di Mauro Baldrati
Dunque domenica la città di Bologna ospiterà la tournée della soubrette televisiva Matteo Salvini, accompagnata dalle coreografie dei signori della guerra tribali Berlusconi, Meloni, Storace.
Il copione, molto curato nei particolari, prevede l’intervento di alcune contromanifestazioni, opportunamente fronteggiate da poliziotti e carabinieri in assetto di guerra. Si auspica la conclusione ideale, cioè scontri, cariche, vetrine rotte e, possibilmente, dei feriti, anche se sarebbe troppo sperare in almeno un morto. Forse i tempi dei grandi coreografi, come il leggendario Francesco Kossiga, sono finiti per sempre. Ora gli organizzatori devono accontentarsi di quello che passa il convento. Si prevede che il pubblico pagante sarà numeroso, e quindi l’evento potrà considerarsi un successo. Come sempre, la soubrette, pagata coi soldi dello Stato, protetta dagli uomini in divisa pagati dallo Stato, in posa su un palcoscenico (pagato dal Comune?), si lancerà in una delle sue performances all’insegna della denuncia degli sprechi di denaro pubblico.
Si spera che i contestatori della tournée recitino la loro parte, senza rendersi conto, oppure senza volerlo ammettere, che è stata loro assegnata da altri.
Se faranno quanto loro richiesto, ossia spaccheranno cose, arredi, e permetteranno ai poliziotti di caricare, segneranno un’uscita dal reale. L’atto uscirà per forza dall’atto, e il pensiero cesserà di pensare, perché l’evento sarà solo un racconto, già scritto, già prigioniero dei presupposti, già ordinario e controllato. Quello che vogliono i coreografi è esattamente questo: la selezione di un agire apparente, che si renda conforme all’immaginario cosiddetto metafisico dei media e della paura popolare. La soubrette vive di questo: la “mossa”, il can-can, il caos pianificato e previsto con epilogo possibilmente violento.
Se i contestatori vorranno riprendersi il tempo e lo spazio dovranno invece evitare la non-contestazione travestita da contestazione. Dovranno contrapporre alla necrofilia della coreografia dominante, il loro entusiasmo e il loro coraggio. Potrebbero riflettere su questa dedica di Gilles Deluze al suo maestro Jean Paul Sartre, del 1964: “Nel momento in cui diventiamo adulti, i nostri maestri sono quelli che ci colpiscono per una radicale novità, quelli che sanno inventare una tecnica artistica o letteraria, e trovare i modi di pensare che corrispondano alla nostra modernità, ovvero alle nostre difficoltà e ai nostri entusiasmi diffusi”.
I nostri entusiasmi diffusi. Alla fisiognomica lugubre della soubrette e dei suoi capi tribali potrebbero contrapporre una nuova azione, all’insegna del contro-intuito che può ribaltare il racconto con un inizio e una fine già scritti. Potrebbero fare festa, suonare trombe e tromboni; ballare, cantare e gridare, per coprire le voci aggressive dei padroni della piazza; potrebbero sfilare nudi, come fanno spesso i loro fratelli e sorelle a Londra, opponendo una gioia e una libertà alla minaccia dei fabbricanti di morte e di paura. Potrebbero esibire fantocci e ritratti alla Grosz dei padroni mediatici, gonfi di boria, di ladrocinio e di malattia mentale.
Potrebbero cioè avere fede nel reale, e liberarsi, forse per sempre, dalla metafisica.