di Tito Pulsinelli
Dopo una settimana, dei quindici prigionieri usciti vivi dalla selva colombiana, undici sono già rientrati dietro le quinte. Dei tre mercenari nordamericani è scomodo occuparsi, quindi sono ignorati. I riflettori continuano a essere sempre più puntati sull’unica donna, promossa all’unanimità a vedette mediatica, e se la contendono re, presidenti, papi e cardinali, giuria del Premio Nobel ecc.
Gli undici sottufficiali della polizia e dell’esercito sono tornati ai loro quartieri popolari, nella provincia o nelle periferie urbane. Sono stati fortunati di far parte del gruppo dei tre mercenari e dell’alta esponente della buona società colombiana. Ma per loro il tempo è scaduto, la scena ora appartiene interamente a un’altra protagonista.
Anche nella disgrazia, si ripropongono e si riproducono le differenze sociali, cioè il potere delle relazioni e della proprietà. Per Ingrid Betancourt si sono mossi governi, magnati della comunicazione e partiti dei due mondi, ma per il profesor Moncayo – conosciuto come il “camminatore della pace” – non c’è stata la stessa eco, né una solidarietà lontanamente paragonabile.
Per riavere suo figlio – appuntato della polizia – il “camminatore della pace” continua la sua marcia, contando sulla solidarietà degli umili, ignorato da re, presidenti, papi, cardinali, intellettuali catodici e magnati mediatici.
Appena liberata, la Betancourt “in uniforme” ha evidenziato che non era contagiata da nessuna sindrome di Stoccolma, anzi. E’ stata grande la disillusione nel sentire che non vede negativamente una terza rielezione di Uribe, e persino che appoggia riscatti militari a mano armata. Sono davvero lontani i tempi della campagna presidenziale nel suo partito Verde-Ossigeno, e gli sforzi per aprire qualche prospettiva nel blindato sistema colombiano.
Le FARC devono liberare tutti gli ostaggi perché – da Guernica in poi – non è ammissibile che l’azione militare abbia per obiettivo la vita e la libertà dei civili. Se raccogliessero questa esigenza che proviene anche dai settori attigui, questo non significherebbe affatto la fine del conflitto interno. Accetteranno Uribe e Santos la normativa dell’ONU che regola la risoluzione dei conflitti interni? Ammetteranno quella prassi che ha funzionato nel Salvador e in Guatemala?
In questa direzione, la proposta del Venezuela di riconoscere le FARC come “forza belligerante” è stata lasciata cadere nel vuoto, anche dai governi sudamericani affini. Questo non è un buon segnale.
E’ impensabile che le FARC smobilitino e accolgano un’amnistia o che se ne vadano tutti in Francia, a rinforzare le fila dei “sans papier” (1). In un recente passato, la guerriglia depose le armi, ma pagò con 5000 morti il ritorno alla vita civile e la fondazione del Partito Unità Patriottica. Nessuno crede possibile che si piegheranno a una riedizione riveduta e corretta del medesimo spartito, cioè la marcia funebre. Preferiranno perdere combattendo.
Sarà decisiva la pressione internazionale sul governo di Bogotà, volta a garantire le condizioni minime e la fiducia per un passaggio effettivo verso la pacificazione. Finora, Uribe ha sempre ostentato un linguaggio bellicoso e la sua opzione preferenziale per lo sterminio.
Nessun governo latinoamericano, però, definisce le FARC come organizzazione terrorista.
Le prime dichiarazioni della Betancourt hanno lasciato l’impressione che si sia adeguata alla visione riduttiva e manichea, prevalente nel settore sociale da cui proviene.
Tra qualche settimana, la vociferazione mediatica internazionale – dopo aver incassato e speso il ritorno a casa dell’ex ostaggio eccellente – si placherà, allo stesso modo di come ha già evaporato gli undici sottufficiali dei ceti bassi. Sulla situazione colombiana tornerà a calare la cortina del silenzio e i media europei preferiranno l’abbaglio di identificare un Paese con la sponsorizzazione di una – sì una – delle vittime.
Nel suo giro internazionale, si spera che la Betancourt completi la sua visione troppo parziale e risentita, e quando sarà a Buenos Aires, in Brasile e in Cile, si renda conto che la Colombia è sempre più percepita come un “problema regionale”.
La pace è possibile se l’assetto politico interno cambia, dando un taglio drastico al narcotraffico: l’ONU dice che i terreni adibiti alla coca sono aumentati al 27%. La pace significherebbe dimezzare le spese militari e portarle al 2-2,5%, come la maggior parte dei vicini sudamericani. E ridurre un esercito che ha più soldati di quello del Brasile, nonostante la Colombia abbia meno della metà dei suoi abitanti.
E’ da qui che bisogna partire, anche se non garba e non conviene agli interessi degli Stati Uniti e del blocco dominante interno, aggrappati al continuismo e all’immutabilità.
(1) [Curiosa questa proposta di Sarkozy, pronto a offrire ospitalità in Francia ai militanti delle FARC disposti a cedere le armi. E’ la stessa proposta rivolta da Mitterrand ai militanti italiani dei gruppi armati, poi ritrattata con Sarkozy ministro dell’interno di Chirac e poi presidente. Ne hanno fatto le spese Paolo Persichetti, Cesare Battisti, Marina Petrella. Fossi nei panni delle FARC, diffiderei…] (V.E.)