di Gioacchino Toni
Vittorio Gallese, Michele Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 318 pagine, € 25,00
Il saggio, scritto da un neuroscienziato ed un teorico del cinema, indaga la relazione che lega lo spettatore alle immagini cinematografiche, il tipo di rapporto intersoggettivo che si instaura tra gli spettatori ed i mondi possibili della finzione prodotti dal cinema. Le neuroscienze hanno da tempo evidenziato quanto l’intelligenza umana sia legata alla corporeità degli individui e come quest’ultima si realizzi pienamente attraverso l’esperienza. Il corpo ha un ruolo centrale nelle pratiche di simulazione che gli individui mettono in campo tanto nella vita quotidiana, quanto nelle esperienze estetiche e mediate. La risonanza motoria che il linguaggio cinematografico è capace di generare nello spettatore è un tema scarsamente affrontato dagli studi sul cinema, in questo saggio viene proposto un approccio al cinema caratterizzato come “estetica sperimentale”, intendendo con estetica la percezione multimodale del mondo attraverso il corpo.
Forti dell’idea che le neuroscienze possano contribuire a comprendere il funzionamento del cinema ed il suo rapporto con gli spettatori, gli autori si propongono di articolare un nuovo modello di percezione e dell’iniziale comprensione del mondo da essa generata che possa essere applicato tanto all’esperienza della vita reale, quanto a quella del mondo della finzione cinematografica. Da ciò la definizione della teoria della “simulazione incarnata” (embodied simulation) che, sostengono gli autori, costituisce un «meccanismo di funzionamento di base del sistema cervello-corpo dei primati, uomo incluso» (p. 15). Grazie a ciò, affermano Gallese e Guerra, risulta possibile instaurare una relazione diretta non-linguistica con lo spazio, gli oggetti, le azioni e le sensazioni altrui attraverso l’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie del cervello del fruitore. Una delle ipotesi del saggio ritiene che tale meccanismo sia coinvolto nella generazione delle capacità immaginative umane. «La simulazione incarnata […] costruisce sulle evidenze neurofisiologiche un modello integrato ed empiricamente fondato della relazione con le immagini e coi film», tale teoria tenta di chiarire «importanti aspetti della costruzione del film, della sua ricezione e della sua specificità estetica» (p. 15).
Gli autori intendono ricavare dalle neuroscienze un contributo alla percezione delle immagini e costruzione delle relazioni tra individuo e realtà e tra individuo ed altri suoi simili. L’approccio neuroscientifico al cinema proposto dal saggio sottolinea la volontà di dialogare con altri approcci e discipline ed intende darsi come obiettivo «il sapere coniugare in maniera proficua la dimensione esperienziale e in prima persona con la ricerca dei sottostanti processi e meccanismi sub-personali espressi dal cervello e dai neuroni che lo compongono» (p. 16).
Gallese e Guerra sono convinti che vedere il mondo significa sempre anche guardarlo per capirlo; «l’esperienza visiva del mondo è il risultato di processi di integrazione multimodale, di cui il sistema motorio è un attore principale» (p. 16). L’integrazione multimodale di ciò che viene percepito avviene sulla base delle potenzialità d’azione (intenzionali) espresse dal corpo (inserito in un mondo abitato da simili). Attraverso la simulazione incarnata si costruiscono le rappresentazioni non verbali dello spazio e ci si rapporta in modo altrettanto non verbale alle cose ed agli altri esseri umani. La simulazione incarnata descrive, da un punto di vista funzionale, meccanismi neurali che mettono l’individuo in risonanza col mondo dando luogo ad una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto ed oggetto, io e tu. I due studiosi sottolineano che, pur avendo tratti in comune con l’empatia, la simulazione incarnata non può essere identificata con essa avendo un’applicazione assai più diversificata e vasta. Nel saggio viene delineato anche il concetto di “simulazione liberata”, una particolare espressione della simulazione incarnata che consente di comprendere meglio «la particolarità e insularità estetica dell’esperienza della […] finzione narrativa cinematografica» (p. 17), mostrando affinità e differenze rispetto all’esperienza di ciò che viene definito “mondo reale”.
Il saggio inizia (Primo capitolo) definendo le basi epistemologiche e neuroscientifiche poi applicate nei capitoli seguenti, di seguito (Secondo capitolo) vengono esaminate le forme della soggettività dispiegate dal cinema, indagando come esso abbia tentato di «creare una sovrapposizione credibile tra lo sguardo della macchina da presa ed il punto di vista dello spettatore, delegando alla macchina la responsabilità di simulare l’immanenza di un corpo umano entro lo spazio dell’inquadratura» (p. 18). Successivamente (Terzo capitolo) vengono analizzati i diversi movimenti di macchina ed i tipi di risonanza motoria che questi inducono nel pubblico e (Quarto capitolo) vengono indagati i diversi tipi di montaggio analizzandone le ricadute sullo spettatore. Nell’ultima parte del testo (Quinto capitolo) si riflette sul primo piano e sulla texture dell’immagine cinematografica ed, infine, (Sesto capitolo) si ragiona sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento.
Uno dei due studiosi, Vittorio Gallese, ha fatto parte del gruppo che nei primi anni ’90 ha individuato i “neuroni specchio” e da tale ricerca è emerso come si attivino i medesimi neuroni nel presiedere e controllare un movimento tanto in chi lo compie, quanto in chi lo guarda compiere. Ciò ha evidentemente aperto numerose riflessioni circa le modalità di apprendimento e l’empatia.
Dal punto di vista cinematografico, l’obiettivo di ogni regista è, per certi versi, quello di coinvolgere lo spettatore sino a portarlo “dentro” al film. Lo spettatore, pur seduto in poltrona al cinema, quando osserva un film è capace di “simularsi in azione” all’interno di quello spazio bidimensionale che è lo schermo. A partire dalla teoria della simulazione incarnata, legata alla scoperta dei neuroni specchio, gli studiosi tentano di capire in che modo il cinema favorisca tale tipo di immedesimazione.
Tra i diversi esempi riportati dal saggio, vale la pena soffermarsi su una sequenza di Notorius (di Alfred Hitchcock, 1946), realizzata attraverso un movimento di macchina che riflette l’immedesimazione dello spettatore. Si tratta della sequenza in cui la protagonista, Alicia, interpretata da Ingrid Bergman, deve rubare la chiave al marito per accedere alla cantina in cui si trovano alcune pericolose bottiglie di uranio. Hitchcock avverte lo spettatore dei pericoli che la donna corre mostrando l’ombra dell’uomo oltre la vicina porta del bagno socchiusa. Il regista inglese è un maestro nel giocare con la suspense dello spettatore (vero obiettivo del film, essendo la trama narrata in realtà molto esile e pretestuosa) ed in questa scena decide di ricorre ad un movimento di macchina che è una “falsa soggettiva” cioè, ad un certo punto, la macchina da presa inizia a muoversi in avanti attraverso un «movimento complesso, che piega lievemente verso sinistra e man mano che procede si abbassa verso la superficie del tavolo fino a enfatizzare il dettaglio del mazzo di chiavi. Proprio nel momento in cui il mazzo è, per così dire, a portata di mano, un taglio di montaggio ci mostra Alicia, in figura intera, ancora ferma sulla soglia della stanza» (p. 95). Lo spettatore carica quel movimento di un significato corporeo, cioè “si muove” convinto che la protagonista si stia avvicinando al tavolo, poi il regista mette a fuoco le chiavi stimolando nello spettatore la simulazione del gesto dell’afferrare, cioè attivando quei neuroni canonici che stimolano tale tipo di funzione. In quel momento lo spettatore ritiene che la missione della donna sia andata a buon fine, che le chiavi siano ormai state prese, mentre, improvvisamente, scopre che la donna è restata ferma sulla soglia. Tale forma di proiezione dello spettatore all’interno dello spazio del film, fino alle chiavi, è stata solo una forma di simulazione, dunque il film, giocando con la capacità proiettiva dello spettatore, lo ha portato a muoversi in quello spazio, perché, fino a quel momento, ad essersi mosso è lo spettatore cinematografico, mentre a non averlo fatto è la protagonista che restata ferma.
«La simulazione motoria ci ha a tal punto trascinati nel vivo della sequenza che quando Hitchcock ci mette di fronte all’irrealtà di quel movimento (che è stato soltanto una proiezione mentale del personaggio, e nostra) siamo come frustrati: Alicia non si è affatto avvicinata alle chiavi, è ancora ferma sulla soglia, lo scarico di tensione che si era consumato nel momento del dettaglio sul mazzo di chiavi viene annullato, e la suspense rilanciata con potenza ancora maggiore» (p. 98).
Nell’indagare come i diversi tipi di montaggio abbiano ricadute sullo spettatore, tra gli altri, il saggio ricostruisce la celebre sequenza tratta da Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, di Jonathan Demme, 1991) in cui gli agenti, credendo di aver individuato il luogo in cui si nasconde il serial killer, finiscono con il fare irruzione nell’abitazione sbagliata mentre, altrove, nel medesimo momento, l’agente Sterling, interpretata da Jodie Foster, si trova, sola, alla porta del pericoloso assassino. Il film mostra alternativamente l’esterno dell’abitazione del serial killer, ove la polizia sta circondando la casa, e l’interno ove l’uomo tiene prigioniera la nuova vittima.
La sequenza si protrae facendo credere all’osservatore che si tratti del medesimo luogo ed al suonare del campanello da parte di un agente sotto copertura (si finge un fiorista che deve consegnare un pacco) l’uomo si appresta, dopo essersi ricomposto, ad aprire la porta e, solo in quel momento, si apprende che si tratta di due luoghi differenti: la polizia fa irruzione in un’abitazione disabitata mentre il serial killer, altrove, apre la porta alla solitaria Sterling che indaga autonomamente. In questo caso, scrivono gli autori del saggio, «la suspense non è gestita attraverso movimenti di macchina particolari, o attraverso pratiche di sovrapposizione di sguardi, ma si fonda su un impiego magistrale e ingannevole del cosiddetto montaggio continuo, prendendo in contropiede la piena fiducia che lo spettatore ripone in questa diffusissima tecnica narrativa. Il montaggio continuo caratterizza la stragrande maggioranza dei film, dei video […] questa tecnica […] si è dimostrata nel tempo la più capace di farci accedere con naturalezza alla dimensione della finzione narrativa» (p. 175).
Secondo Gallese e Guerra tali modalità narrative intendono creare sequenze di inquadrature che agli occhi dello spettatore devono essere percepite come “oggettive”, capaci di rendere intelligibili i rapporti di intersoggettività e le situazioni in cui si vengono a trovare i personaggi e quando tale “oggettività” viene meno, ciò viene esplicitato da un cambio di prospettiva, come nel caso delle inquadrature in soggettiva. Neuroscienziati e psicologi della visione hanno recentemente osservato come «le convenzioni formali su cui si fonda questo tipo di montaggio (che viene etichettato come “hollywoodiano”, ma è diffuso in tutte le produzioni) sono compatibili con le dinamiche naturali dell’attenzione e delle nostre aspettative sulla continuità di spazio, tempo e azione e i modi in cui siamo in grado di soprassedere alle differenze tra i film e la realtà ci offrono un’ottima prospettiva di studio anche su come utilizziamo quotidianamente i medesimi processi fisici e cognitivi impiegati al cinema nel percepire la continuità del mondo reale» (pp. 175-176)
Il film, sappiamo, è costruito attraverso una concatenazione di immagini raccordate il più delle volte attraverso un montaggio continuo. In un film hollywoodiano contemporaneo si trovano circa un migliaio di diverse inquadrature, nel caso di un film d’azione possono tranquillamente essere anche il doppio. L’unità spazio-temporale e causale tra le diverse sequenze viene percepita tale nonostante il flusso percettivo sia in realtà dato da una lunga successione discontinua di immagini. Si tenga presente, sottolineano gli autori, che le immagini che raggiungono i nostri occhi sono continuamente interrotte dall’abbassarsi delle palpebre che interrompono per circa 150 millisecondi il flusso visivo dieci/quindi volte al minuto, dunque da ogni minuto di visione della realtà vengono a mancare 1,5 – 2,2 secondi di immagini. Inoltre, ogni minuto, i nostri occhi compiono tra i 2 ed i 5 movimenti saccadici (rapidi movimenti degli occhi eseguiti per portare la zona di interesse a coincidere con la fovea) che determinano un momento di cecità della medesima lunghezza di quello indotto dagli ammiccamenti. Da tale punto di vista, sostengono gli autori, occorre dire che la visione della realtà e la visione di un film hanno in comune una condizione di discontinuità. Il montaggio ha pertanto saputo trarre vantaggio dalla natura della visione sfruttandone le caratteristiche al fine di potenziare il senso di continuità che consente allo spettatore di immergersi nella narrazione cinematografica.
Diversi studi empirici hanno dimostrato che una narrazione per immagini che sfrutta il montaggio continuo viene compresa facilmente anche da chi non ha avuto contatti precedenti con il linguaggio cinematografico. Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato che durante la visione di un film lo spettatore adatta ammiccamenti e movimenti saccadici a quanto sta osservando sullo schermo; gli intervalli fisiologici dell’occhio tendono a concentrarsi maggiormente nei momenti in cui l’attenzione per quanto viene proiettato diminuisce (es. durante un’interruzione tra un evento e l’altro). Quando il taglio del montaggio coincide con i momenti di ridotta attenzione, questo viene meno percepito dal pubblico. «L’efficacia delle tecniche di montaggio continuo dipende moltissimo dalla tipologia di immagini che si succedono prima e dopo il taglio» (p. 195).
Nella normale visione quotidiana i momenti di pausa visiva o di movimento degli occhi non compromettono l’esperienza soggettiva dell’individuo di una visione continua e coerente col mondo e ciò è dovuto alla capacità di anticipare l’esistenza, la localizzazione spaziale e i contenuti di ciò che si osserva grazie alle precedenti esperienze visive. Il montaggio continuo si basa sul rapporto tra anticipazione predittiva di ciò che verrà visto successivamente e percezione continua degli eventi narrati. Nel cinema si parla a proposito di ciò di “regola dei 180°”, cioè lo spazio in cui si filma deve essere pensato come diviso a metà da un asse ai cui antipodi prendono posto la macchina da presa e lo spazio profilmico (spazio ove si svolge l’azione da riprendere). Quando il montaggio non rispetta la “regola dei 180°” (“scavalcamento di campo”) viene fortemente notato dal pubblico; l’infrazione della regola determinerebbe un montaggio discontinuo in cui l’inquadratura successiva al taglio è ripresa da una posizione della macchina da presa che oltrepassa la linea dell’asse. Gli autori sottolineano come uno scavalcamento di campo comporti un’inversione speculare di quanto ripreso prima del taglio e lo spettatore si trova a sperimentare un’inversione della prospettiva egocentrica, perciò, «la seconda inquadratura montata violando la regola dei 180° non rappresenta soltanto un’incongruenza da un punto di vista visivo, ma si caratterizza anche per una profonda incongruenza sensori-motoria, causando una temporanea sospensione della simulazione incarnata mediante cui ci immergiamo nella scena [favorendo così] la focalizzazione della nostra attenzione sul taglio più che sul contenuto dell’azione filmata» (pp. 197-198). La dissonanza percettiva causata dall’assistere ad una sequenza montata violando al regola dei 180° viola le «aspettative sensori-motorie generate dalla nostra esperienza di interazione corporea e fattuale col mondo [ed interferisce] con il funzionamento dei meccanismi cerebrali che normalmente presiedono alla nostra produzione di azioni e alla loro osservazione quando eseguite da altri» (p. 198).
A partire dall’incipit di Persona (di Ingmar Bergman, 1966) Gallese e Guerra analizzano la valenza tattile e apatica determinata dalla visione di volti, mani, corpi od oggetti in primo piano, riprodotti decisamente fuori scala. L’opera del regista svedese rappresenta sicuramente uno dei film maggiormente legati all’espressività fisica del corpo, mostrato soprattutto attraverso il volto e le mani, e della materialità degli oggetti e della natura. Con tale opera Bergman «riesce a fare della visione il centro espressivo della psicologia dei personaggi e della loro ambigua ricezione da parte degli spettatori, incastonando il tutto in una riflessione metacinematografica sul rapporto tra realtà e rappresentazione, tra ruolo pubblico (di attrice, di infermiera, di madre mancata) e indefinibile identità personale, tra narrazione esplicita di sé e la sottotraccia delle pulsioni e delle memorie implicite che ne scindono la coerenza e ne modificano l’equilibrio, tra dialogo e monologo» (p. 211).
L’ipotesi che intendono verificare i due studiosi è che «il primo piano esalti le qualità riguardanti il dettaglio anatomico, la tessitura, trama e consistenza fisico-materiale dell’immagine, in modo da privilegiare una risonanza tattile e aptica da parte dello spettatore nei confronti delle stesse immagini, grazie all’evocazione potenziata della simulazione incarnata» (p. 217)
L’identificazione immersiva e la partecipazione da essa generata rispetto alle immagini cinematografiche passa attraverso una risonanza motoria con movimenti, azioni ed espressioni dei diversi personaggi, che non richiederebbe il ricorso all’ingrandimento dell’immagine. Il primo piano invece, sostengono gli studiosi, «esalta e focalizza la visione dello spettatore sugli aspetti più materici degli oggetti ripresi, siano essi volti, mani, paesaggi o costruzioni e oggetti prodotti dalla mano umana» (p. 217). A suffragare tale ipotesi concorrono alcune recenti scoperte relative alla «neurofisiologia del sistema somatosensoriale che ne hanno messo in luce la natura multimodale: […] il sistema corticale che mappa le sensazioni tattili, infatti, non si attiva solo quando esprimiamo un contatto sul nostro corpo, ma anche quando lo vediamo esperire a qualcun altro» (p. 217).
Lo schermo empatico si rivela un valido contributo al dibattito circa il nuovo il rapporto tra immagini e reale che, ormai da qualche tempo, viene indagato da diverse angolature. Il fatto che le modalità di fruire le immagini audiovisive siano per molti versi analoghe alle modalità con cui si fruisce il mondo reale offre spunti di riflessione importanti anche al fine di comprendere meglio quello che sembra essere ormai una sorta di groviglio inestricabile in cui risulta sempre più complicato discernere tra reale e finzionale. Il saggio si chiude in un interessante riflessione sul cinema del futuro a partire dalle tecnologie che ne rivoluzioneranno le capacità di coinvolgimento dello spettatore.