di Valerio Evangelisti
Azzarderò — pur non ritenendomi per niente un esperto in politica — qualche considerazione sulle elezioni che si sono appena svolte in Italia. I commenti che le hanno seguite si sono incentrati su alcuni temi. Il permanere del sex appeal di Berlusconi, la sostanziale sconfitta del Partito Democratico di Walter Veltroni, la scomparsa del raggruppamento “La Sinistra l’Arcobaleno” (mai denominazione fu così imbecille), il consenso di larga parte della classe operaia alla Lega Nord.
Quest’ultimo è il solo argomento che mi interessa davvero. Mi lascia sbalordito la strana nozione di “classe operaia” che pare aversi nel 2008. Si crede ancora che esista una compagine operaia compatta, portatrice in teoria dei valori della sinistra? Sono almeno trent’anni (se non quaranta) che il concetto è stato sezionato, sbugiardato, messo a nudo nella sua incongruità. La classe operaia cui si fa riferimento non esiste più dagli anni Settanta del Novecento.
Qui si fa sentire il peso della scomparsa di un pensiero marxista radicale, represso quale “cattiva scuola” introduttiva al terrorismo (come marijuana e hashish introdurrebbero, in teoria, alle “droghe pesanti”). Si è scordato completamente il concetto marxiano di “sussunzione reale” (del lavoro al capitale). Una fase avanzata del capitalismo in cui il plusvalore non è più estorto nei soli luoghi di lavoro, ma permea l’intera vita delle classi subordinate e ne domina l’intera esistenza, non-lavoro incluso. Lungi da me l’idea di difendere l’integralità del pensiero di Marx, che non era Nostradamus e non poteva prevedere altro che ciò che aveva sotto gli occhi. Poteva però estrapolare. Tra le sue estrapolazioni più felici vi fu quella che, prima o poi, lo sfruttamento non sarebbe passato solo attraverso la fabbrica.
Sulla scorta di questa nozione, tra gli anni Sessanta e i Settanta, numerosi teorici “estremisti” (gli “operaisti”) si accorsero che la classe operaia tradizionale perdeva terreno, e veniva smembrata pezzo per pezzo. Vi fu il “decentramento produttivo”, per cui la grande fabbrica cedeva attività a imprese minori nelle quali operai e impiegati godevano di un numero irrisorio di diritti. Seguì l’inganno del falso “lavoro autonomo”, in cui l’impresa stipulava con soggetti presuntivamente indipendenti accordi di collaborazione a termine. La caduta del Muro di Berlino e la globalizzazione permisero di impiantare attività produttive in ogni parte del globo, purché il lavoro vi fosse mal pagato e gli oneri fiscali vi fossero labili. Infine la glorificazione del precariato, con la Legge Biagi e altre, consentì di disporre di manodopera per il periodo voluto, dentro o fuori la tradizionale officina. Ciò stava avvenendo anche con l’immigrazione massiccia innescata dalle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale su paesi non in grado di reggerla.
Il ricatto ai lavoratori italiani era: o accettate le condizioni che vi offriamo, o andiamo a produrre in Croazia, in Polonia, in India, in Cina. Oppure assumiamo al vostro posto poveracci pronti a piegarsi a qualsiasi salario che li strappi alla fame. E voi, di lavoro, non ne troverete mai più.
In un quadro simile, la classe operaia poteva solo contrarsi e indebolirsi, come in effetti è accaduto. Si parla tanto dei metalmeccanici della FIOM, ma quanti sono oggi gli operai della categoria, rispetto a trenta anni fa? Hanno forse lo stesso grado di “coscienza di classe”?
No, non l’hanno. Decimati, sulla difensiva, stentano a riconoscersi persino come categoria. I sindacati che dicono di rappresentarli (e che, crollati i partiti di riferimento, si passano la staffetta del comando al di là di ogni procedura democratica, per investitura diretta) sono composti per metà da pensionati reclutati a forza nei Caaf. Hanno sopportato di tutto da chi doveva difenderli: flessibilizzazione, decentramento, allungamento dell’orario di lavoro attraverso l’imposizione di fatto dello straordinario, ecc. Se vogliono ancora protestare, lo faranno contro chi è pagato ancor meno di loro (gli immigrati), e su base territoriale, non di classe. E’ logico che chi sta fuggendo si rifugi anzitutto in casa propria.
Il voto alla Lega Nord (peraltro ampiamente sopravvalutato) meraviglia, a questo punto, solo gli ingenui. Ma passiamo ai restanti segmenti delle classi subalterne.
La sinistra, quando aveva un cervello e leggeva ancora, poteva trovare qualche indicazione sulla mappa perduta di classe in un aureo libretto dell’americano Henry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1978. Braverman, un ex operaio americano, scriveva che la classe lavoratrice “protesta e si sottomette, si ribella o si lascia integrare nella società borghese, si considera classe o perde coscienza della propria esistenza, a seconda delle forze che agiscono su di essa e degli umori, delle congiunture e dei conflitti della vita politica e sociale. Ma poiché nella sua esistenza permanente essa è la parte viva del capitale, la sua struttura occupazionale, i modi di lavorare e la distribuzione nei settori industriali della società vengono determinati dal processo di accumulazione. Essa è presa, abbandonata, gettata in varie parti del meccanismo sociale ed espulsa da altre non in base alla propria volontà e attività, ma secondo il movimento del capitale” (pp. 379-380).
Il proletariato, in effetti, nella sussunzione reale non è affatto sparito, in particolare quello giovanile. Come aveva cercato di spiegare un’ampia letteratura fin dagli anni Settanta, si trova oggi disperso in mille forme di lavoro precario, falsamente autonomo, falsamente intellettuale. Si salda oggettivamente ad altri lavoratori, importati per eseguire quel tanto di lavoro manuale che è ancora indispensabile. Perseguitati, reclusi nei CPT, condannati socialmente perché la loro condizione non diventi mai regolare — ciò che condurrebbe a un intollerabile aumento di costo delle loro prestazioni.
Non ne posso più di sentire portare a esempio di precariato i “lavoratori dei call center”, come se facessero parte di una sorta di mercato accessorio e marginale, e la loro precarietà discendesse da quella delle loro imprese. Andrebbe capito il ruolo sociale di un “call center”, nella sussunzione reale. Si tratta di aggiungere valore alle merci unendovi la comunicazione e l’informazione. Un “Tonno X” è identico a un “Tonno Y”, sugli scaffali. Ma se io faccio in modo che “X” sia legato alla nozione stessa di tonno, il “Tonno Y” resterà invenduto, al di là del suo valore d’uso, mentre il “Tonno X” andrà a ruba.
Comunicazione e informazione aggiungono valore, nell’attuale assetto del capitalismo. Ciò anche se questo non avviene in un luogo di lavoro riconoscibile. Anzi, la sua sede è proprio esterna. Cosa che vale per tantissime altre forme di immaterialità produttiva (altro tema ampiamente esaminato negli anni Settanta). L’obiettivo è sussumere il soggetto subalterno fuori dell’orario canonico di lavoro, quando si illude che il suo tempo sia “libero”. Condizionarne fantasia, immaginario, reazioni. Fargli produrre valore allorché si crede a riposo. Buona parte delle attività precarie è indirizzata a questa conquista. Antitetica alla vecchia formula socialista “Otto ore per lavorare, otto ore per istruirsi, otto ore per riposare”. Istruirsi e lavorare (nel senso di aggiungere valore alle merci) è diventato la stessa cosa. Ma si potrebbe aggiungere il riposo, visto che è il momento dei sogni, e quei sogni nascono condizionati.
Discorso astratto e visionario? Mica tanto. Negli Stati Uniti e in buona parte dell’Occidente l’industria dello spettacolo (cinema e soprattutto tv) e quella informatica sono oggi trainanti. Entrambe sono “immateriali”. Invece la finanza si è completamente staccata dalle attività concretamente produttive, e raggiunge livelli di scambio quotidiano impressionanti, senza riferimento al valore effettivo delle singole aziende.
In un quadro simile, in cui l’Occidente si specializza nella valorizzazione delle merci brute provenienti da altri continenti o da aree depresse, il proletariato bisognerebbe andarlo a cercare tra chi sta molto in basso (gli immigrati) o chi, apparentemente collocato meglio, ai margini della produzione diretta, in realtà contribuisce in maniera strategica all’aggiunta di valore alle merci. Operatori dei “call center”, certo, ma anche informatici subalterni, studenti inseriti nella “scuola-impresa”, figure effimere che transitano da un lavoro temporaneo a un altro, immigrati eternamente disponibili a reperire risorse con qualsiasi mezzo (“angeli” per la sinistra, “demoni” per la destra, quando non sono né l’una né l’altra cosa, bensì semplicemente proletari disperati), disoccupati, insegnanti, e via enumerando. Le nuove forme che il capitale ha modellato per la propria autovalorizzazione. Agenti e vittime dell’estensione del potere del sistema alle ore di non-lavoro, in cui è l’immaginario che domina, e prefigura i comportamenti del giorno dopo. Anche le “otto ore per riposarsi” si sono saldate, nel dominio, alle restanti sedici.
Soggetti di questo tipo o votano (in minoranza) per Berlusconi, che in qualche modo ha capito la loro funzione, sia pure da padrone, o non votano affatto. Come si potrebbero sentire rappresentati da una sinistra parlamentare (parlo della sconcia “La Sinistra l’Arcobaleno”, non del Partito Democratico, che è una sfumatura della destra) che non ha nemmeno capito la configurazione attuale della società? Che, suddivisa in molteplici “partiti comunisti”, è rimasta ancorata ai canoni di tre decenni orsono? La “centralità operaia” è indiscutibile, la FIOM (tanto antidemocratica quanto i vertici di CGIL-CISL-UIL) ne è il cuore. Spazio marginale abbiano i Cobas, le RdB, le varie espressioni del sindacalismo di base. I centri sociali, naturale raggruppamento a sinistra di migliaia, o decine di migliaia, di giovani, stiano calmi. Idem per i movimenti locali: No TAV, No Dal Molin, decine di altri. La lotta di classe diventa lotta per le poltrone. Bertinotti pontifica e lancia diktat: la non violenza è un dogma inviolabile, l’adesione alla dialettica parlamentare è fatto acquisito, le “liberalizzazioni” sono un valore da accettare criticamente però da appoggiare, il comunismo è un’idea puramente filosofica.
Raccoglie omaggi e consensi dagli avversari. “Che brava persona”, “Che uomo distinto”, “Con lui sì che si può ragionare”.
Peccato che l’attuale composizione di classe non lo segua. La classe operaia che reggeva il PCI gli preferisce la Lega e la sua concretezza territoriale. Le aree che costituiscono la composizione proletaria presente ed egemonica non vanno nemmeno alle urne, per votare un partito comunista qualsiasi, tra i quattro o cinque in lizza. In chi mai dovrebbero identificarsi? Nessuno sembra capire le loro istanze e l’attuale assetto del lavoro. Le loro posizioni sono ferme agli anni Cinquanta. Trotzkismo? E che diavolo è oggi il trotzkismo?
Una composizione di classe nuova attende oggi risposte concrete. Ha trascinato i burocrati fuori dal Parlamento per farli, a forza, extraparlamentari. O troveranno una nuova vita nelle piazze, o Beppe Grillo seguiterà a godere dei frutti di una scelta strategica giusta. La sinistra consapevole di sé è diffusa nella marcia società italiana. Centinaia di centri sociali, di organizzazioni locali nate su problemi specifici, di istanze sindacali di base attendono di prendere la parola.
La si pianti di essere partitino — la falce e martello, chissenefrega — e si sia composizione di classe. Forse, allora, si troveranno i voti necessari, se è a questo a cui si tiene.
Altrimenti si riceveranno pernacchie. Il degno accompagnamento delle ultime elezioni. Una composizione di classe non ha pietà. Spernacchia ex alleati passati al nemico, “classi operaie” prossime alla pensione e diventate razziste, forme istituzionali che non la rispettano, sindaci che si inventano nemici per meglio abbatterli.
Che tutto ciò vada affanculo. Si vota (a volte) per dovere, ogni tanto per piacere. E’ nella società che li si contrasta, i porconi. Qui, nelle piazze, è atteso ciò che resta della sinistra parlamentare. O viene in tempi utili o si farà da soli.