Arriva nelle sale di tutta Italia un film di animazione dedotto da una delle saghe più appassionanti e memorabili della storia degli “anìme” giapponesi: Ken il guerriero. Dapprima manga cartaceo (l’atto di nascita è il 1983), poi cartone animato in due serie indimenticabili, che hanno rivoluzionato le modalità dell’animazione, ora Ken è anche lungometraggio, che “Carmilla” ha visionato all’anteprima a Milano, in una serata congestionata da fan e da spettatori comuni di ogni età, alla fine della proiezione tutti entusiasti. Si tratta, esattamente come per la versione manga e quella di serial tv, di uno straordinario capolavoro di grafica, struttura narrativa, invenzione immaginifica. La supremazia della leggendaria Scuola di Hokuto è ribadita da questa pellicola imperdibile, esaltante, che mantiene intatto l’afflato epico, che fu il reale elemento distintivo delle due lunghe serie trasmesse in Italia.
Chi non conoscesse la vicenda di Kenshiro e della Scuola di Hokuto, può tranquillamente leggersi il resumé quasi ufficiale. Chi, d’altra parte, volesse familiarizzare con la straordinaria messa a punto del film (distribuito da Mikado e Dolmen, oltre che dalla mitologica Yamato Video), può guardarsi questo trailer, che sta furoreggiando su YouTube:
Che Ken il guerriero giunga su grande schermo è un evento che si può definire dunque non solo transmediatico, ma anche transgenerazionale, data la persistenza della serie in tv e il fatto che il suo immaginario ha contagiato ben più di una generazione (siamo agli antipodi di Atlas Ufo Robot, per intenderci, alla cui seduzione nostalgica e trash rispondono solo i quarantenni di oggi). I cicli epici di questo racconto in un pianeta devastato dalle guerre e dai disastri nucleari sono condensati con una maestria che lascia attoniti. Il lavoro di doppiaggio è sorprendente, ancor più sorprendente risulta l’abilità degli sceneggiatori e dei disegnatori nel restituire completa l’atmosfera e la scheletratura di un tratto della saga, quella ciè che conduce al duello tra Ken e Sauzer, tra Hokuto e la deviazione di Nanto. L’alternarsi dei momenti proverbialmente lenti ed emotivi con i frangenti dinamici, l’enfasi rituale che precede l’esecuzione di mosse esoteriche e sovrannaturali, gli scenari apocalittici e i rapporti tra i protagonisti (ci sono tutti, da Raoul a Toki a Shin a Bart e Lynn) – ogni elemento costitutivo del racconto è condotto agli estremi di una sintesi graficamente innovativa, pur rimanendo nelle categorie superomistiche di quella rappresentazione muscolare ipertrofica degli episodi della serie tv, mentre alcune significative invenzioni appaiono fin dall’inizio. Per esempio, l’attacco notturno a Baghdad con la contraerea che risponde o il crollo delle Twin Towers nel racconto che introduce allo stato di inferno in terra a cui il pianeta è ridotto. Ciò che è storico viene lanciato in un iperspazio terrestre, che vive sotto l’influenza, ben più che zodiacale, dei sistemi di stelle polari, in un confronto che conduce agli estremi le arti marziali e la loro filosofia, compattamente desunta dalla rivoluzione che fu praticata da Bruce Lee (a cui si ispirarono i creatori del primo Ken). Il tema centrale della salvaguardia dei bambini è esaltato al parossismo, così come le morti continuano enfaticamente a suddividersi tra massacri istantaei e iperviolenti di corpi che oltrepassano l’abituale fumettistico e decessi che segnano profondissimi lutti che richiedono vendetta. Lo straordinario incrocio tra sacralità giapponese e modalità da peplum anticoromano è nel film lo scenario centrale, all’interno del quale ruotano soluzioni che garantiscono la suspence tradizionale trasfigurandola in un evento da consumarsi secondo attese nuove e differenti.
Il film è, in pratica, la quintessenza dell’epica complicatissima dell’anìme. Una quintessenza che non perde un grammo della leggenda che sapeva generare in tv quell’epica indimenticabile, spesso incomprensibile ma non per questo disturbante o tale da indurre qualunque spettatore a interrompere la visione del ciclo epico medesimo. La storia continuava, per episodi che la memoria non riusciva a collegare, ma che la rappresentazione epica, con la sua potenza, caricava di coerenza. A confronto, il lungometraggio è uno speed al cui successo su ogni fronte contribuisce una sapienza che spesso è mancata ad altre trasposizioni cinematografiche. Autori e regista (Takahiro Imamura, con gli sceneggiatori Nobuhiko Horie, Yoshinobu Kamo, Katsuhiko Manabe) sono riusciti perfettamente in un’impresa che risultava facile e impossibile. Facile, in quanto non esiste una serie animata più portata al cinema di Ken, proprio per la sua eversiva carica mitopoietica, per l’esplicito tentativo (che fu riuscitissimo e lo è anche ora) di tentare un’epica fantascientifica che non convocasse l’alterità (il motivo della debolezza di tutti gli altri cartoon giapponesi, da Mazinga a Jeeg, è proprio l’assenza dell’ambizione epica, col cattivo rimedio di evocare il nemico esterno, alieno). E tuttavia pareva impresa impossibile: come rastremare in un’ora e mezzo una vicenda articolata in 152 episodi? Il miracolo è ottenuto attraverso una stringatezza del racconto efficace, un mix sapientissimo di duelli mozzafiato (che non perdono un elemento che sia uno degli originali, a principiare dall’indimenticato acuto di battaglia di Kenshiro) e massimalismo emotivo. Non si tratta di un’operazione ironica di recupero, e questo proprio in forza della valenza epica del racconto, ma anche dell’obbiettivo che fissa il piano emotivo a ripetizione – l’elemento femminile e la storia amorosa hanno qui un ruolo molto più esplicito di quanto accadeva nella selva di eventi che la serie tv mostrava.
Che si sia stati affezionati a quella serie o che si sia novizi dell’anìme della svolta (la Scuola di Hokuto genera qualunque serie successiva, Dragon Ball incluso), Ken il guerriero è un film imperdibile, che ci sottrae dal buonismo ridanciano della Disney e della Pixar, riportando al centro una narrazione che è capace di fare spreco di sé, rinunciando alle formule algebriche e alle ricerche di mercato condotte per rendere multigenerazionali cazzate come Shrek, il cui calcolo a priori è l’oggetto ambiguo dell’arte di animazione dei giorni nostri.
Va ringraziata Mikado per essere riuscita a portare in Italia un simile capolavoro, che è il primo di cinque lungometraggi – un po’ più di Matrix e, probabilmente, anche un po’ meglio.