di Valerio Evangelisti
[E’ uscito, per le edizioni Un mondo a parte, il saggio di Paolo Zelati Il signore del male, dedicato all’opera cinematografica di John Carpenter. Quella che segue è l’introduzione al volume.]
Non si direbbe che questo saggio di Paolo Zelati sia stato in origine una tesi di laurea, sia pur rimaneggiata, tanto acute e penetranti sono le considerazioni che l’autore vi svolge. Ma forse era la materia stessa a imporlo, visto che altrettanto acuto e penetrante è il cinema di John Carpenter.
Questo regista ha avuto vari momenti di fortuna commerciale, differenziati a seconda dei continenti. Partito dalle piccole produzioni a basso costo, sembrava destinato a entrare nel circuito delle majors con film quali Christine, la macchina infernale (a mio giudizio, il suo peggiore), Starman o La Cosa (quest’ultimo tra i migliori); salvo essere, in patria, brutalmente risospinto ai margini del mercato non appena ci si accorse di quanto trasgressive e disturbanti fossero le sue intenzioni.
Invece, in Europa, l’attenzione per Carpenter è rimasta quasi sempre costante, anche in presenza di opere non del tutto riuscite (Il villaggio dei dannati, Avventure di un uomo invisibile) e comunque, malgrado qualche inciampo, non si è mai smesso di considerarlo un maestro, sia pure dalle alterne fortune.
Meglio così, in fondo. Privato di grossi budget malgrado il successo internazionale di 1997: Fuga da New York (che in Italia, ricordiamolo, ha avuto decine di imitazioni, quando ancora il cinema di genere godeva di spazio nel nostro paese), Carpenter è stato costretto a continuare a fare cinema dalla periferia con un manipolo di collaboratori fidati, marcando ulteriormente la propria impronta autoriale che, forse, dispiaceva più di ogni cosa a Hollywood. Senza la forzata emarginazione dagli studios non so se avremmo avuto film memorabili come Essi vivono, Vampires, Ghosts of Mars (che, contrariamente a molti critici, annovererei tra i capolavori). Più il politicamente scorrettissimo Fuga da Los Angeles, in cui la carenza di mezzi è evidente, ma la genialità lo è altrettanto.
Carpenter, dunque, non ha reagito al rifiuto del sistema cinematografico statunitense alla maniera di un altro maestro, Roger Corman, finito col dirigere o produrre non importa cosa, spesso direttamente per video o dvd. E’ ripiegato invece dall’industria all’artigianato di qualità, in cui l’indipendenza voluta o subita si traduce in sperimentazione, cesello, inventiva, proposizione di temi scomodi o invenzioni stilistiche. Con la possibilità che l’opera non riesca, ma con l’altra, equivalente in peso, di confezionare un prodotto indimenticabile.
Paolo Zelati sceglie otto film di Carpenter, da Distretto 13: le brigate della morte a Fuga da Los Angeles e li disseziona con un puntiglio di cui pochi critici, in Italia, sono stati capaci (mi piace citare un’eccezione positiva: Franco La Polla). La sua interpretazione di Halloween o de Il Signore del Male — opere assolutamente centrali nel percorso carpenteriano – integra o contraddice, a seconda dei casi, quelle precedenti. Notevole anche il focus sui temi politici, normalmente trascurati quando non siano palesi, come in Essi vivono.
Non deve meravigliare, a questo proposito, che nell’intervista che chiude il saggio Carpenter si dimostri riluttante a letture di questo tipo. E’ tipico dei registi (e spesso degli scrittori) statunitensi. Brian Yuzna, per dirne una, seguita a negare che il suo Society fosse un assalto feroce al capitalismo americano (e non solo americano), sebbene ciò risulti evidente allo spettatore più ingenuo. E’ normale, nei radicali degli Stati Uniti, rifiutare collocazioni ideologiche troppo nette, che frenino la loro critica libertaria con etichette approssimative. Tocca invece al critico cogliere le pulsioni recondite, le insofferenze, le ribellioni. A Carpenter non poteva capitare in sorte un esegeta migliore di Zelati.
Spero che questo libro capiti nelle mani giuste: mani intelligenti. Se così sarà, il saggio di Zelati diventerà un punto di non ritorno, nella lettura dell’opera di uno dei più significativi cineasti americani.