[da Walter Catalano, autore di Applausi per mano sola, edito da Clinamen, riceviamo e volentieri pubblichiamo quest’intervento].
«Avevo un fratello. Non ci siamo mai visti, ma non importava. Avevo un fratello che andava per i monti mentre io dormivo. Lo amai a modo mio. Gli rubai la voce, libera come l’acqua. Camminai a tratti vicino alla sua ombra. Non ci siamo mai visti, ma non importava. Mio fratello sveglio, mentre io dormivo. Mio fratello che mostra, al di là della notte, la sua stella prescelta.»
Questi versi, vòlti in canzone dal compositore cubano Pablo Milanès, li scrisse Julio Cortàzar, argentino, noto soprattutto come narratore ma che aveva da sempre coltivato, in tono minore e più privato, anche la poesia. Il fratello ideale era Che Guevara.
Se quest’uomo profondamente idealista e romantico fosse sopravvissuto alla leucemia che lo stroncò a sessantanove anni, il 12 gennaio del 1984, ci sarebbe da chiedersi come avrebbe reagito assistendo al naufragio dei propri sogni: il crollo del Nicaragua Sandinista – per il quale aveva lottato, con la penna se non con le armi, ed a cui aveva sacrificato il tempo e le energie preziose dei suoi ultimi anni ed i diritti d’autore dei suoi ultimi libri; il fioco spegnersi della Rivoluzione Cubana di Castro, che aveva amato e sostenuto; il mito del Che ridotto a merce, il suo volto, icona svuotata di qualsiasi contenuto, occhieggiante da magliette, posters e calendari accanto a Marylin Monroe e a Jim Morrison; la letteratura latinoamericana, nella cui importanza letteraria aveva creduto, scaduta ormai solo a ingrigita e rutinaria sopravvivenza di estenuati confezionatori di best sellers, Isabel Allende ed il “companero” Gabriel Garcia Màrquez in testa. È crudele chiamare fortuna il fatto che questo destino gli sia stato risparmiato.
Cortàzar nasce – “prodotto del turismo e della diplomazia” – a Bruxelles, il 26 agosto del 1914.
«Mi toccò nascere nei giorni dell’occupazione tedesca […] al principio della Prima Guerra Mondiale. Avevo quasi quattro anni quando la mia famiglia poté tornare in Argentina. Parlavo soprattutto francese e mi restò il modo di pronunciare la ‘r’ che non riuscii mai a correggere».
“Il francese” lo chiamano i compagni di scuola, ed anche questo contribuì a rendere la sua personalità ancor più schiva, timida e solitaria. Questo ritratto impietoso darà di sé qualche anno più tardi:
«Appassionato di boxe, melomane, lettore a giornata piena, innamorato del cinema, borghesuccio cieco a tutto quello che oltrepassasse la sfera dell’estetica. […] Non avevo il minimo compromesso con la storia, e ancora meno con alcuna ideologia o politica: ero quello che si dice un giovane liberale […]».
Le sue idee cambiarono, ma solitario restò fino alla fine, poco prima della morte scrisse:
«Non mi piacciono le moltitudini. Nella moltitudine mi sento a disagio, anche se si tratta di moltitudini i cui ideali e le cui lotte condivido, come a Cuba o in Nicaragua».
Si diploma maestro nel 1932 ed insegna francese, non potendo frequentare, come avrebbe voluto, la Facoltà di Lettere e Filosofia, a causa della sua precaria situazione economica. Quando Peròn torna al potere nel 1945, abbandona l’incarico scolastico prima di essere cacciato: ha infatti partecipato ad un movimento universitario di resistenza antiperonista.
«Ho fatto parte di un gruppo – per ragioni di classe piccolo borghese – antiperonista che confuse il fenomeno Juan Domingo Peròn, Evita Peròn ed una buona parte della loro squadra di malandrini con il fatto – che non avremmo dovuto ignorare – che con Peròn si era creata la prima grande convulsione, il primo grande movimento di massa nel paese: era iniziata una nuova storia argentina. Questo oggi è chiarissimo, ma allora non sapemmo vederlo […]; la nostra condizione di giovani borghesi che leggevano in varie lingue, ci impedì di comprendere questo fenomeno. Ci disturbavano molto gli altoparlanti agli angoli di strada che gridavano ‘Peròn, Peròn, qué grande sos’ perchè coprivano l’ultimo concerto di Alban Berg che stavamo ascoltando…».
Nel 1951 vince una borsa di studio per Parigi e vi si trasferisce definitivamente, lavorando come traduttore per l’UNESCO e continuando a scrivere.
«I primi anni a Parigi, fra il 1951 ed il 1953, sono anni catalizzatori, anni in cui si realizza una specie di coagulazione della mia esperienza precedente in Argentina che, fino a quel momento era stata dispersa o si era tradotta nei pochi racconti scritti fino ad allora. […] Il fatto di essere venuto in Europa in un momento abbastanza critico della mia vita, non solamente non mi ha tolto niente della mia latinoamericanità, nè dell’argentinità, specificamente, ma piuttosto ha prodotto un’accumulazione di esperienze che l’Argentina non mi avrebbe mai dato.»
Per i critici suoi compatrioti, recensori delle sue prime opere, però, Cortàzar tornò ad essere, per molti anni ancora, “il francese”.
Solo Jorge Luis Borges si accorgerà di lui facendolo pubblicare sulla rivista «Sur» ed includendo un suo racconto Casa tomada nella seconda edizione di Antologìa de la literatura fantàstica curata insieme con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo.
Eppure Borges e Cortàzar, come uomini e come scrittori, non potrebbero essere più diversi, quasi antitetici. Il primo conservatore e “di destra”; il secondo rivoluzionario e “di sinistra”; il primo “bravo ragazzo”, perennemente attaccato alle gonne della vecchia mamma ed al rifugio della dimora avita; il secondo “ragazzo cattivo”, scappato di casa al di là dell’oceano. Sebbene entrambi pratichino quel “realismo fantastico” definito dai teorici della narrativa latinoamericana, i loro registri non potrebbero essere più lontani. La prosa misurata, concisa, essenziale, classica del primo e quella concitata, sperimentale del secondo, in cui il flusso di coscienza, l’abolizione della punteggiatura, l’invenzione di neologismi ed il rimbaudiano “deragliamento sistematico di tutti i sensi”, regnano sovrani.
Il riferimento ai classici letterari e filosofici da un lato; alle avanguardie storiche e alla fenomenologia dall’altro. L’approccio essenzialmente filosofico, in cui domina la parola, dell’uno; quello onirico-allucinatorio, in cui domina l’immagine, dell’altro. L’ossessione gnoseologica di Borges ed il suo feticcio, il libro; l’ossessione totemica di Cortàzar ed il suo feticcio, gli animali. Qua un simbolismo allegorico-metaforico in cui il significante rimanda sempre ad un significato, in cui la finzione è un esercizio della mente e l’ambiguità è ludica (Eraclito, Nietzsche e il gioco di Dioniso); là la libera associazione in cui non c’è rapporto apparente fra significante e significato, in cui la finzione è puro artificio e l’ambiguità è sistematica (il “questa non è una pipa” scritto sotto a una pipa di Magritte; il simbolismo paranoico-critico di Dalì, ecc.).
Come ha scritto il critico argentino Saul Yurkievich:
«Per Borges il fantastico è consustanziale alla nozione di letteratura, concepita soprattutto come affabulazione, come fabbrica di chimere e di incubi, governata dall’algebra prodigiosa e segreta dei sogni, come sogno diretto e deliberato. Cortàzar rappresenta il fantastico psicologico, ossia, la irruzione/eruzione delle forze estranee nell’ordine delle affettazioni ed effettuazioni ammesse come reali, le perturbazioni, le fratture del normale/naturale che permettono la percezione di dimensioni occulte, ma non la loro intellezione».
Nelle prime raccolte di racconti, Bestiario (1951), Final del Juego (1956), Las armas secretas (1959), si rivela al meglio la wunderkammer cortazariana: nella maggior parte dei casi si tratta di ghost-stories in cui il fantasma è stato espulso o taciuto; al suo posto un vuoto, i suoi “effetti”, i suoi riflessi, come impronte od onde concentriche e successive alla superficie del reale.
Così in Casa tomada in cui una coppia di fratelli viene progressivamente scacciata dalla propria abitazione da “qualcosa” che non viene mai nominato; o in Después del almuerzo in cui il narratore deve portare a passeggio un misterioso “lo”, non è dato sapere chi o che cosa sia questa “presenza assente” (un fratello handicappato, un animale, un mostro, un oggetto inanimato): il racconto non è che l’inventario delle possibili e contraddittorie ipotesi; o in Las babas del diablo (a cui Michelangelo Antonioni si ispirò per il suo film Blow-up), dove l’espediente di un ingrandimento fotografico scompagina la simmetria fra mondo ed immagine del mondo; o ancora in El ìdolo de las Cìcladas, in cui il ritrovamento di un arcaico idolo cicladico annulla il dislivello che separa il tempo mitico dal tempo ordinario, proiettando gli archeologi nello psicodramma primordiale del rito, rito di sangue in questo caso; o infine nella long-short-story El Perseguidor, in cui il rapporto fra arte e critica – fra il musicista jazz Johnny Carter (parafrasi letteraria del grande sassofonista Charlie Parker) ed il suo biografo Bruno (il persecutore, appunto) – si risolve nell’ambigua relazione fra vampiro e vittima, ove però è il vampiro – il critico nella sua ossessione tassonomica e razionalizzante – prigioniero dei limiti dello spazio e del tempo, mentre la vittima – l’artista – intravede nel momento creativo la soglia della libertà tanto effimera quanto reale (“Questo l’ho suonato domani” – dirà Johnny riemergendo dall’estasi dell’improvvisazione).
Si tratta di racconti, come gran parte delle opere di Cortàzar, in cui il testo non esiste che nella misura in cui una disposizione attiva del lettore lo organizza e lo centra.
Traduttore spagnolo di Edgar Allan Poe, Cortàzar ha imparato dal maestro statunitense a diffidare dell’armamentario “gotico”, tipico del fantastico pedestre, e a teorizzare il “sentimento del non esserci del tutto”: «non esserci del tutto in una qualsiasi delle strutture, delle ragnatele che prepara la vita e in cui siamo alternativamente ragno e mosca» -dirà- e «Scrivo per deriva, per dislocamento, scrivo da un interstizio».
Questo senso di extralocalità è la nota fondamentale della sua opera, il suo metodo: esiliato, nomade fisico e culturale (traduttore professionista sempre in bilico fra più lingue), cantore delle “terre di nessuno” (il luogo geometrico di alcuni fra i suoi racconti più affascinanti sarà la metropolitana parigina), innamorato delle “gallerie” e dei “passaggi coperti” (il “Passage du Panorama” a Montmarte era il suo preferito; nel racconto El otro cielo, diventa scorciatoia spazio-temporale fra la Parigi fin de siecle e la Buenos Aires del secondo dopoguerra), sceglierà sempre “esa manera de estar entre, no por encima o detràs sino entre”.
Sebbene sia nel racconto che l’originalità di Cortàzar trova il maggiore campo per manifestarsi, egli intraprese con successo anche quell’avventura che Borges non volle mai tentare: il romanzo.
Comincia con Los Premios (1960), seguendo ancora moduli relativamente convenzionali, ma già con Rayuela (1963) la ricerca si muove in altre direzioni producendo un romanzo in cui la successione dei capitoli può non essere quella ordinaria, dalla prima pagina verso l’ultima, ma in cui il percorso alternativo suggerito è tortuoso e labirintico, tale da far sì che il lettore non sappia più a che punto del libro si trova e quanto manchi alla fine: l’odissea del protagonista, un altro esule argentino dilaniato fra Parigi e Buenos Aires – Del lado de Allà, Del lado de Acà, De otros lados (Capitulos prescindibles), queste le tre parti in cui è diviso il romanzo – diventa l’odissea di chi ha perso fra le pagine l’orientamento. Il successivo 62 modelos para armar (1968) è ancora più estremo: un romanzo corale sul vampirismo e sui sogni, percorribile in tutte le direzioni possibili a completo arbitrio del lettore che può, come dice il titolo, comporre i 62 modelli (capitoli) a suo piacimento.
L’ultimo, Libro de Manuel (1973), l’unico mai tradotto in italiano e di tutti forse il più debole, racconta, alternando la fiction a ritagli di giornali reali ripresi dalla stampa contemporanea, le disavventure politico-esistenziali di un commando rivoluzionario che sta organizzando a Parigi l’attentato contro un gerarca della Junta argentina in visita diplomatica.
La stima di Italo Calvino, che frequentava a Parigi gli stessi ambienti del Collegio di Patafisica e dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), aprì a Cortàzar le porte dell’Einaudi favorendo la traduzione di quasi tutte le sue opere principali in italiano. Così l’autore delle Cosmicomiche presentava il suo libro preferito dell’argentino, la raccolta di brevi prose Historias de Cronopios y de Famas (1962), libro in cui maggiormente emerge una vena umoristica in linea con la patafisica di Alfred Jarry e l’humour noir di André Breton:
«Questo mio discorso bipolare non tende ad altro che a preparare l’entrata in scena dei due cortei contrapposti dei cronopios e dei famas, due genie d’esseri […] o categorie antropologiche primordiali che sono la creazione più felice e assoluta di Cortàzar. […]. I famas sono quelli che imbalsamano ed etichettano i ricordi, che bevono la virtù a cucchiaiate col risultato di riconoscersi l’un l’altro carichi di vizi, che se hanno la tosse abbattono un eucalipto invece di comprare le pasticche Valda. I cronopios sono coloro che, se si lavano i denti alla finestra spremono tutto il tubetto per vedere volare al vento festoni di dentifricio rosa […] se incontrano una tartaruga le disegnano una rondine sul guscio per darle l’illusione della velocità.».
Le relazioni fra un cronopio come Cortàzar ed i famas gestori della prassi rivoluzionaria, come si può immaginare, non furono sempre idilliache:
«La liberazione interiore dell’uomo latinoamericano è ben lontana dal corrispondere alla sua liberazione esteriore. Molti dirigenti della sinistra latinoamericana sono prigionieri di un linguaggio tristemente retorico che proviene direttamente dall’avversario. Per questo le rivoluzioni falliscono, si estinguono, si convertono in burocrazie, perché l’uomo non è cambiato. Anzi è divenuto ancora più mediocre. Con un uomo mediocre si può forse fare un esercito ma non una rivoluzione»
«Mi rattrista che molti dei dirigenti rivoluzionari diventino così seriosi, a un punto tale che finisce per allontanarli dalla realtà. Una rivoluzione che non prenda in considerazione la necessità del gioco, dell’allegria, dell’espansione mentale, sentimentale, psicologica, è una rivoluzione condannata ad anchilosarsi, a burocraticizzarsi, a ridurre tutto a tessere ed espedienti».
«La mia idea del socialismo latinoamericano è profondamente critica».
Fu dunque, spesso amato, talvolta appena tollerato, ma comunque sempre accolto fra i lìder maximos del mai compiuto riscatto latinoamericano: i suoi racconti politici – come Segunda vez, Graffiti, Reuniòn, Alguien que anda por ahì, Satarsa, Pesadillas, La escuela de noche, inclusi in varie raccolte come Todos los fuegos el fuego (1966), Octaedro (1974), Alguien que anda por ahì (1977), Queremos tanto a Glenda (1981), Deshoras (1983) – brillano sulla grigia palude di retorica di gran parte della letteratura corrente, come fuochi fatui splendidi e terribili, capaci di rendere davvero sia l’orrore dei desaparecidos e della dittatura di Videla o di Somoza, sia la purezza ideale di molti fra gli uomini che questi orrori hanno combattuto. Come quasi sempre accade, l’unico autentico realista è il visionario.
Per qualche critico, in ultima analisi, Cortàzar – politica a parte – resta letterariamente soprattutto un manierista: condotto all’estremo il suo sperimentalismo si risolve in uno scacco. Come osserva Rosalba Campra: “ogni illusione, ogni esperienza della non-razionalità è raccontata comunque a partire da questo lato, quello della ragione. Ecco il paradosso di tale scrittura: dall’altro lato sarebbe stata impossibile, lì non si scrive.
L’alternativa è – ancora una volta – il silenzio”. Questo giudizio non toglie molto al valore, se non altro, di avvicinamento (nel senso che al termine avrebbe dato Ernst Jünger) della esperienza letteraria cortazariana.
L’ultima avventura del cronopio prossimo alla fine è la più folle, dolce e triste.
«Nel 1982, quando ormai sanno di essere malati terminali – scrive Ernesto Franco – entrambi, Julio Cortàzar e la sua ultima compagna, Carol Dunlop, si propongono un ultimo gioco, un ludico esorcismo sulla soglia dell’abisso. L’idea è quella di percorrere su un piccolo camper – il quale diventa naturalmente un ‘dragone’ con tanto di nome wagneriano, Fafner – l’autostrada che taglia in due la Francia da Parigi a Marsiglia. Ma un gioco non è tale senza regole precise: si dovrà far sosta in tutte le aree di parcheggio, nella misura di non più di due ogni ventiquattro ore, con permanenze per la notte nella seconda (il che fa sessantasei fermate in trentatre giorni); non si potrà mai uscire dall’autostrada, ma si potrà sfruttare tutto quanto essa offra, nonché accettare aiuti e rifornimenti che volenterosi amici portino dall’esterno; andrà steso un minuzioso diario di viaggio a quattro mani che riporti osservazioni esterne ed impressioni dello spirito. Ne nasce Los autonautas de la cosmopista, cronaca di un itinerario ‘atemporale’. Un viaggio banale attraverso uno spazio irrigidito dalla velocità e dalla tecnologia si trasforma in avventura ‘patafisica e surrealista’, mentre il libro che ne rende conto – con tanto di cartine, mappe e fotografie – si prende gioco della retorica con cui la tradizione letteraria e storiografica […] ci ha trasmesso le narrazioni di mirabili imprese e straordinari accadimenti».
Quando Los Autonautas de la Cosmopista o Un viaje atemporal Parìs- Marsella uscì, nel 1983, Carol se ne era già andata da qualche mese, Julio l’avrebbe seguita un anno dopo. L’esito del loro estremo, apotropaico tentativo di fermare il tempo, di realizzare proditoriamente l’utopia romantica della sintesi di arte e vita, era del resto già previsto. Da qualche interstizio però, fra il Tao ed il fumo azzurro di un sigaro cubano, nel geroglifico multicolore di una mappa del metrò o nell’eco su vinile di un assolo di Charlie Parker, aleggia una traccia impalpabile, il sospetto che, se davvero si è trattato di un gioco, allora, dopo tutto, l’abbiano vinto loro.
Bibliografia
– Ernesto Gonzalez Bermejo, Conversaciones con Cortàzar, Edhasa, Barcelona 1978
– Omar Prego, La Fascinaciòn de las palabras: Conversaciones con Julio Cortàzar, Muchnik Editores, Barcelona, 1985
– Saul Yurkievich, A través de la trama: sobre vanguardias literarias y otras concomitancias, Muchnik Editores, Barcelona, 1984
– AA.VV., Julio Cortàzar: La isla final, Ultramar, Madrid, 1983
– AA.VV., Lo lùdico y lo fantàstico en la obra de Julio Cortàzar, Espiral Hispano-americana, Editorial Fundamentos, Madrid, 1986
– Julio Cortàzar, Textos politicos, Plaza&Janés, Barcelona, 1985
– Italo Calvino, Nota a: Storie di cronopios e di famas, Einaudi, 1981
– Ernesto Franco, Nel giro del giorno in ottanta mondi, introduzione a: Julio Cortàzar, I racconti, Einaudi/Gallimard, Biblioteca della Pléiade, 1994
– Rosalba Campra, Julio Cortàzar o l’inseguimento senza fine, in Terra America: Saggi sulla narrativa latinoamericana, a cura di Angelo Morino, La Rosa, 1979.
Tutte le traduzioni sono dell’autore.