di Mauro Baldrati
Sulla vicenda dello sgombero dell’edificio occupato ex Telecom di Bologna, accanto all’interminabile dibattito sulla “legalità”, con affermazioni del tipo: “no, non è giusto occupare le case degli altri”, mentre non si tratta di “casa”, ma di un palazzo a vetri in stato di degrado, stupisce (i più ingenui, ovviamente, come il sottoscritto) la modalità di comunicazione del fatto da parte dei media mainstream. E si riapre, per l’ennesima volta, la questione del reportage, dell’attendibilità del racconto giornalistico.
Più volte si è discusso sull’informazione “neutra”, rivolta alla restituzione “pura” degli eventi, senza cioè schierarsi, senza influenzare la notizia, che deve vivere di vita propria. Operazione impossibile, oltre che eticamente sbagliata: riferire semplicemente che un edificio – abbandonato da tempo – viene occupato senza evidenziare il problema drammatico dei senza tetto e della speculazione edilizia non è informazione equidistante, ma reticente. Insistere solo sulla “legalità”, tacendo sulla illegalità legalizzata di interi palazzi sfitti, intesi come mero oggetto di profitto, è un segnale forte di informazione di parte, che tace su alcuni aspetti e ne enfatizza altri, in primo luogo l’interesse privato che calpesta la “vocazione” pubblica del bene. Ogni edificio, costruito su suolo privato, ma con valenza pubblica, ha a sua volta una importanza collettiva, e come tale è soggetto a normative. E’ stato sancito addirittura dalla prima legge Urbanistica promulgata in epoca fascista, la n. 1150 del 1942, che istituì la licenza edilizia.
La casa non è “merce”, non è un “prodotto”, ma un bene primario della specie, come il cibo, l’acqua, i vestiti. E se le case vengono negate, mentre interi palazzi degradati vanno in rovina in attesa di un investimento milionario che forse non arriverà mai, questo è “illegale”, e quindi è legittimo occuparli, proprio come i braccianti del ‘900 occupavano le terre incolte dei latifondi.
Ma sulla vicenda dell’ex Telecom non colpisce solo la reticenza, ma un vero e proprio “aggiustamento” della notizia. E’ abbastanza facile confezionare un reportage “taroccato”: si tacciono particolari significativi, si inquadrano dettagli che diventano una rappresentazione generalizzata dell’evento, o dell’ambiente. Tutto nasce da un progetto ben preciso: prima si costruisce la notizia, la si adatta al target di riferimento, poi si va sul posto e si cercano gli elementi da assemblare. Un giornalista sveglio risolve con facilità.
Così sulla vicenda Telecom si è spinto sull’aspetto degli scontri e dell’altissima tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Le immagini erano forti, manganellate della polizia, urla, giovani dei centri sociali che sembravano invasati, occupanti che picchiavano “spranghe” sulle ringhiere e spaccavano tutto. Non è mancato uno straccio macchiato di sangue sull’asfalto. Insomma, il solito casino dei giovani estremisti.
Ne uscivano reportage violenti, che soddisfacevano uno dei luoghi comuni preferiti dell’informazione “per famiglie”: militanti cattivi, minacciosi, forze dell’ordine schierate a difesa della “legalità”.
Ebbene, io ho seguito l’intera giornata su una sorta di palco d’onore: il mio ufficio in comune, al sesto piano, si affaccia direttamente sul palazzo ex Telecom. Non è successo nulla, a parte un brevissimo tafferuglio alle ore 9 durato non più di venti secondi, dove probabilmente un paio di manifestanti si sono beccati una manganellata. Per il resto la situazione che ho ritratto nella foto (di qualità scadente per via di una pellicola frangisole attaccata alla vetrata) si è protratta dalle 9 alle 18, sempre uguale. Due schieramenti contrapposti, con slogan, e drappelli di occupanti che uscivano alla spicciolata accolti da applausi.
Poteva andare per i media, soprattutto la televisione? Figuriamoci. Bisogna che scorra il sangue. Così i telespettatori hanno assistito all’ennesimo spettacolo convulso, coi cattivi che hanno fatto il loro dovere. Tutta la violenza insita nell’evento, “compressa” nello sgombero di famiglie autorganizzate che sono precipitate nuovamente nello status di estrema precarietà, è sprigionata nelle immagini e nei commenti sugli scontri, che in realtà non si sono verificati.
Sorprende la semplicità primordiale, arcaica, con la quale si propaga la cosiddetta “informazione”: tenere alta la minaccia, il sentimento di allarme. Funziona da secoli, sempre uguale, nonostante le nuove tecnologie, internet, facebook, i cellulari e tutto il resto.
D’altra parte anche la paura è produzione. Per parafrasare il Marx delle Teorie del plusvalore, la paura produce profitto, produce i giudici, le procure, la polizia, i giornalisti, i governanti, “e tutte queste differenti branche di attività che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano bisogni nuovi e nuovi modi di soddisfarli”. La paura “produce un’impressione, sia morale, sia tragica, a seconda dei casi e rende così un «servizio» al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico.”
Insomma, la paura funziona. E se un evento non ne sprigiona abbastanza, lo modifichiamo. Lo miglioriamo. Lo ottimizziamo.
Poi, dove finisca “l’informazione” a nessuno importa più.