di Tito Pulsinelli (dal blog Selvas)
I salti di gioia dei cubani di Miami quando seppero della malattia di Fidel Castro sono un ricordo diafano e comico: possono riporre in cassaforte gli “atti catastali” e titoli di proprietà pre-1959. Il tiranno non cade perchè il film che hanno in testa – e che hanno irradiato al mondo – è semplicemente una fiction. E’ irreale. Cuba non è una tirannia, non ha gulag tropicali, è un Paese sovrano che solo alle porte del Novecento ha scacciato il decaduto impero spagnolo, per dover subire immediatamente l’invasione delle navi da guerra con vessilli a stelle e strisce.
L’indipendenza reale, la sovranità effettiva è arrivata solo con l’entrata all’Avana dei barbudos, e Cuba l’ha difesa con grande coraggio nel corso di mezzo secolo, edificando uno Stato forte e un’economia centralizzata e pianificata.
I gringos non hanno lasciato altra alternativa, poichè nel DNA della loro geopolitica espansionista, i Caraibi erano e restano un mare nostrum.
E il destino di Cuba doveva essere simile a quello di Portorico, Haiti o Repubblica Dominicana. Non ci sono riusciti.
Fidel oggi è un illustre pensionato, c’è stata una transizione di potere, e gli Stati Uniti sono rimasti impotenti, guardando sfuggire la “famosa ora X” che tanto avevano sognato e mitizzato. Dopo il cambio al vertice, Cuba fa i primi passi verso l’evoluzione del sistema economico e guarda avanti, con gli occhi fissi sull’integrazione regionale sudamericana.
I gringos continuano imperterriti con il blocco e l’embargo, come le tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano. Ma non possono fare nulla per impedire che il corso delle cose prenda una china diversa dai loro pietrificati desideri.
Questo dato rispecchia fedelmente il reale rapporto di forze esistente – oggi – tra l’America latina e quella anglosassone.
Cuba è oggi meno isolata, e gli scambi commerciali sono più floridi e diversificati che nel resto della sua storia. Può contare su ragguardevoli giacimenti di idrocarburi che ne garantiranno l’autonomia energetica futura.
L’orizzonte della nuova Cuba è il blocco regionale sudamericano, fa già parte dell’Alternativa Bolivariana delle Americhe (ALBA) e appartiene a Petrocaribe, come tutti i paesi caraibici. Ha buoni rapporti con tutti (meno gli Stati Uniti).
Affermare che “…Raúl Castro vede Chávez come un mal di testa, a causa della sua retorica e della suo atteggiamento duro verso diversi paesi. Chávez non è la persona giusta per aiutare Cuba nel processo di normalizzazione delle relazioni internazionali” (1), è cosa assai discutibile. E’ l’opinione molto personale di Luiz Alberto Moniz Bandeira.
Cuba ha già eccellenti relazioni internazionali, inoltre la collaborazione con il Venezuela le ha garantito la risoluzione del problema energetico: sono finite le interruzioni del servizio elettrico, e questo si riflette positivamente anche sulla produzione.
Il Venezuela ha già riattivato una raffineria “sovietica” dismessa da venti anni, ed è quasi pronta la seconda. PDVSA (l’ente petrolifero statale venezuelano) è impegnata ad attivare l’estrazione e i nuovi pozzi. PDVSA è una multinazionale al 100% statale, mentre Petrobras ha una partecipazione minoritaria dello Stato brasiliano. Per questo la prima è già all’opera.
Il Venezuela, inoltre, si è garantito un servizio nazionale di assistenza medica grazie al baratto petrolio/medici-e-medicine vigente con Cuba.
La visione del Sudamerica di Luiz Alberto Moniz Bandeira è molto carioca, questo è comprensibile, però è approssimativa e inesatta quando dice “…il Venezuela ha i propri problemi economici, nonostante le sue enormi riserve di dollari. A seguito del calmieramento dei prezzi e della crescente inflazione, c’è penuria di medicine e di alimenti di base, come il latte, lo zucchero, le uova, la carne, il pollame”.
Il Venezuela è così dall’inizio del Novecento, quando la scoperta del petrolio, in una nazione di tre milioni di abitanti, distorce e blocca definitivamente la trasformazione nel mondo rurale. Non c’è stata una rivoluzione industriale perchè non è mai estita una borghesia rurale capace di intraprendere qualcosa di serio.
Ha sempre importato il 70% del fabbisogno alimentare, ma oggi questa dipendenza è scesa al 50%; pertanto è riduttivo e fuorviante asserire che “…tutto ciò ricorda a Raúl Castro le distorsioni economiche che obbligarono l’Unione Sovietica a tagliare gli aiuti a Cuba”.
Il Venezuela – al pari del Brasile – è al quinto anno consecutivo di crescita economica sostenuta, e la scarsità cui allude si riferisce all’esplosione mondiale del problema agro-alimetare, che risale a un anno e mezzo addietro. E coincide – tra l’altro – con il patto sull’etanolo sottoscritto da Bush e Lula. A ogni modo, oggi, è la Florida ad aver razionato i beni di consumo di prima necessità.
Moniz Bandeira ignora che lo Stato venezuelano moderno è da sempre poggiato sulla rendita delle sue risorse naturali, ed è sempre stato un grande attore economico, un grande capitalista, che ha finanziato l’iniziativa privata, i privilegi e il livello di vita della élites.
Può permettersi di nazionalizzare tutto – persino la banca – e non sarebbe espropriazione perchè dispone della capacità di indennizare.
Il Venezuela è il frutto del colonialismo delle multinazionali petrolifere del secolo XX, che è capace di pianificare economie totalmente dipendenti, orientate a ri-esportare immediatamente tutti i dollari del petrolio per importare tutto il resto. La rivoluzione bolivariana sarà tale se capovolgerà questa dipendenza.
Cuba ha bisogno del Venezuela, del Brasile, dell’Argentina e dell’Ecuador – e viceversa – perchè il superamento dei limiti di ogni nazione latinoamericana sarà possibile solo con il concorso di tutti gli altri Paesi.
Il blocco regionale non potrà alimentarsi solo con la soia prodotta dalla Monsanto e Cargill in Argentina e Brasile; né la zona industriale di Sao Paulo può prescindere dall’elettricità prodotta dalla mega-centrali del Paraguay. E nessuno può funzionare senza il gas della Bolivia e del Venezuela. La diversificazione produttiva e la fine del latifondismo della soia saranno una meta realistica solo con il blocco regionale sudamericano.
O ci sarà l’integrazione o continuerà la dipendenza e la vulnerabilità – certo relative e variabilili – cui nessuno potrà sfuggire: dal Rio Bravo fino alla Terra del Fuoco. Incluso il Brasile.