di Sandro Moiso
“Don’t think twice, it’s alright”
(Bob Dylan)
Oggi le manifestazioni, prima e durante gi eventuali incidenti di piazza, sono rumorose. A tratti isteriche. Mentre di quegli anni ricordo le facce tese, i timori, il silenzio.
Silenzio interrotto dalle sirene, dai botti dei lacrimogeni, delle molotov, degli spari di qualche agente e dagli ordini impartiti. Dall’una e dall’altra parte.
Lo scalpiccio sulla strada durante la rincorsa per l’assalto o la fuga.
Ai passamontagna di seta affidavamo il nostro anonimato, la nostra protezione. Al compagno o alla compagna che ci stava a fianco affidavamo la nostra salvezza. Quanti mantennero la promessa, come fece Riccardo con me? E quanti la tradirono? E con le telecamere sparse in ogni angolo di città, basterebbe ancora coprirsi il volto soltanto prima dello scontro?
“Cordoni, compagni!” ed occorreva tenerli. Per pochi minuti o pochi secondi, non importava. Per fermare l’urto o, almeno, rallentarlo.
Per permettere ad altri di allontanarsi o di posizionarsi diversamente
Era la guerra. La guerra di classe di quegli anni.
Era la nostra azione di classe. Alla fine il lavoro politico di massa sfociava lì.
Così ci vollero le organizzazioni, per poi smentirlo nei decenni successivi.
Perché i leader fallimentari di allora potessero poi dire che il loro intento era stato altro. Sì, questa è una certezza: furono i leader a fallire, non noi.
Oggi forse non potrebbe più essere così.
Ora la violenza antagonista sembra scimmiottare un passato, forse, finito. Una violenza, anche solo difensiva, che sembra più preoccupata della propria autorappresentazione che della possibilità di dispiegarsi efficacemente.
Così assisto a marce e proteste pacifiche e ad arresti e fermi. Mentre la violenza dello Stato sempre uguale, sembra farsi sempre più cruda e senza limiti. Nemmeno di decenza.
Vedo assassini in divisa essere prosciolti da ogni colpa.
E vedo ancora processi in cui sono richieste pene terribili per atti di poco conto.
Ma devo chiedermi: i poteri hanno paura di una nuova esplosione di violenza o la vogliono causare? Vogliono ancora attirare in una trappola mortale i movimenti, come alla fine degli anni settanta?
D’altra parte se continuassi a credere che solo la nostra via era giusta, non rischierei di far come quei vecchi comunisti che, non riconoscendo nei movimenti che ho vissuto le stesse loro esperienze o le stesse loro iniziative, finirono col buttare il bambino con l’acqua sporca?
La scienza della Rivoluzione è una scienza di sistemi immobili oppure in movimento?
Dobbiamo rimanere ancorati per sempre ad un meccanicismo frutto del seicento e del positivismo oppure accettare il relativismo con cui la fisica cerca di fare i conti fin dall’inizio del Novecento?
Quante sono le variabili di cui i nostri predecessori non hanno tenuto conto?
Di cui noi, in passato, non abbiamo tenuto conto?
Soltanto a partire dal movimento del ’77 si iniziò a ragionare in maniera diversa.
In termini di movimenti e non solo di classe.
Ma quella stagione fu troppo breve. Forse troppo pericolosa. Per tutti e per il PCI e il sindacato in particolare.
Che furono definitivamente, anche se per un breve periodo, esautorati. Come successe a Lama all’università di Roma.
La risata e lo sberleffo avevano costituito la cifra distintiva dei primi mesi di quell’anno.
L’anarchica e liberatoria risata destinata a seppellire burocrati e capitalismo sembrava aver preso il sopravvento insieme alla ricerca della felicità, senza limiti e senza remore.
Era stato ciò a spaventare inizialmente, più delle armi o degli slogan più truci.
Perché il riso corre spesso sulle labbra degli stolti, ma anche dei santi e dei pazzi.
Fummo un po’ tutto questo: illusi come gli stolti, limpidi come i santi e feroci come i pazzi. Ma tutto si legava.
Le nostre illusioni venivano dal sogno rivoluzionario che avevamo assorbito dalle generazioni precedenti; la nostra santità da Kerouac e dalla ricerca della vera felicità; la nostra pazzia dalla rabbia e dall’orrore per l’essenza di tutto quanto ci circondava ancora e dalla voglia di farla finita una volta per sempre con le differenze che ancora dividevano un mondo grigio ed infelice.
Di classe, genere, etnia, cultura e religione.
Cercando di superare un concetto limitato e, qui da noi, superato, come quello di classe operaia.
La comunità umana. La gemeinwesen del giovane Marx: ecco forse cosa cercavamo di realizzare. Un comunista francese1 la teorizzava già negli anni sessanta. Con la crescente proletarizzazione dell’esistente occorreva uscire dai recinti per comprendere la complessità. Così chi, oggi, punta soltanto sulle lotte operaie subirà una delusione.
Mentre chi usa le vecchie forme sindacali e politiche del movimento operaio come parametri per misurare l’efficacia delle lotte odierne o a venire, sicuramente, subirò ancora una sconfitta.
Scambiando ciò che non può più essere per ciò che dovrebbe essere.
Ma ciò che non è, è tale perché non è più adeguato.
L’Araba Fenice risorge per volare, se non lo fa e soltanto perché non può più farlo con quelle ali.
La storia, soprattutto quella delle lotte di classe, è un flusso.
La possiamo immobilizzare pirandellianamente in una forma soltanto nei libri. O nella retorica.
Ma nel farlo già la stiamo sovvertendo o falsificando. Per questo ho scelto questa scrittura disordinata. Il flusso di pensieri appartiene di più all’oralità che alla scrittura.
E più alla poesia che alla prosa.
Gli antichi, mentre emergevano dall’oralità pura, lo avevano capito.
Erano mica fessi. La prosa serviva a bloccare i dati contabili nei registri.
A fissare le leggi che dovevano dare stabilità ai regni. E al dominio di classe.
Ma la storia, gli dei e gli eroi dovevano essere cantati.
Cambiando l’interpretazione secondo la scelta di chi recitava, il pubblico che ascoltava o, ancora, la capacità mnemonica di chi ricordava. Creando, attraverso l’invenzione, la realtà del flusso della vita. E dei suoi infiniti cambiamenti.
Poi si stabilizzò tutto con un nome: Omero, mai esistito. E abbiamo continuato a fare così.
A fissare la varietà della produzione intellettuale in pochi grandi nomi.
Marx, senza le lotte che gli avevano permesso anche solo di pensare ad un altro mondo.
Shakespeare, senza le improvvisazioni teatrali delle compagnie girovaghe, copiate a loro volta dalle storie narrate per strada. O nelle sale segrete delle ricche dimore.
E poi gli orrori assoluti: i testi sacri, di qualsiasi religione.
Che fissavano nell’uomo l’erede di Dio e il dominatore della natura.
Che di per sé è indomabile. Che può essere distrutta e devastata, ma non domata.
Erano arrivati i testi della vendetta, divina ed umana.
I testi che sono diventati il modello per ogni nuova religione, politica o scientifica che sia.
I dieci comandamenti.
Della chiesa, degli stati, dei partiti, dell’economia basata sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e degli uomini.
Che stabilizzavano forme di schiavitù, vecchie o nuove, per poi fingere di combatterle.
Spazzando via le religioni animistiche e il riconoscimento materialistico delle forze reali che agitano il mondo.
Un altro comunista2, più vecchio, aveva teorizzato che il comunismo avrebbe riunito, con un arco millenario, le prime comunità umane, prive di proprietà e di stato, con quella del futuro.
Oggi mi sembra diventata fondamentale ogni lotta in cui la difesa degli interessi economici della maggioranza della specie umana si ricolleghi alla difesa del territorio, dell’ambiente e della salute. Ogni lotta che tenda a superare le differenze di genere ed etnia è oggi proiettata verso il futuro, se condotta a livello di massa, mentre, anche se la contraddizione tra lavoro e capitale resta essenziale, chiudersi nelle fabbriche e nei particolarismi, per rivendicare un lavoro che non c’è più, non porterà più da nessuna parte.
E che, ricordiamolo bene, imparammo fin dagli anni settanta a rifiutare.
Il lavoro salariato ha contraddistinto l’800 e il ‘900. Farne ancora un verbo per il XXI secolo sarebbe suicida. Non l’avevano capito solo l’autonomia o l’operaismo.
Già nel 1890, in una lettera indirizzata al Congresso della Socialdemocrazia tedesca di Halle, Antonio Labriola aveva scritto che non avremmo mai più dovuto rivendicare il diritto al lavoro, base di ogni cesarismo. Occorre saltare oltre la società basata sullo sfruttamento e l’accumulazione di profitti. E non sono convinto che lo si possa fare soltanto in nome della classe operaia.
Perché è la specie nella sua interezza a non poter più convivere con il capitale.
Scriveva un giovane Engels nel 1844-45: ”Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato un ruolo storico mondiale, non è perché considerino i proletari degli dei. E’ piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l’astrazione di ogni umanità, perfino dell’apparenza dell’umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tute le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l’uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperiosa espressione pratica della necessità: proprio per ciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l’intero proletariato s’immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere”.
Che dire oggi, quando la vita della maggioranza assoluta ha perso qualsiasi valore e dignità umana?
Quando i primi 85 Paperoni possiedono l’equivalente di ciò che possiedono gli ultimi tre miliardi e mezzo di donne e di uomini? Cos’è oggi la classe?
Quali sono le forme politiche ed organizzative in cui potrà esprimere meglio il suo progetto di liberazione?
La domanda resta aperta e, come sempre, sarà soltanto il divenire delle lotte a fornire le risposte più utili ed efficaci.
L’unica cosa sicura è che non esistono verità e certezze assolute. D’altra parte anche le grandi verità storiche rischiano nel tempo di assumere la fissità della morte. Se la vita è cambiamento, e i movimenti reali ne hanno da sempre costituito la testimonianza, ogni ipostatizzazione formale degli avvenimenti che hanno di volta in volta trasformato e modificato, anche radicalmente, la realtà sociale non può che corrispondere ad una scelta conservatrice e, sostanzialmente, controrivoluzionaria. I regimi e le tirannidi, così come le sette, hanno sempre avuto bisogno di verità assolute, di continuità e tradizioni reinventate, la comunità umana in divenire no.
“Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” (Ideologia tedesca – Karl Marx e Friedrich Engels, 1846)
(Fine)
Jaques Camatte, Il capitale totale, Dedalo 1976 e Verso la comunità umana, Jaca Book 1978 ↩
“Le violente scintille che scoccarono tra i reofori della nostra dialettica ci hanno appreso che è compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale” Amadeo Bordiga ↩