di Giulia Maria Urcia Larios
– Ah, ho bisogno di una pausa. Versami un po’ di caffè, già che ce l’hai in mano -. Seraph si stiracchiò e volse lo sguardo verso Maximilian che, imbavagliato e sempre legato, aveva in quel momento un attimo di sollievo dal dolore quasi continuo che provava da ben quattro ore: a turno si erano dati il cambio, e ognuno di loro aveva fatto qualcosa di estremamente doloroso al condannato.
Maximilian era allo stremo, respirava dalla bocca con evidente fatica: non aveva più gli occhi, ma le orbite insanguinate non risaltavano particolarmente sul suo volto tumefatto, privo di naso e pieno di tagli. Ai lati della testa c’erano soltanto due piaghe sanguinanti, perché gli avevano tagliato le orecchie.
Gli erano state slegate le gambe che ora avevano delle angolazioni strane ed erano gonfie, violacee e piene di ferite: Lizard gli aveva rotto sistematicamente tutte le ossa, dal femore ai delicati ossicini dei piedi, con una mazza da baseball estratta, come un prestigiatore estrae dal cilindro un soffice coniglietto bianco, da uno dei borsoni neri che sembravano non avere fondo.
– Dici che nelle gambe sente ancora qualcosa? — sussurrò Cuervo a San.
– No, piccolo, non credo che potrebbe provare più male di così. Ehi Liz, hai esagerato: adesso mi toccherà risvegliarlo, sennò corriamo il rischio di sprecare le nostre energie… – disse San in tono seccato.
Erano tutti seduti a terra, vicino al tavolo dove stavano accatastati i loro strumenti di tortura, ancora sporchi di sangue.
San si alzò sbuffando per andare verso il fondo della stanza. Prese la latta di benzina già usata in precedenza da Angelito per far rinvenire il prigioniero e gliene gettò una dose generosa in piena faccia. El Rojo urlò per il dolore. Cominciò a emettere suoni inarticolati e a biascicare parole come pietà, no per favore e altre cose. San non ne fu particolarmente toccato, ma Cruz cominciava ad averne abbastanza.
– Non ti pare che possa bastare? — chiese guardando Lizard.
Quest’ultimo aveva lo sguardo perso nel vuoto: sembrava non aver sentito nemmeno una parola.
– Liz! EHI LIZ! –
Lizard parve riscuotersi, e si voltò lentamente verso l’amico che lo guardava impaziente.
– Che c’è? –
– Ho detto: non ti pare che possa bastare? –
– No — sussurrò.
– Come? –
– NO! Voi andate pure, io continuerò finché non morirà lui… O non morirò io. — Il suo tono era pacato e tranquillo, ma negli occhi covava un’ansia febbrile che non piacque per niente agli altri. Lo fissavano tutti piuttosto preoccupati, tranne San, che stava riflettendo: doveva lasciare ancora un po’ di riposo al prigioniero per esaltare il dolore successivo, oppure continuare, ora che era sveglio, e andare avanti finché non crollava di nuovo?
– Ehi Liz, che ne pensi se… – cominciò San, ma non poté finire perché Cruz saltò su come un pupazzo a molla e sbraitò:
– TU SEI UN FOTTUTO SADICO! E TU LIZ SEI UN FISSATO CON LA VENDETTA!! KOSTAS E’ MORTO! CAPISCI? MORTO! NON TORNERA’ IN VITA, NEMMENO SE TORTURI QUELLO FINCHE’ NON LO AMMAZZI! –
Tutti erano senza parole: Cruz, di solito calmo e razionale, stavolta aveva perso il controllo.
San lo guardò senza parlare, con un’espressione impenetrabile. Dopo qualche secondo di silenzio disse soltanto:
– E’ il mio lavoro. —
Poi andò verso il tavolo e con uno straccio inumidito cominciò a pulire i suoi ferri, tranquillo, muovendosi con calma. Solo dai suoi occhi si capiva che quello che aveva detto l’amico lo aveva turbato.
Lizard invece si era alzato ed era andato verso Cruz. A un passo da lui si fermò e mormorò:
– Se vuoi andartene questo è il momento. Non mi opporrò, né in futuro ti rinfaccerò di essertene andato. La tua parte l’hai fatta. Non ci sono rimproveri da parte mia. —
Detto questo andò verso il tavolo e guardò con attenzione i ferri. Scelse un lungo bastoncino metallico che aveva la forma di una freccia. Circa a un paio di centimetri dalla punta erano fissati tanti ami piccolissimi: un’invenzione di San, che gli porse un accendino.
Senza dire una parola Liz cominciò a scaldare la punta del ferretto, in alcuni punti già annerita dall’uso.
San con un coltello tagliò le corde sul petto del Rojo, e si accertò che le mani dietro alla sedia fossero ben legate. Gli lacerò la camicia.
– “Driver where are you takin’ us?” — sussurrò Seraph con gli occhi sbarrati. In quel momento chissà perché aveva in mente “The end” e sussurrò quella frase quasi senza rendersene conto. Ne aveva visti di spettacoli orribili, ma questo li superava tutti.
Liz, contemplò per qualche secondo il ferro dalla punta fumante stretto nella mano, poi chiuse gli occhi e, dolcemente, come in risposta, sussurrò:
– “ The killer awoke before dawn ….” –
All’improvviso spalancò gli occhi e con un gesto fulmineo infilzò il ferro rovente nella pancia del Rojo, che urlò.
– Oh, Dio… – sussurrò Sombras sbarrando gli occhi.
San pensò con soddisfazione che avrebbe fabbricato altri pezzi come quello: avrebbero avuto mercato.
Cruz corse fuori quando Lizard, con un sorriso folle, cominciò a girare lentamente il ferro.
Iil corpo di Maximilian Bachmann fu ritrobato due settimane dopo che la sua scomparsa era stata denunciata dalla madre, e che la sorellina si era chiusa nel mutismo più assoluto (a causa dello shock, dicevano gli psicologi).
Qualcuno aveva lasciato un biglietto attaccato al volante di una macchina di pattuglia, scritto con le classiche lettere di giornale ritagliate, e senza un’impronta. Nessuno aveva visto chi si era avvicinato alla macchina. Sul biglietto c’era semplicemente un indirizzo.
La polizia lo controllò il giorno stesso, e lì trovarono il corpo orribilmente sfigurato, sadicamente torturato e infine cosparso di benzina e bruciato di Maximilian Bachmann, in arte El Rojo, scomparso da due settimane.
Nemmeno nel vecchio magazzino furono trovate tracce, e gli abitanti del quartiere adiacente dissero di non aver visto o sentito nulla di sospetto.
Il caso fu archiviato per mancanza di prove.
Cuervo, un cupo pomeriggio che non prometteva altro che pioggia, mentre girovagava senza scopo, ma col solo intento di passare un po’ di tempo fuori di casa, vide da lontano Lizard che camminava con lo sguardo di un’anima persa. Decise di andare a salutarlo: lo rincorse, lo fermò e mentre le gambe li conducevano al parco, cominciarono a chiacchierare del più e del meno, senza accennare al gran casino scoppiato a causa di quel cadavere trovato la settimana passata.
Trovata una panchina libera si sedettero. Dopo una trentina di secondi di silenzio, Cuervo non riuscì a evitare di fare a Liz quella domanda che lo perseguitava da giorni.
– E ora, Liz Rancore? Ora che la Grande V è compiuta? Che pensi di fare? –
– Ora che la mia vendetta è compiuta… Non lo so, non è… –
– Come te l’aspettavi? –
Lizard scosse la testa. Sentiva un vuoto. La vendetta era compiuta, la memoria onorata, l’offesa lavata. Eppure, aveva pensato che una volta che fosse tutto finito avrebbe trovato la pace… Sarebbe stato felice forse… O qualcosa di simile. E invece no. La morte di Kostas era ancora reale. Forse, inconsciamente, aveva pensato che uccidendo il suo assassino l’avrebbe resa un po’ meno vera, e invece tutto era rimasto come prima.
– Vorrei che Kostas fosse ancora vivo… –
Cuervo sospirò.
– Lascialo riposare Liz, è morto. Lascialo nella sua tomba. Il suo spirito è vendicato, perciò ora lui è libero. E tu devi ricominciare a vivere -.
Liz teneva lo sguardo fisso davanti a sé, guardava i bambini giocare.
– Sai fratello… Quando i miei morirono, io e la zia traslocammo tre quartieri più in là. Kostas veniva a piedi a trovarmi, dopo la scuola, perché zia Amparo non voleva che me ne andassi in giro da solo… Lui invece era libero di fare quel che voleva, sua madre era morta e suo padre se ne fregava di lui. Così veniva a trovarmi, passando attraverso il Quartiere Russo, l’Ammazzatoio e la Santa Speranza, soltanto per farmi compagnia, soltanto per giocare insieme. Avevo sempre desiderato avere un fratello e un giorno, come facevano i grandi, gli chiesi di fare un patto di sangue. Era il 26 giugno quando ci giurammo amicizia e lealtà eterne e, dopo esserci fatti a vicenda un taglio sulla mano destra, mischiammo il nostro sangue sopra un fuocherello. Tutto allora ci sembrava magico e divertente, tutto era sacro. Il fuoco per suggellare una fratellanza, il sangue come pegno. –
Lizard fece una pausa. Poi riprese:
– Sai, da allora, ogni anno rinnovavamo il patto, e per festeggiare ci ubriacavamo. Ricordo che un 26 giugno, sbronzi andati, abbiamo dato fuoco a un cespuglio qui nel parco, e urlando ci siamo feriti malamente le mani! Io dissi “Per gli dei del cielo e della terra!” e Kostas aggiunse “E DANNAZIONE ANCHE PER L’INFERNO! E per gli stronzi figli di troia che ci sono nemici! Noi resteremo amici per sempre!” Per fortuna che quella notte diluviò, perché ci eravamo dimenticati di spegnere il fuoco, e sarebbe divampato un incendio colossale se la pioggia non avesse spento il falò. –
Liz tacque, e si alzò: aveva iniziato a piovigginare. Cuervo lo imitò e iniziarono a camminare verso il centro, fino al Black Hole Bar. Entrati, si sedettero al loro tavolo e non ci fu bisogno di ordini: il padrone del locale portò loro la solita bottiglia di whisky ormai agli sgoccioli.
Liz, mentre in silenzio si godevano l’alcol che scaldava loro la gola, ripensava ai progetti che faceva con Kostas quando il tempo non passava e loro erano in giro a cazzeggiare per la città. Un giorno videro una famigliola dall’aria felice entrare nello stesso bar in cui stavano pranzando.
“Ehi Liz, ci pensi, chissà se un giorno anche noi saremo così…”
“Ah, ti ci vedo panzone davanti alla TV, con una moglie chiacchierona e dei bambini urlanti attorno!”
Kostas però era rimasto serio: “Chissà se un giorno anche noi ci sposeremo…”
“Spero non insieme!”
“…e avremo delle famiglie.”
“Naaa, non mi si addice il ruolo di papà responsabile, né a te quello di marito fedele!”
“Beh, comunque finiremo, una cosa è certa Liz.”
“Cioè?”
“Resteremo amici, no?”
“Ma certo! E abiteremo vicini, in quelle stupide villette a schiera per famiglie!”
“E i nostri bambini giocheranno insieme!” Kostas a quel punto aveva battuto un pugno sul tavolo con convinzione. “E ogni sera, quando torneremo a casa stanchi e frustrati, potremo sederci in giardino a bere una birra e parlare dei bei tempi andati, quando eravamo giovani e liberi come il vento!”
Quel giorno avevano riso insieme del futuro, della vita.
Kostas non sarebbe mai invecchiato, né avrebbe mai avuto una moglie e dei bambini. Non avrebbe mai abitato vicino a Lizard.
Lizard non avrebbe mai avuto nessuno con cui passare le serate e parlare della giovinezza perduta.
Oh certo, c’erano sempre i ragazzi… Ma chissà se la strada se li sarebbe portati via, come aveva fatto con Kostas, e con Sein, e con Cruel, tutti i suoi vecchi amici d’infanzia.
Liz osservò Cuervo. Era giovane e spensierato, e aveva un’incredibile vocazione per la malavita. Avrebbe fatto strada, o sarebbe morto.
– Ehi, Liz… – Cuervo lo scosse dai suoi pensieri.
– Sì? –
– Guarda un po’ là… –
Lizard seguì lo sguardo divertito dell’amico, diretto sulla cameriera appena assunta al Black Hole. La ragazza puliva con energia il bancone poi, un po’ timorosa, alzava gli occhi e li fissava, e poi tornava a strofinare il piano di legno già lustro con evidente imbarazzo. Si era accorta che la stavano osservando, e aveva capito che loro si erano accorti che lei li stava fissando.
– Secondo me le piaci! — sussurrò Cuervo, accendendosi una sigaretta.
– No, le piaci tu – ribatté Lizard.
– Ah, cazzate amico, è da prima che la studio, e sono certo che guardava te! Di’ un po’, da quanto tempo non esci con una bella ragazza? –
– Be’, non so… –
Cuervo sbuffò. Prese un cipiglio imbronciato che lo faceva assomigliare molto alla signora Piedad e disse:
– Credo che mia madre abbia ragione: dovresti trovarti una brava ragazza che sappia cucinare e che ti faccia dimenticare i tuoi guai. E poi dovresti sposarla! Hai 23 anni, abbandona la strada finché sei ancora in tempo -.
Liz guardò meravigliato l’amico: ora era serio, lo fissava intensamente con una specie di tristezza negli occhi verdi.
– Ma che vai dicendo ragazzino? Sei tu che dovresti abbandonare la strada, e metterti a studiare, o trovare un lavoro decente o qualcosa del genere. Per me è troppo tardi – sospirò Lizard.
– Ah, Liz Rancore, io ho avuto la vocazione, è stato una sorta di richiamo irresistibile quello che ho sentito io. Tu sei stato trascinato dalle circostanze dentro questo mondo, e anche se fai bene il tuo lavoro si vede che avresti potuto avere molto di più dalla vita. –
– E’ tardi, Cuervo. Una volta scelta la propria via non è così facile tornare indietro. –
Cuervo tornò a guardare la ragazza.
– Beh, almeno promettimi un paio di cose… –
– Ti ascolto. –
– Primo, cerca di restare vivo il più a lungo possibile. –
Lizard sorrise: – Tenterò. –
– Secondo – continuò Cuervo con un’espressione molto severa, – promettimi che inviterai fuori quella ragazza il più presto possibile -.
– Se questo può realizzare la tua vita, d’accordo – Liz pensò che promettere non costava nulla.
– Ok, ora sono più sereno. Senti, io devo andare: ho una commissione da sbrigare. Ci vediamo più vecchi! – Cuervo si alzò e sorrise all’amico, gli fece un cenno con la testa e andò a pagare. Poi uscì dal locale.
Lizard rimase seduto a riflettere ancora per un po’, e dopo una decina di minuti anche lui si levò per andarsene.
Al bancone osservò la ragazza, e la trovò carina: aveva un’aria innocente, lunghi capelli castani e occhi neri. L’avrebbe invitata fuori, ma non quel giorno.
Pagò e uscì nel tramonto: aveva smesso di piovere, l’aria era fresca e il cielo limpido.
Sì, era giunto il momento di lasciarsi tutto alle spalle: la vendetta era compiuta, la memoria di Kostas onorata. Il peso del rancore si era attenuato e, forse per la prima volta dopo mesi, gli parve di riuscire a respirare veramente. Libero dai vincoli della vendetta, libero dal suo passato, con la certezza che i suoi morti avrebbero vegliato su di lui.
Avrebbe invitato fuori quella ragazza, domani.
Domani.
Una ragazzina coi capelli rossi come fiamme impugnava la pistola del fratello morto. Il sole le ardeva nei capelli, la vendetta le colmava l’anima come olio bollente. La puntava contro la schiena di un ragazzo con una lunga giacca di pelle nera che camminava ignaro di tutto – lo sguardo perso nel vuoto – con passo elegante, leggero.
Più assordante della detonazione della pistola fu il silenzio che seguì. La strada aveva cessato vivere, tutti erano scappati urlando, e la pallottola aveva centrato il ragazzo in pieno cuore.
Lizard sentì mancare il respiro e il dolore lo attraversò come una scossa elettrica. Cadde in avanti, mentre attorno a lui tutto diveniva ovattato e il sole inondava la strada di luce dorata. Il mondo si dissolveva davanti ai suoi occhi, finché all’improvviso vide davanti a sé una figura, nella luce accecante del tramonto: il suo migliore amico.
Kostas lo salutava, sorrideva e gli tendeva una mano. Lizard fece per muovere un passo verso di lui, e allora si accorse di potere correre, gli sembrò di uscire da una prigione soffocante, e ogni suo passo aveva la leggerezza di un soffio di brezza. Era leggero, leggero come una piuma. Sorrise, con gli occhi inondati di lacrime, e sentì nella sua mano quella calda e viva dell’amico.
– Oh, fratello… – cominciò.
– Fratello! — lo salutò Kostas.
– Pensavo fossi morto! –
– Oh, ma lo sono. E ora lo sei anche tu. Avresti mica una sigaretta? Io ne sono un po’ a corto… –
Liz si strinse all’amico, al fratello di sangue, e tutto per lui scomparve nel tramonto rosso. Finalmente felice, finalmente libero.
La ragazza, dopo aver visto cadere l’assassino di suo fratello, si sentì afferrare con forza per i capelli. Una lama affilatissima le squarciò la gola e lei cadde senza un suono.
Angelito aveva visto Lizard uscire dal Black Hole Bar, aveva visto la ragazza con la pistola. L’aveva vista mentre la puntava contro il suo amico e, prima di riuscire a raggiungerla per fermarla, l’aveva vista premere il grilletto. Aveva visto Lizard cadere.
Con le lacrime agli occhi Angelito corse da Liz, e quando lo voltò vide che aveva gli occhi persi lontano e un sorriso sereno sulle labbra.
– Amen, Lizard, ora tutto è finito. Amen fratello. –