di Saverio Fattori
Tutti i capitoli di “Cattedrale”
Sindacato e Direzione formano un unico organismo, un mostro a due teste politicamente corretto che sa ciò che è bene per noi cuccioli nati ciechi. Quasi mai ci sono domande o interventi al termine delle relazioni del delegato sindacale. Quando succede si tratta di obiezioni senza sostanza frutto di totale incapacità di analisi critica. Piccinerie molto concrete, nessuna valenza generale.
Se hanno messo il sabato di straordinario obbligatorio e io avevo già preso il venerdì di ferie sono costretta a venire sabato?Così mi frego il week end lungo…
Sindacato e Direzione ci vogliono così, segmentati in minuscole unità di produzione che non si riconoscono corpo unico. Pulviscolo fastidioso che non si fa materia solida. L’esposizione dei fatti del delegato è svolta in modo ineccepibile, argomentazioni inattaccabili. Armonia e pragmaticità. I pochi mugugni vengono espressi nei reparti. Sono valutazioni innocue, meglio comunque non compromettersi con frasi offensive. La delazione rimane uno degli sport più praticati, non sempre chi la pone in atto è conscio del reato che compie. I pochi che hanno avanzato proteste sono stati neutralizzati più dalle risa degli altri operai che dalle risposte del delegato. Lo sberleffo dei pari livello li ha resi innocui, la comunità li ha identificati come gli scemi del villaggio, disarmandoli. I rappresentanti interni si riconoscono perché nelle assemblee hanno la sedia girata in senso contrario rispetto alla maggioranza dei presenti, vengono convocati dalla Direzione per la presa d’atto di decisioni inderogabili e dolorose, come l’introduzione di periodi di flessibilità, aumento di ore e nessun riconoscimento economico. Come da contratto aziendale. Oppure viene comunicata l’esigenza di usare lo strumento della cassa integrazione, a seguito di flessione delle vendite.
Il fato continua a essere avverso alle formichine operaie. La classe operaia non va né in paradiso né all’inferno. Và dove la mettono e dove la mettono sta.
L’ultimo giorno prima delle ferie natalizie ci hanno distribuito il piano di reazione del nostro reparto alla chiusura di due mesi del cliente. È un foglio excel con i nostri nomi. Ci sono caselline con numeri e lettere e la legenda in fondo alla pagina per capire la destinazione. A me toccano tredici giorni al Reparto Imballo, un lavoro duro per lo più affidato a cooperative esterne di facchinaggio. Ci lavorano alcuni emarginati storici ma buoni diavoli. Questa destinazione ribadisce la mia definitiva caduta in disgrazia. Avessi bisogno di conferme. Il resto dei sessanta giorni è cassa integrazione. Meno soldi, nessun contributo, zero ferie maturate. In situazioni di emergenza come queste i contratti a tempo determinato come quello del Frank vengono sacrificati all’istante. Sono le regole ciniche di questi anni flessibili e io sono felice di non averlo tra le palle per i prossimi mesi. Ma anche le regole spietate del mercato in Cattedrale vengono addomesticate. La capo-reparto ci informa che al Frank e ad altri due figuri che lavorano al Building 1, il contratto verrà comunque rinnovato. Il Frank dopo tre giorni è considerato insostituibile. La cosa è giustificata dal fatto che ha imparato tutte le mansioni relative al carrello elevatore. Con il mio carretto a mano sono carne da macello. C’è del masochismo ottuso nel mio comportamento. Rifiuto di acquisire nuove professionalità e ho scarse attitudini a integrarmi in altri reparti. Dopo il siluramento ho scelto la mansione più umile, la meno specializzata. La più dura e la più elementare. E ho messo in scena il mio inutile martirio. Con gli occhiali di protezione e le cuffiette sembro un tenero androide intronato e autistico. Al Controllo Qualità soffrivo come una bestia malata, ma mi ero costruito una nicchia identitaria rispettabile e riconoscibile. Ero immerso nel reparto produttivo ma fuori. Ero in un mare inquinato, ma calato dentro un acquario protettivo. Dopo essere stato degradato sono riemersi tutti i traumi e le disgrazie del mio carattere. Da bambino non ero riuscito ad affrontare il primo test fuori casa, l’asilo infantile. Piangevo alla finestra tutto il tempo e chiamavo mamma tutte le donne che passavano giù in strada.
Il dirigente responsabile del mio taglio in seguito si era licenziato e qualche mese dopo era venuto a mangiare in mensa. Non sopporto le visite di cortesia. Usciti dalla Cattedrale è come non essere mai esistiti. Tutto è volto all’intercambiabilità e alla rimozione. Era subito partita una bufala incontrollata che lo voleva nuovo capo dell’Ufficio Risorse Umane, ennesimo ente con responsabile dimissionario. Aveva fatto il giro dei tavoli con un sorriso indecente incollato in faccia. Avevo stretto la mano che mi aveva teso. Per la seconda volta avevo baciato la mano del carnefice. Nei miei incubi ho remixato la scena secondo variabili migliorative o tragiche. Nella realtà ignorare quella mano tesa sarebbe stato un gesto sufficientemente forte e dignitoso, l’avrebbero notato in molti e anche i più ottusi ne avrebbero colto la simbologia. Sono un operaio di merda, guido un carretto, ma conservo una mia dignità stizzosa.
Il Frank per poco non mi investe col muletto, ha frenato con un tempismo da stuntman.
– Un sacchetto di lupini. Dovresti averli. È roba da vecchi.
Ho cercato di ignorarlo. È difficile. Non so un cazzo di meditazione trascendentale, di sospensione della coscienza. Vorrei saperne di più in questo momento. Come sempre il calore avvampa il viso e mi tradisce. Vorrei essere altro. Vorrei essere altrove. Vorrei non aver finito la roba per ficcarmi in bagno per una piccola sottocutanea o un tiro robusto. Non c’è nessuno a parte noi due. In gruppo, durante le pause comuni, continua a essere rispettoso o almeno dirige la sua attenzione su altri soggetti. Non corteggia nessuna femmina del branco, nessuna lo interessa, o sono vecchie o sono stupide o presentano ambedue le condizioni. Fuori dalla Cattedrale deve tenere un livello qualitativo più alto. Le irride con battute di cui non sanno cogliere la valenza offensiva. Per il resto parla di patenti ritirate e prodotti tecnologici con un paio di ragazzi del magazzino. Durante le pause evado con telefonate a persone che non conoscono nemmeno il suono della sirena di una fabbrica. Parlo di cinema, libri, politica, teatro. Me la racconto. Concludo le conversazioni staccando il cellulare dall’orecchio per dirigerlo verso la sirena. È un suono straziante, l’interlocutore dall’altro capo non può che compatirmi. Sono persone che fanno una vita più felice della mia, anche se in alcuni casi sono in emergenza economica. Occuparsi di cultura in questo paese è possibile. Pretendere di camparci è altra cosa. Il Frank interrompe la telefonata verso il mondo dei vivi. Nessuno aveva mai osato farlo, qualcuno si era limitato a insinuare che fossero chiamate false a telefono spento.
– Allora? I lupini sottovuoto?
– Ho un avvitatore elettrico da piantarti nella pancia, ma se stai sul muletto il filo non arriva. Dovresti scendere e avvicinarti un paio di metri.
– Grande, vecchio. Lo sapevo che eri un tipo giusto, uno del tempo dell’eroina. Adesso sei qua dentro buono buono. Sembri un cagnone malato alla catena. Adesso a cuccia.