora una risposta, ma solo qualche elemento di riflessione.
Il fantasy nasce in europa con William Morris in tensione dialettica col modernismo industriale e si consolida con J.R.R. Tolkien come recupero di una letteratura perduta. In America la letteratura fantastica scaturisce da Edgar Allan Poe e si irradia nell’immaginario collettivo tramite le riviste pulp durante la fase finale delle ultime frontiere e attraverso la grande depressione, per arrivare nell’olimpo di Hollywood.
Mentre fantasy, pulp e fantascienza prosperavano in letteratura tra le borghesie di tutto l’occidente industriale, in un’Italia ancora fortemente rurale buona parte della popolazione sentiva i racconti durante le veglie di campagna, e non aveva bisogno di riviste o romanzi di genere. Parimenti, relegava il fantastico all’infanzia.
Il Fattore M, che difficilmente si riesce a isolare e separare dai contesti economici e sociali, ha operato durante tutti gli anni del dopoguerra, del boom economico e della contestazione politica fatta di militanza e impegno. Fino alla fine degli anni Settanta, in Italia l’idea di un intrattenimento “per adulti” poteva essere solo sinonimo di cose porche.
Mentre all’estero il punk e la pop art erano già accademia, in Italia forme nuove d’intrattenimento per adolescenti nutrivano le giovani generazioni operando varie mutazioni nel gusto e nei modelli: i fumetti francesi e i supereroi americani, i cartoni animati giapponesi, i primi telefilm di fantascienza, i fumetti moderni d’avventura sul Corriere dei piccoli o Linus, il cinema che per un periodo si focalizza su ragazzini (da Star Wars ai Goonies, da ET a La Storia Infinita) ecc. contribuiscono a dissolvere definitivamente il cliché e a formare un gusto nuovo.
Stranamente, quanto accadeva ormai una vita fa, con l’arte, il cinema o la musica pop, sembra non essere avvenuto nei regni della parola scritta o di un certo cinema. Ancora si ha difficoltà a rendere giusto merito ad eventi popolari d’intrattenimento, si stenta a capire quanto l’evento di massa sia carico, di per sé, di senso.
Sembra ancora che, ai piani alti, ci sia il desiderio, di una dimensione letteraria “melodica” o “da camera”, mentre i Beatles della letteratura, i Led Zeppelin della narrativa o gli U2 del fumetto, signori di mercato e dell’espressione, si ignorano e minimizzano finché possibile.
Solo oggi, con l’auspicata resa dei “Borboni” alla transmedialità, anche in Italia si vedono i presupposti per un diverso lavoro sui generi, e su un’epica di senso e intrattenimento che cresca in modo originale secondo le forme della nostra anatomia e secondo le urgenze del nostro presente. Forse oggi, finalmnte, possiamo azzardare connessioni ed esplorazioni possibili solo con la messa in scena letteraria.
Siena, ottobre 2008.
* Daniele Marotta è autore di fumetti e studioso di fantasy, horror e cultura popolare. E’ autore del libro Conan e Frodo. Storia del fantasy alla ricerca di J.R.R. Tolkien e Robert E. Howard, Simonelli, 2007, acquistabile qui. Questo è il suo sito.
NEWS VARIE
Sul sito di Scrittura Industriale Collettiva è disponibile l’mp3 della relazione tenuta da Vanni Santoni e Gregorio Magini alla conferenza “The Italian Perspective on Metahistorical Fiction: The New Italian Epic”, Institute of Germanic and Romance Studies, University of London, UK, 2 ottobre 2008. Aggiornamenti sul festival Scrittorincittà 2008, Cuneo, 13-16 novembre (PDF). Ricordiamo che in quel contesto si terrà il dibattito “New Italian Epic: gli stati generali della narrazione”, con la partecipazione di Wu Ming 1, Wu Ming 5, Carlo Lucarelli, Antonio Scurati, Letizia Muratori, Mauro Gervasini e Giuseppe Genna. Coordina Loredana Lipperini. Il 14 novembre Wu Ming 1 e Wu Ming 5 parleranno di New Italian Epic a Torino, al circolo ARCI “Fuori luogo”. Seguiranno dettagli. Sabato scorso, 18 ottobre, sul quotidiano spagnolo Público è apparso uno speciale di due pagine sul NIE. Interessante non tanto per quel che dice (a un lettore italiano la ricostruzione appare inevitabilmente rozza), ma per l’interesse che rivela e segnala e i pareri spagnoli che raccoglie (ancora incerti, ma curiosi). |