di Marc Tibaldi
Intervista a Claudio Bolognini, autore del romanzo I ragazzi della Barriera
Dalla cronaca al romanzo, dall’invenzione alla cronaca il confine è labile, a volte impercettibile. Claudio Bolognini prova a camminare su questo confine nel suo I ragazzi della barriera. La storia della banda Cavallero (Agenzia X, 219 pagine, 14 euro), romanzo che ripercorre le vicende personali e politiche di alcuni uomini e delle circostanze che fecero di loro una banda di rapinatori. Una vicenda che sarebbe inimmaginabile e irripetibile nella società del controllo, tra telecamere e dispositivi di sicurezza, ma che può invitarci a pensare analogie e differenze tra due epoche, a ripercorrere in maniera critica la storia recente dell’Italia del boom economico. Nel romanzo si indaga, come nessuno finora ha fatto, sulle ragioni politiche e sociali di questi figli della Torino fordista. Il lettore viene accompagnato, passo dopo passo, a seguire la vita di questi banditi fino al tragico epilogo di sangue e carcere. Il 25 settembre 1967 a Milano si consumò l’ultima sanguinosa rapina della banda, la notizia rimbalzò su tutti i notiziari e le cronache del tempo si occuparono a lungo di quella che venne chiamata la banda Cavallero. Ciò che tali resoconti avevano omesso di dirci è come quegli uomini sono arrivati a compiere quelle rapine, e soprattutto perché. Ed è lì che nasce questo romanzo.
Perché hai deciso di dedicare un romanzo alla banda Cavallero?
Qualche anno fa, durante le ricerche per la stesura del mio romanzo Mani in alto, dedicato alla banda Casaroli, una banda di rapinatori che operò a Bologna negli anni Cinquanta, mi imbattei spesso in articoli sulla banda Cavallero e dopo un approfondimento notai con fastidio che la loro storia era stata raccontata quasi sempre in maniera distorta, dimenticando totalmente le idealità politiche iniziali che avevano portato all’azione questi giovani proletari. Ho lavorato molto nel raccogliere materiali di archivio, studiando le fotografie dell’epoca che restituiscono l’atmosfera di quegli anni meglio di molti articoli, ripercorrendo le strade del quartiere. Importante è stata anche la visione di Il Bandito della Barriera, interessante documentario su Pietro Cavallero, di Maurizio Orlandi, con molte interviste a persone che lo avevano conosciuto. Riscoprii anche un libro che avevo letto da ragazzo, ossia L’evasione impossibile di Sante Notarnicola (pubblicato nel 1972 da Feltrinelli). In quel libro, prima di addentrarsi nella lotta dei detenuti di cui fu protagonista, Notarnicola racconta della banda torinese. Sono partito da quelle pagine.
Verosimile e vero. Alla fine del romanzo c’è un’appendice molto bella dedicata al tuo incontro con Sante Notarnicola.
Sì, Sante è rimasto molto colpito dal mio manoscritto, la sua è stata una testimonianza che insieme rende il romanzo più romanzo e la storia più vera. Per scriverlo mi sono servito di un personaggio di fantasia, un amico fraterno che saprà guardare la vicenda dall’interno e dall’esterno, non tradendo mai i suoi compagni, ma che quando la banda inizia il ciclo delle rapine decide di non parteciparvi.
Il romanzo è anche uno spaccato dell’Italia del boom economico, della mutazione antropologica analizzata in quegli anni da Pasolini. Ma mentre Pasolini – pur con la sua acuta sensibilità e cultura – rimane fermo all’analisi la condizione sociale, la banda Cavallero – bene o male – agisce.
Ho cercato di raccontare l’Italia degli anni ’60, l’eredità degli ideali della Resistenza e la vita nelle sezioni del PCI – che erano le fondamenta etiche dei componenti della banda. E poi l’emigrazione dal Sud, i quartieri operai e il duro lavoro di fabbrica, ma anche le feste, la musica, il calcio. Sia Pasolini che i ragazzi della banda Cavallero – come successivamente molti altri giovani degli anni ’70 – si sentirono traditi dal Partito Comunista. Le reazioni furono diverse, è vero che Pietro Cavallero si era molto politicizzato prima della formazione della banda, ma è anche vero che alla banda mancò totalmente un progetto politico. La banda Cavallero è un’esperienza pre-politica. Notarnicola negli anni successivi, in carcere, attraversando le lotte, maturò ulteriormente la sua militanza.
La banda Cavallerò suscitò all’epoca un interesse mediatico fortissimo. E alla banda Carlo Lizzani si ispirò esplicitamente per il suo “Banditi a Milano”. La fine della banda e il processo milanese alla stessa fanno da spartiacque tra prima e dopo il ’68. Pietro Cavallero, Sante Notarnicola e Adriano Rovoletto – dopo la lettura della sentenza che li condannava all’ergastolo – si alzarono in piedi e con il pugno chiuso alto cantarono Figli dell’officina, notissimo inno anarchico della tradizione operaia.
Qualche mese prima del processo ci fu il maggio parigino, è probabile che quei fatti abbiano rinverdito le originarie convinzioni politiche della banda. Mentre invece – sempre qualche mese prima del processo – uscì Banditi a Milano, con protagonisti Gian Maria Volontè e Tomas Milian. Tra l’arresto e il processo passano solo sei mesi, e quindi questo fu un vero istant-film, ideato e girato in pochissimo tempo da Lizzani, che da buon intellettuale organico al PCI – indirettamente o direttamente sotto influenza degli apparati moralisti del Partito, che in quegli anni teme anche le rivolte giovanili – cancella gli ideali originari della banda e la loro militanza attiva nella sezione Banfo e relega le azioni dei suoi componenti a mera conseguenza dei mutamenti economici e sociologici del periodo. D’altronde cinque anni prima il Partito aveva già fatto dei distinguo rispetto ai fatti di Piazza Statuto, quando definì “elementi incontrollati”, “scalmanati” e “irresponsabili” i protagonisti di quella rivolta, figuriamoci se poteva in qualche modo comprendere e tanto meno giustificare l’uso di pistole e rapine. Per inciso, ricordo che furono oltre mille gli operai che vennero arrestati e denunciati, e molti di più parteciparono agli scontri. Il film di Lizzani – che ha anche i suoi pregi – fu comunque un film seminale che dette inizio a un genere di successo, il poliziesco all’italiana o poliziottesco (seguiranno La Polizia ringrazia, Milano violenta, La polizia ha le mani legate, etc).
Uno dei fili conduttori della tua scrittura è la memoria.
Spesso sono partito da frammenti di memoria che poi ho articolato in forma di biografia, di romanzo, di racconto, dalle gesta sportive di Pierino Ghetti, calciatore del Bologna degli anni ’70, a quelle di Dante Canè, campione di pugilato, dai giochi dei bambini alla biografia a fumetti (con i disegni di Fabrizio Fabbri) di Giorgio Morandi. Io mi limito a raccontare le vicende cercando di trovare punti di vista diversi, i miei libri più che un lavoro di intreccio narrativo sono l’esposizione di punti di vista differenti. Cerco di romanzare la realtà dei fatti, dialogando con la storia e – in qualche maniera – con l’attualità. Per esempio, quando per documentarmi ho visitato i quartieri di Torino, mi sono reso conto che, se a livello lavorativo abbiamo avuto una trasformazione enorme, la condizione degli immigrati dal Sud del mondo che ora abitano quelle vie è molto simile a quella degli immigrati meridionali degli anni ’60, ecco allora che ho potuto calcare meglio certe situazioni per creare dei cortocircuiti che possono far pensare anche all’oggi.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una sorta di “dittatura del vintage”. Si possono osservare tendenze che recuperano stili dei decenni passati e li mitizzano, quasi una paralisi immaginativa che si rifiuta di creare e immaginare nuovi scenari. È un fenomeno che sottolinea la nostra incapacità a leggere e ad analizzare il presente. In questa “dittatura del vintage” rischiano di rimanere impigliati anche gli scrittori che raccontano e mitizzano figure di rivoluzionari e di movimenti del passato. Il tuo romanzo mi è sembrato fuori da questo rischio, non mitizza nulla pur raccontando in maniera partecipata gli accadimenti della banda Cavallero.
Sì, ho cercato di non enfatizzare, di non dare giudizi, rischiando anche una certa freddezza e descrittività cronachistica, insomma una scrittura distaccata e coinvolta nello stesso tempo. L’io-narrante, come spesso per chi scrive, ha in fondo anche alcuni tratti biografici. Inoltre c’è una sorta di comprensione amicale, senza per questo creare degli eroi, che sarebbero inutili sia alla storia sia all’attualità.
Claudio Bolognini ha pubblicato diversi libri di racconti e romanzi, tra cui “Apache”, “Mani in alto”, “Tana libera tutti”. Insieme a Fabrizio Fabbri ha scritto la biografia a fumetti di Giorgio Morandi.
I ragazzi della barriera. La storia della banda Cavallero
Agenzia X, 219 pagine, 14 euro
Agenzia X, via Giuseppe Ripamonti 13, 20136 Milano tel. + fax 02/89401966 www.agenziax.it – info@agenziax.it facebook.com/agenziax – twitter.com/agenziax