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“Era quasi menzanotte e cadiu nella corti e strisciò lu cornicioni ch’era sutta a lu balconi. Era mortu n’allìstanti stiso in terra malamenti e pareva fossi mortu un’istanti prìcidenti. Lu questuri dissi poi non l’abbiamo ucciso noi !” (Franco Trincale)
“Vi giuro che non l’abbiamo ucciso noi !”. È la mattina del 16 dicembre 1969, sono passati quattro giorni dalla strage di Piazza Fontana, e poche ore dal volo di Giuseppe Pinelli da una finestra del quarto piano della Questura di Milano, in via Fatebenefratelli. L’autore della ’excusatio non petita’ è Marcello Guida, questore di Milano, che aggiunge: “Quel poveretto ha agito coerentemente con le proprie idee. Quando si è accorto che lo Stato, che lui combatte, lo stava per incastrare ha agito come avrei agito io stesso se fossi un anarchico”.
Notte bianca per il questore Guida, passata a intrattenere i giornalisti assieme al commissario aggiunto Luigi Calabresi, al capo dell’ufficio politico della questura Antonino Allegra ed al tenente dei carabinieri Savino Lograno. Notte insonne per avvalorare una tesi già strillata dai principali quotidiani, che fin da subito – Corsera in testa – avevano attribuito agli anarchici la paternità politica della bomba. La sera stessa della strage erano stati istruiti in tal senso.
A Guida, quella notte, non rimane dunque che arricchire un copione già in atto con il ‘suicidio’ di un anarchico, da rivendere alla stampa come una palese ammissione di colpa. “Era fortemente indiziato di concorso in strage… era un anarchico individualista… il suo alibi era crollato… non posso dire altro… si è visto perduto… è stato un gesto disperato… una specie di autoaccusa insomma…”. Rincarano la dose Allegra “Lo conoscevamo da tempo, era stato interrogato anche per gli attentati del 25 aprile”, e Calabresi “Lo credevamo incapace di violenze, invece… è risultato collegato a persone sospette… le sue erano implicazioni politiche…”1.
Licia Pinelli, che in quel momento sta correndo in ospedale, non sa che suo marito è morto, e nemmeno che in questura stanno cercando di ucciderlo ancora, sporcandone il nome. Licia ha saputo dai giornalisti, che sono andati a svegliarla a casa, che suo marito è caduto da una finestra della questura. È stata lei a dover chiamare via Fatebenefratelli per averne conferma. “Perché non mi ha avvisata?”, ha chiesto a Calabresi. “Ma sa signora – si è sentita rispondere – abbiamo molto da fare”. All’ospedale, davanti al corpo di Pino senza vita, sua suocera l’avverte: “Licia, vedrà domani i giornali … gli daranno la colpa di tutto”. Ed ha ragione. Di lì a poco l’arresto di Valpedra è la quadratura del cerchio: un anarchico è colpevole di strage, un altro si suicida sentendosi incastrato.
Il 17 dicembre il ‘Corriere d’informazione’ (edizione pomeridiana del Corriere della Sera) titola accanto alla foto di Valpreda: ‘La furia della bestia umana’. L’articolo che segue è forse più becero del titolo: “La macchina del terrore è saltata, ormai si tratta soltanto di raccoglierne le schegge. La bestia umana che ha fatto i quattordici morti di piazza Fontana e forse anche il morto, il suicida di via Fatebenefratelli, è stata presa, è inchiodata: la sua faccia è qui, su questa pagina di giornale, non la dimenticheremo mai”.
Dalla RAI anche Bruno Vespa (ebbene si ! Imperversava anche allora !) emette la sentenza: “Pietro è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano e degli attentati di Roma“. Tutta la stampa, ad eccezione di Lotta Continua, diffonde senza alcuna obiezione o perplessità le veline delle questure, compresi nuovi dettagli sulla dinamica della morte di Pinelli e sulla sua prodigiosa agilità. Con uno scatto felino, eludendo la sorveglianza di cinque agenti, il ferroviere anarchico si sarebbe tuffato oltre la finestra, dopo aver appreso da Calabresi che l’amico Valpreda aveva confessato la propria colpevolezza per la strage. Prima di lanciarsi, avrebbe gridato “Allora è la fine dell’Anarchia !”
Non tutti però credono alle veline. Duemila persone sfilano al funerale, coi pugni chiusi e le bandiere nere. Pochissimi in confronto ai cortei dell’epoca, ma a Licia sembrano “tantissima gente se pensi alla paura di quei giorni, al linciaggio. All’Università solo in 23 avevano firmato quella lettera in cui dicevano di non credere al suicidio di Pino. E tutto il quartiere era circondato da polizia e carabinieri. Polizia dappertutto”2.
Pian piano però le testimonianze di chi l’ha conosciuto, cominciano a farsi strada. Persone insolite frequentavano questo pericoloso anarchico: intellettuali cristiani, quali Bruno Manghi e Luigi Ruggiu, e Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico. Tutti ne ricostruiscono la generosità smisurata, l’apertura mentale, la curiosità, l’umanesimo, la purezza.
Gozzini così lo ricorda: “Io gli parlavo di ‘società basata sull’egoismo istituzionalizzato,’ di ‘disordine costituito,’ di ‘lotta di classe’ e lui mi riportava oltre le formule, alla radice dei problemi, incrollabile nella sua fede nell’uomo e nella necessità di edificare ‘l’uomo nuovo,’ lavorando dal basso…. Viveva del suo lavoro, povero ‘come gli uccelli dell’aria,’ solido negli affetti, assetato di amicizia, e gli amici li scuoteva con la sua inesauribile carica umana. Le etichette non mi sono mai piaciute. Quella che hanno appioppato a Pinelli: ‘anarchico individualista,’ è melensa, per non dire sconcia. Si è sempre battuto infatti contro l’individualismo delle coscienze addomesticate: lui, ateo, aiutava i cristiani a credere; lui operaio, insegnava agli intellettuali a pensare, finalmente liberi da schemi asfittici….È orribile pensare che si sia potuto sospettare di lui. Che si fosse ucciso non ci ho mai creduto. Alla notizia ho pensato che ‘fosse stato morto,’ ecco quello che ho pensato”3.
Mentre la statura umana di Pino Pinelli riemerge dal fango sotto cui stampa e questura intendevano seppellirla, dalle pagine di Lotta Continua si comincia a smontare il teorema imbastito contro gli anarchici, ad indicare i fascisti e i servizi come gli esecutori della strage, e a collocare gli attentati all’interno di un progetto politico finalizzato a fermare le spinte rivoluzionarie del ’68 e’69, utilizzando la paura e la diffamazione dei movimenti. Un golpe strisciante, meno evidente e più subdolo, perché “i colpi di stato si fanno in molti modi. Non sempre vanno bene i carri armati che possono dar fastidio a una parte della borghesia”4 … “un piano politico (attentato e strage) che, dando l’illusione di accontentare la destra e di favorirne l’azione, è in effetti lo strumento più funzionale ad una stabilizzazione moderata, ad una involuzione « legale e costituzionale », che non è il colpo di stato dei colonnelli“.
Giorno dopo giorno, man mano che emergono sempre più le contraddizioni e l’inconsistenza probatoria della pista anarchica, si sgretolano anche le affermazioni infamanti sulla figura di Pinelli. Anche Calabresi cambia versione smentendo il suo stesso questore: “Non avevamo niente contro di lui, era un bravo ragazzo, l’avremmo rilasciato il giorno dopo.”
Ma in questo modo fa crollare uno dei pilastri a sostegno dell’ipotesi del suicidio, il cui movente risiedeva nel fatto che Pinelli si sentisse incastrato a fronte di gravi indizi di colpevolezza. Fra l’altro, l’ipotesi del suicidio già traballa da tutte le parti, sia perché l’alibi di Pinelli per il 12 dicembre è confermato, sia perché le modalità di caduta da quella finestra del quarto piano somigliano proprio tanto ad una discesa a peso morto .
A ciò si aggiunge la testimonianza di Pasquale Valitutti, fermato assieme a Pinelli, che afferma di aver sentito provenire dalla stanza dell’interrogatorio di Pino “dei rumori sospetti come di una rissa”. Rumori piuttosto strani per un colloquio ufficialmente civile e tranquillo. Valitutti smentisce inoltre la versione di Calabresi, che ha sempre sostenuto di essere uscito da quella stanza prima del ‘balzo felino’5, e le sue dichiarazioni, sempre coerenti, contrastano con quelle degli inquisitori, che invece mutano in continuazione:
“Prima versione: «quando Pinelli ha spalancato la finestra, abbiamo tentato di fermarlo ma non ci siamo riusciti ». Seconda versione: abbiamo tentato di fermarlo « ma ci siamo riusciti solo parzialmente ». Terza versione: «abbiamo tentato di fermarlo e il brigadiere Vito Panessa con un ‘ balzo cercò di afferrarlo e salvarlo; in mano gli rimase soltanto una scarpa del suicida ». E bravo il brigadiere Vito Panessa ! Abile e veloce, ma un po’ miope forse, dal momento che non ha visto che il Pinelli aveva 3 scarpe. Le persone che si sono avvicinate al corpo del «suicida », nell’aiuola del cortile della Questura, affermano infatti di aver visto chiaramente ai piedi di Pinelli le due scarpe di pelle scamosciata. Come si spiega allora la scarpa rimasta in mano al brigadiere Vito Panessa? A meno che questi anarchici non abbiano addirittura tre piedi; gente strana d’altronde, da cui ci si può aspettare qualsiasi cosa”.6
Lotta Continua analizza quotidianamente ogni incongruenza delle versioni ufficiali. Per i suoi redattori (e non solo per loro) non ci sono dubbi: Giuseppe Pinelli è stato assassinato. Ne sono responsabili Guida, Allegra e Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli, assieme al tenente dei C.C. Savino Lograno.
Il giornale evidenzia come in tutte le inchieste sulle bombe dell’ultimo anno (bomba del 25 aprile al padiglione Fiat della stazione centrale, bombe sui treni dell’8 e 9 agosto) si riscontri la presenza del giudice Amati, di Calabresi o Guida, impegnati a perseguitare gli anarchici seguendo teoremi dall’esito infruttuoso, tralasciando invece le piste neofasciste7.
Si denunciano lunghe carcerazioni di anarchici basate su prove false, si raccolgono testimonianze sui pestaggi che coinvolgono gli stessi poliziotti presenti all’interrogatorio di Pinelli:
“Ma quello che più ha influito nel farmi firmare i verbali scritti dalla polizia sono state le percosse e le minacce. Era la prima volta che subivo violenza fisica. Sono stato schiaffeggiato, colpito alla nuca, preso a pugni, mi venivano tirati i capelli, e torti i nervi del collo. Rendeva più terribile le percosse il fatto che avvenivano all’improvviso dopo aver fatto chiudere le imposte, e venivo colpito al buio. In particolare ricordo di essere stato colpito dal dr. Zagari che mi accolse al mio arrivo da Pisa alle 3 di notte con una nutrita scarica di schiaffi, e dagli agenti Mucilli e Panessa. Quanto alle minacce, consistevano nel terrorizzarmi annunciandomi, codice alla mano, a quanti anni di carcere avrei potuto essere condannato, cioè fino a venti anni. Tali minacce mi furono ripetute in carcere da parte del dr. Calabresi”.8
Infine, sulle pagine di L.C. non manca mai, per Calabresi, lo sberleffo della satira.
Nel frattempo, la ‘giustizia’ sul caso Pinelli fa il suo corso … verso un vicolo cieco: il procuratore Caizzi conclude con un’archiviazione l’istruttoria preliminare per la morte del ferroviere, avvalorando in toto la versione della questura. Caizzi non permette nemmeno ai familiari di Pinelli di costituirsi parte civile. In questura tutti sono rimasti al loro posto, in posizioni tali da poter inquinare prove e imbastire provocazioni. Strani interrogatori ai vicini di casa dei Pinelli sembrano ricercare prove di immoralità della madre e della moglie, ree di aver denunciato il questore Guida per le infamie dette sul loro congiunto (denuncia che non avrà nessun seguito).
Ogni via giudiziaria sembra chiudersi, tranne una. Perché Calabresi querela Pio Baldelli, direttore responsabile di Lotta Continua, per diffamazione continuata e aggravata. E commette un errore. (Continua)
Camilla Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Feltrinelli, 1971, pp. 3/4. ↩
Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009, p. 22. ↩
Camilla Cederna, op. cit., p. 5. ↩
Lotta Continua, 17 gennaio 1970. Lotta Continua, 24 marzo 1970. ↩
Cederna, op. cit., p. 7. ↩
Lotta Continua, 21 febbraio 1970 ↩
Lotta Continua , 24 marzo 1970, p. 5. ↩
Lotta Continua, 1° maggio 1970. ↩