di Dziga Cacace
È passato a un diverso livello di realtà, David Bowie, e da stamattina è un proliferare di prime pagine online: per un click in più si invita a vedere la Gif virale, a votare il look preferito, persino a indagare la dieta del Duca Bianco.
E vai con le frasi fatte sul Camaleonte del Rock (eeh, ci toccheranno anche quelle sul Menestrello di Duluth o sul Folletto di Minneapolis, speriamo il più tardi possibile, o magari anche sul Nano di Arcore), ripercorrendo le tappe della sua carriera magnificamente cangiante e discettando di Blackstar, l’ultimo album diventato automaticamente il testamento dell’artista. Va bene, inutile fare il moralista da social col ditino alzato, ma da par mio mi va di scrivere giusto due righe sulla parentesi musicale che tutti stanno dimenticando e che invece è paradigmatica di come Bowie sia stato un artista geniale, capace di reinventarsi ogni volta. Mi riferisco a quando ha deciso di far parte di una band, con identici diritti e doveri dei compagni di squadra: i Tin Machine, esperienza non solo sottovalutata ma anche apertamente osteggiata da tantissima critica dell’epoca e mai pienamente rivalutata dopo.
David esce da degli anni Ottanta non esattamente memorabili e dopo il mezzo flop del megalomane Glass Spider Tour decide per un approccio muscolare – decisamente hard – alla materia rock, ispirandosi ai Pixies ma anche impressionato dai fantastici coevi Living Colour. Per farlo imbraccia un’acustica e si mette in combutta col chitarrista Reeves Gabrels, un virtuoso ultrasonico tipo Robert Fripp e Andrew Belew fusi assieme, per dire. E per la sezione ritmica chiama i micidiali fratelli Sales, Hunt e Tony, già in Lust for Life di Iggy Pop. Cambia anche il look: capelli corti e barbetta per David e completi neri per tutti, senza differenze gerarchiche.
Il primo omonimo album esce a metà 1989: la novità è accolta tiepidamente dalla stampa anche se il disco vende abbastanza. Oggi tutti esaltano la versatilità di David Robert Jones ma allora si rimproverò l’ennesima trovata musicale per stupire (in effetti, seppur con grande autonomia e personalità, tolto il metal cimiteriale e il Polka Revival, Bowie ha costeggiato quasi tutto) con la precisa accusa di essere un poseur alla ricerca di una legittimazione rock dopo anni di pop, per non parlare dell’ambizione di scrivere testi con aspirazioni sociopolitiche (vedi anche il recupero di Working Class Hero di John Lennon).
Nell’esordio c’è un po’ di Scary Monsters, ma col feedback ulcerante, gli accordi grossi, la batteria che pesta indemoniata e il basso profondo e cattivo. Questo volume di fuoco, con liriche che parlano di disagio metropolitano e d’insoddisfazione anticipando quasi il grunge, disorienta i critici che non avevano capito che il decennio senza chitarre, gli anni Ottanta, era ormai finito.
Il secondo album, semplicemente Tin Machine II, del settembre 1991, se aumenta le dissonanze rumoristiche – con tratti quasi industrial – cura anche di più la melodia, soffrendo forse un po’ di eterogeneità. Stavolta il responso critico è sprezzante e si fa ironia anche sulla copertina del disco, censurata in quegli USA che temono i pisellini dei quattro kouroi secolari rappresentati. Non piace anche che il portavoce del gruppo sia il batterista, uno che esibiva una schiena col tatuaggione “It’s My Life”, cosa che all’epoca faceva grande scalpore (quando oggi qualunque burino ha scritto in caratteri gotici il nome della figlia sull’avambraccio). A fronte dei risultati di vendita stavolta vacilla anche Bowie che presto ritorna alla carriera solista. Ci sarà tempo solo per un ultimo disco live, un po’ raffazzonato ma coi suoi momenti, Oy Vey, Baby del luglio 1992.
Ecco, di quell’esperienza intensa, probabilmente in anticipo sui tempi, con un Bowie quasi zappiano nel suo essere “più duro di tuo marito”, oggi si ricorda poco: qualche menzione a piè pagina, nient’altro. Così come si sorvola – tra le tantissime cose che questo artista ha saputo fare – sul recupero di Lou Reed e Iggy Pop quando stavano alla frutta nonché sul lancio di Stevie Ray Vaughan ai tempi di Let’s Dance.
Ci sarà tempo per riparlarne, dopo le celebrazioni frettolose di questi giorni. Intanto mettete sul piatto anche i Tin Machine e celebrate David Bowie ad alto volume.
@DzigaCacace mette i dischi su Twitter.