di Alessandro Morera
Per facilitare la lettura del seguente articolo, riportiamo in breve la trama del film assunto come emblema del cinema di Buster Keaton: Buster è un appassionato lettore di gialli che lavora come proiezionista in un cinema. Un giorno un rivale in amore ruba l’orologio al padre della donna di cui Buster è innamorato, facendo ricadere la colpa su di lui. Buster, tornato nella sua cabina di proiezione, si addormenta e sogna di entrare nel film nei panni di Sherlock Holmes Jr. risolvendo il complicato caso di furto e salva la protagonista dei banditi. Sarà svegliato dalla ragazza che ha scoperto l’inganno del rivale: i due si abbracciano ma Buster, con il suo volto impassibile, osserva preoccupato le immagini che scorrono sullo schermo, con i protagonisti sposati e circondati da tanti banditi.
“Sherlock Jr.”, insieme al successivo “The Cameraman (Io…e la scimmia)”, entrambi del 1924, è il film di Keaton che mette in scena una tra le più intelligenti riflessioni sul cinema, tanti anni prima di Godard e Antonioni, mostrandoci tutta la povertà ideologica della società e del cinema americano.
Sintetizzando, possiamo esaminare come nocciolo esegetico del film la famosa sequenza nella quale Buster si addormenta, sdoppiandosi, mentre la sua immagine onirica entra nello schermo: realizzata attraverso una grande precisione tecnica, tale sequenza evidenzia come la tecnica non sia fine a se stessa, ma bensì rappresenti l’essenza stessa del cinematografo, attraverso un inganno tacitamente accordato dallo spettatore nei confronti dell’opera cinematografica, come riportato nel “Castorino” di Giorgio Cremonini e Franco La Polla dedicato a Keaton: “lo spettacolo, come il sogno, è ingresso propriamente fisico in un mondo costruito a imitazione del nostro, ingannevole perché inimitabile…così, il cinema è la follia dove tutto è attuabile, la possibilità assoluta, totale, laddove la realtà imiti il cinema!”.
D’altronde già René Clair affermò che “Sherlock Jr.” costituiva per il cinema ciò che i “Sei personaggi” in cerca d’autore di Pirandello rappresentava per il teatro, mentre il grande critico francese Robert Benayoun paragonò giustamente il cineasta a Kafka, Hawthorne, Melville e Poe. La sequenza sopracitata in effetti trasporta Keaton (regista/attore/personaggio) in un mondo trasparente e sfuggente, un mondo costruito da sogni, specchi, incubi, fantasie, doppi, come il mondo di “Alice nel paese delle meraviglie” e “Alice attraverso lo specchio e quel che vi trovò” di Lewis Carroll, e proprio come l’Alice carrolliana, Keaton, con il suo volto così impassibile da risultare una maschera (apparentemente inespressiva, ma in realtà espressione profonda della condizione umana nella società contemporanea, tanto quanto “L’uomo della folla di Poe” o il Signor K. del “Processo” kafkiano) non avrà nessuna reazione, nessun apparente sentimento, nulla: entrerà in questo universo con tutta la sua purezza e la sua ingenua sincerità.
Buster Keaton, più di Chaplin e più di chiunque altro, ha rappresentato a fondo l’essere umano del secolo appena trascorso e, nello stesso tempo, è stato il riflesso di quello del III° millennio: l’uomo-macchina. Con il suo corpo dagli scatti meccanici, con partenze a razzo e frenate improvvise e assurde da concepire per qualsiasi altro essere umano contrapposte al suo volto così vacuo eppur così tragicamente umano (specchio delle sofferenze e delle speranze degli individui), incarna la lotta quotidiana di ogni essere umano contro gli oggetti e il ritmo frenetico della vita moderna (le macchine e i computer), che altro non sono che un moderno fastidio in relazione all’antica ed equivalente lotta dell’uomo contro gli elementi della natura. In maniera appropriata Goffredo Fofi nel suo libro dedicato ai maestri del cinema, “Come in uno specchio”, osserva: “A questa irrazionalità del mondo Keaton reagisce con la razionalità dello stile, e di qui nasce la sua ineguagliabile originalità cinematografica. Tutto è funzionale, perché nulla, dentro lo schermo, sembra esserlo.”
Quell’ineguagliabile originalità cinematografica espressa da Keaton (attore/corpo — regista/essere umano), oggi appare sempre più chiara sotto la coltre della comicità nuda e cruda, rivelandosi come una delle più alte espressioni che il cinema abbia dato della condizione umana nell’epoca industriale, presagendo il suo sviluppo nell’epoca tecnologica-digitale. Fu probabilmente anche perciò che Samuel Beckett nel 1965 volle come interprete del suo “Film”, diretto da Alan Schneider, dove Keaton nella sua vecchiaia riuscì a esprimere il massimo della sintesi e dell’analisi di tutta la sua arte, ovvero il suo essere Arte!
Grazie, Buster Keaton.