di Bushra Al Said
[Dal 4 all’8 Gennaio l’ABSPP (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) ha svolto una missione umanitaria in Libano per dare calore ai più bisognosi che stanno vivendo un gelido inverno]
5 gennaio 2016 Libano
Ci sono occhi che non possono credere, allora guardano ed assorbono, poi.
Senza ripararmi dalla pioggia volevo stare in fila in mezzo a loro ed aspettare gli aiuti, provare a stare sotto la pioggia, bagnandomi i vestiti, il velo, la borsa, e saggiare le mie emozioni.
Prima tappa: Mazbud
Distribuzione di combustibile per il riscaldamento domestico a 98 famiglie palestinesi.
La pioggia imbratta le strade, i marciapiedi.
Due piccoli piedi infangati nuotano dentro le ballerine della madre, forse, i pantaloni le scivolano dai piccoli fianchi.
Seconda tappa: Zarut
64 famiglie palestinesi da sfamare. Pacchi viveri 22 kg ciascuno.
Le risate dei bambini mi riempiono l’anima. Hanno i capelli arruffati, attaccati sulla fronte per la pioggia battente, ma i sorrisi illuminano i loro volti.
Il magazzino sembra un caleidoscopio, tanti colori, emozioni, sembra quasi di vedere un arcobaleno tra quei materassi, hanno un colore cosí sgargiante che fa quasi male guardarli, sono un contrasto rispetto alla miseria delle folla che spinge e grida. Sono 200 i materassi, uno sopra l’altro.
Le coperte lì accanto hanno colori più tenui, sono più empatiche.
Non hanno diritti i profughi Palestinesi in Libano.
Sono 70 i mestieri che non possono svolgere e alle ambulanze, in alcuni campi profughi, non è concesso entrare. In una piccola stanza possono viverci anche 10 persone. Non c’è spazio, aria. Si fa a turno per dormire. Le donne di notte, gli uomini di giorno.
La neve ai margini della strada è sporca, le cime delle montagne sono bianche, sento il freddo fin sotto la pelle. 30 famiglie ci aspettano al gelo. Ogni famiglia occupa una stanza per un totale di 30 stanze.
Ci sono alcune fessure tra le pareti d’alluminio che compongono i container abitativi, tappate con buste o vestiti. Per la tanta neve, alle volte, il tetto del container non regge e allora cede lasciando indifeso chi vi abita. Vestiti, berretti invernali, stivali, materassi, carburante, pacchi viveri, latte per i bimbi, coperte riempiono il magazzino.
Una donna stringe forte al petto una cappotto dalle piccole maniche, l’etichetta penzola dal bordo.
La felicità non ha bisogno di molto.
A volte vorrei poter impacchettare certe emozioni e tirarle fuori nel momento del bisogno.
Ma non è forse questo il compito dei ricordi?
Dei bambini a fine giornata ci cantano “Mawtini”, hanno gli occhi lucidi, le scarpe imbrattate di fango e la bocca che sa di caramelle.
Sono queste le reminiscenze che vorrei abitassero la mia mente: tanti bambini sporchi di vita che ridono.
7 gennaio 2016 Libano
Abbiamo riscontrato che molte famiglie possiedono già ciò che noi offriamo loro come coperte, materassi o cibo e che alle volte li rivendono a basso prezzo pur di comprare ciò di cui necessitano e che noi ignoriamo, così l’associazione ABSPP nel campo profughi Bourj el Barajneh ha preferito donare alle famiglie denaro affinché ognuna provveda al meglio alle proprie necessità.
Una bambina mi guarda dall’uscio di una porta, tengo del denaro tra le mani e quando le do un bacio sulla guancia lo trasferisco tra le sue, mi guarda mortificata “no riprendili” mi dice. Gli occhi lucidi, le gote rosse. Non riesco a concepire tanta umiltà in un posto tanto ingiusto.
Bourj el Barajneh, un chilometro quadrato di muri grigi bucherellati, piccole finestre, tubi d’acqua, sporcizia, ragnatele di fili elettrici, porte arrugginite e decine di migliaia di vite imprigionate.
Rivoli d’acqua bagnano gli stretti e sghembi vicoli tra i palazzi ammassati. Da lontano il campo profughi sembra solo un ammasso di case abbandonate a se stesse, ma avvicinandomi sento la radio da una delle finestre, le risate di alcune ragazze, le grida di una donna, vedo dei panni stesi ad asciugare sopra i fili elettrici, delle scarpe orfane agli angoli dei vicoli.
Ho il fiato corto, le narici cariche di odore fetido, la bocca zeppa di parole che vorrei urlare, incastonate tra i denti. Mi sento claustrofobica, chiusa in un barattolo.
Vorrei scappare, ho come un macigno sul petto, annaspo.
Un edificio dista dall’altro solo un metro, a volte anche meno, se alzo la testa non vedo altro che tubi d’acqua gocciolanti su fili elettrici sottostanti, un ragazzo qualche mese fa ha perso la vita, folgorato. Ma non è stato portato come è di consuetudine dai suoi famigliari per l’addio, ma direttamente sepolto :”non abbiamo possibilità e capacità di portare le salme sino a casa, questi vicoli sono troppo stretti”.
Mi basta avvicinarmi un attimo per sentirli gridare. Le porte, i muri, le finestre, i panni stesi, le gocce d’acqua, i tubi, le scarpe, gli occhi delle persone che mi passano accanto gridano, ma non c’è via di scampo, nessuna via d’uscita. Il mondo da oltre 60 anni vi ha incastrati in questo chilometro quadrato e ci passerete una vita intera mentre l’umanità là fuori guarda e tace.
Su un muro è appeso un piccolo cesto di pallacanestro, sembra nuovo, come se mai nessuna palla l’avesse attraversato. L’illusione di un futuro forse o il ricordo di un tempo sbiadito.
Appena fuori dal campo sento di poter nuovamente respirare, mi volto indietro per l’ultima volta, degli occhietti da una minuscola fessura mi osservano, li sento. Di rimando gli sussurro “Brillerai”.
Ma li sento ancora addosso, mi gridavano “Non lasciarmi in quest’aria scura, come una lucciola senza buio”.
(Tutte le fotografie sono state realizzate dall’autrice dell’articolo)