di Valerio Evangelisti
[Questo articolo è apparso su La Repubblica del 20 aprile 2008, a commento del libro Il diario perduto di Indiana Jones, ed. White Star, 2008, pp. 160, € 19,90.]
Leggendo questo curioso Diario perduto di Indiana Jones, il lettore si imbatterà, in data maggio 1939, in un riferimento sorprendente, dato che non è collegabile a nessun film dedicato da George Lucas al suo eroe. Vi si parla di certa Sophie Hapgood, di un mistero relativo ad Atlantide, di due dischi di pietra sovrapposti da fare ruotare per aprire chissà quale passaggio.
In effetti, nessuno dei film noti con Indiana Jones protagonista contiene temi del genere (né li conterrà il quarto film annunciato, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo). Alcuni lettori del Diario, però, non potranno trattenere un sorriso ed evitare un moto di nostalgia. I rimandi sono alla più avvincente e straordinaria creazione di George Lucas: Indiana Jones and the Fate of Atlantis. Un film o un telefilm mai giunto dalle nostre parti? No, un videogioco uscito nel 1992. Chi vi si sia consacrato non potrà mai dimenticarlo.
Sono numerose le trasposizioni per computer delle avventure dell’archeologo più spericolato al mondo, e tuttavia nessuna batte questa: nemmeno quelle più graficamente raffinate adattate alla playstation in tempi successivi. Chi abbia giocato a The Fate of Atlantis non ne è uscito intatto. Ricordo di avere persino sognato il villaggio greco che appariva a un certo punto, mentre Jones cercava un testo smarrito di Platone. Di videogiochi, all’epoca, ne facevo tanti, e la saga di Monkey Island, sempre di George Lucas, rimane viva nella mia memoria. Tuttavia solo “Il destino di Atlantide” fu capace di filtrare nel mio subconscio, e da lì nei miei sogni.
Sophie Hapgood mi è ben nota. Una biondina affascinante e pestifera, che per tutta l’avventura tormenta Jones con richieste capricciose e bizzarre. La tipica ragazza dei film degli anni ’30 o ’40, in apparenza vanesia e in realtà intelligente e indomita. A un certo punto del gioco, si chiedeva se si volesse proseguire con lei o senza di lei (c’erano tre possibilità diverse). Mai mi sarei privato dei dialoghi brillanti tra Indiana — cioè me — e la frizzante e molesta Sophie. Le diverse soluzioni, in cui lei spariva, le ricordo appena. Le tentai, sì, ma non avevano smalto.
Quanto a Indiana, era tutto azione, sfighe e ironia. Anche l’incipit del gioco era straordinario, con Jones che, mentre scorrono i titoli di testa e la celebre colonna sonora di John Williams, inciampa, scivola, rimbalza, passa da un piano all’altro di un museo.
Seguivano avventure meravigliose: scoperta di templi perduti con i loro passaggi segreti, ghiacciai islandesi con strani manufatti, affollate città mediorientali, un sottomarino nazista, fiumi sotterranei, idoli incomprensibili, enigmi continui. Insomma, l’essenza stessa delle avventure di Indiana Jones, sempre pronto a sdrammatizzare, con una battuta sarcastica e con dialoghetti degni di una sophisticated comedy, le situazioni più tragiche.
Altrettanto beffardi erano stati l’Aramis di Dumas, lo Yanez di Salgari, lo Scaramouche di Rafael Sabatini, e via via, fino al dottor McCoy di Star Trek. Lucas, con Indiana Jones, crea un concentrato della narrazione d’avventura. Accumulo di misteri, d’azione e d’eroismo. Con, a lato del protagonista, un Watson o un’altra variante di Sancho Panza, solo più sexy. Qualcuno che liberi, a tocchi di umorismo, l’eroe dagli eccessi di retorica, e ne riporti la gloria a livelli accettabili. Una costante del romanzo popolare, come dimostrò Umberto Eco a proposito di Nero Wolfe e del suo fido Archie Goodwin, in Apocalittici e integrati. Nel caso di Indiana Jones si tratta di donne sempre diverse, bellissime, brillanti e scocciatrici, eppure indispensabili nella soluzione del mistero.
Quanto a Indiana, unisce al coraggio indubbio e alla riottosità alla disciplina, una sfortuna ostinata nel procurarsi guai, e una fortuna altrettanto ostinata nel poterne uscire. Eppure non è semplice eroe bidimensionale. In lui vivono contraddizioni, ripensamenti, tensioni verso una vita più tranquilla. Non ce le dice ma le intuiamo. Sono le circostanze che lo trascinano all’avventura. O almeno così ci fa credere. In realtà si tratta di una vocazione. Il fatto che la nasconda un poco ce lo rendono più simpatico.
Indiana non potrebbe vivere che negli anni ’30. Una guerra si prepara, la precedente sembra lasciata alle spalle. L’americano giramondo è visto con simpatia un po’ da tutti, nazisti inclusi, e accolto ovunque. La lotta sta per farsi dura, però nessuno negherebbe l’accesso ai propri monumenti a chi viene da una nazione notoriamente neutrale, e per di più fa di professione l’archeologo. Il più innocuo dei mestieri, si direbbe.
In verità, sotterraneamente, il conflitto è già iniziato. Indiana Jones, nel diario, ne appunta i segnali: articoli di giornale, documenti. Tanto fitti quanto le foto delle donne che seduce o da cui è sedotto. Che cerchi il Graal o le vestigia di Atlantide, è pronto a uccidere alcuni dei potenziali nemici del suo paese senza troppi rimorsi. In fondo è un James Bond più acculturato, anche se non sembra saperlo. Un agente dell’incipiente egemonia degli Stati Uniti.
Delle civiltà diverse dalla sua gli interessano le vestigia, non il presente. I non-americani sono un’accozzaglia di bestie ostili, dipinte costantemente in vesti negative. Ucciderne alcuni a casaccio è più un dovere che un peccato.
Indiana Jones avanza verso i monumenti e le reliquie che lo interessano correndo instancabilmente, e lasciandosi alle spalle scie di morti. Capisce le culture passate, ma non chi seguita a farsene portatore. Più ne uccide e meglio è. Comprendiamolo: è un archeologo, non uno storico. E poi il nome stesso ci dice che è anzitutto uno yankee.
Non siano prese come notazioni negative. Le caratteristiche elencate riflettono un’epoca in cui gli americani spargevano sangue come adesso eppure risultavano simpatici. Tante volte imbroccavano la causa giusta, come fu l’impegno nella seconda guerra mondiale; e se, parallelamente, erano impegnati in faccende più discutibili, l’energia vitale che spandevano attorno lo faceva dimenticare.
Indiana Jones risponde perfettamente alla definizione che Maurice Leblanc dava del suo Arsène Lupin: un “professore di energia”, gonfio di ottimismo, cinico il giusto, idealista nel profondo, capace di sbrogliarsi nelle circostanze più avverse. Un modello addirittura archetipico, nel romanzo e nel cinema d’avventura: quello della “simpatica canaglia”, di volta in volta moschettiere, corsaro, ladro gentiluomo, avventuriero spaziale. Se Harrison Ford non avesse incarnato alla perfezione il personaggio — quasi identico, del resto, allo scalcagnato pilota di Guerre stellari — l’interprete ideale di Indiana Jones sarebbe stato Jean-Paul Belmondo.
L’assieme delle imprese del meno pedante degli archeologi potrebbe essere raggruppato sotto una definizione di sapore deamicisiano: “amore e ginnastica”. Il suo diario lo testimonia: foto, ritagli e passaporti lo fanno saltellare da un angolo all’altro della terra, tra popoli di cui non sa nulla (e di cui non vuole sapere nulla) e in compagnia di donne di cui sa ancora meno, tanto che — dopo avere “fatto ginnastica” con loro, in più di un senso — le perde ogni volta. Ma l’efficacia dell’assieme è indubbia: profumo d’esotismo e d’erotismo, intelligente banalità, fascino del mistero, tocchi di umorismo anche quando si sfiora l’horror. L’eroe inconsapevolmente imperialista è capace di trascinare chiunque nel suo universo colorito e superficiale, dove, malgrado torme di vermi, insetti, bambini schiavizzati, pericoli mortali, cadaveri a profusione, una via d’uscita c’è sempre per l’uomo bianco dotato di astuzia e di coraggio.
E’ una scelta cosciente quella di Lucas? La propaganda voluta di valori americani oggi improponibili, ma un tempo vivi e riesumati con nostalgia? Io non lo credo (d’altra parte Lucas produsse nel 1985 il film di Haskell Wexler Latino, durissimo e finanche troppo pedagogico atto d’accusa contro le malefatte reaganiane in Nicaragua). Piuttosto, Lucas attinge a piene mani a un secolo e passa di narrativa avventurosa e ne fornisce una sintesi capace di catturare chiunque. Altri hanno cercato di ripetere l’impresa senza giungere a risultati altrettanto brillanti.
Io lo so bene perché sono stato Indiana Jones. In The Fate of Atlantis, prigioniero dell’ipnotismo dei videogiochi, ho percorso lande remote molestato e incantato dalla splendida Sophie, l’ho liberata quand’era in prigione, ho navigato per strani fiumi circolari e mosso le membra di idoli nella speranza che mi schiudessero passaggi occulti, verso templi sotterrati da millenni. Poi ho goduto come un bambino nel vedere film che erano già videogiochi in potenza, pieni di meraviglie a ogni scena.
Ora hanno pubblicato il mio diario, senza peraltro chiedermi il consenso. Non me ne dispiaccio troppo, perché non contiene il mio vero segreto, appuntato in due pagine strappate. Quello del Graal? No, quello delle narrazioni capaci di trasportare in altri mondi e di far vivere esperienze emozionanti e inconsuete. Un tipo di racconto che da sempre esiste e per sempre esisterà, alla faccia dei tetri cantori della monotonia e della morte del romanzo. Sandokan è vivo, Arsène Lupin è vivo, Indiana Jones anche. Un mondo senza di loro sarebbe orribilmente simile all’orwelliano 1984.