di Simone Scaffidi L.
La gabbia dorata di Diego Quemada-Díez, Messico, 2013.
La vita di quattro ragazzi è appesa a un treno che dalle campagne guatemalteche muove inesorabile verso il grande nord. In un presente incapace di immaginare il futuro, gli Stati Uniti sono un miraggio concreto, una gabbia dorata in cui rinchiudere ciò che rimane della fuga. Juan, Samuel e Sara, la ragazza che si traveste da maschio per correre meno pericoli durante la traversata, incontrano nel cammino Chauk, l’indio tzotzil che comunica solo nella sua lingua, proprio come i suoi compagni di viaggio. Sara si avvicina a Chauk provando a infrangere le barriere linguistiche con gesti e sorrisi, Juan invece lo affronta a muso duro. Le dinamiche interne guatemalteche legate al razzismo perpetrato dalla minoranza bianca e ladina nei confronti della maggior parte della popolazione di origine maya vengono sintetizzate nella figura di Juan, diffidente, aggressivo, incapace di tollerare l’indigeno. Samuel alla frontiera messicana abbandona il campo, troppa paura del miraggio, del nuovo che travolge, preferisce chiudere gli occhi e tornare alla sua aspra terra di mais. Juan, Sara e Chauk continuano il viaggio attraversando deserti di terra e gallerie sotterranee con zaini carichi di cocaina e manganelli pronti a colpirli. Il paesaggio scorre inesorabile e magnifico ai lati di un treno di violenza che travolge, quanto più intollerabile, tanto più umano, nel vomitare ingiustizia ad ogni fumata. Ma questo è il viaggio, la traversata, le frontiere: violenza e ingiustizia senza via di fuga. La maggior parte degli attori sono migranti ingaggiati dalla troupe durante le riprese. I tre protagonisti interpretano in maniera magistrale i loro ruoli alternando una fisicità profonda a silenzi che strabordano dal video. Il regista è bravo a condire la sceneggiatura di piccoli espedienti simbolici che rendono questo film, prima che un’opera di fiction o un documentario, un ibrido narrativo capace di agire sulla realtà. La scena finale è un capolavoro visivo incredibilmente denso di significati che non lascia scampo allo spettatore e a improbabili letture consolatorie della migrazione forzata dal sud al nord del mondo.
Pelo Malo di Mariana Rondón, Venezuela, 2014.
Mariana Rondón è il nome della regista e sceneggiatrice del film. Basterebbe questa frase per renderlo eccezionale. Riprendendo le parole di Marilù Oliva, infatti, quante registe donne conosciamo? E se aggiungessimo a “donne”, anche “latinoamericane”? Il conto è presto fatto. Ma se questo è un grande film è anche e soprattutto perché dietro alla cinepresa c’è una donna. Pelo malo è infatti la storia di una maternità deviata solo se filtrata con gli occhi della morale. Può una madre odiare il proprio figlio di nove anni? Rigettare con gesti di stizza le sue carezze? Umiliarlo per la sua presunta omosessualità e farsi scopare dal proprio capo davanti a lui per farlo reagire alla sua, sempre ipotetica, “malattia”? Certo che può, una madre può odiare il proprio figlio, e Mariana Rondón non ha paura di raccontarcelo con il linguaggio duro delle immagini, perché i rapporti d’amore non sono dettati dal sangue, ma dalle possibilità e capacità di creare relazioni sociali profonde. Il contesto che attraversa e lacera le vite dei due protagonisti è la periferia urbana di Caracas, dove mostri di cemento si erigono uguali l’uno di fronte all’altro e il ricatto, la violenza e la disuguaglianza sociale si affacciano ad ogni balcone dei claustrofobici complessi di edilizia popolare. Marta, questo il nome della donna, ha 30 anni ed è vedova, non può contare sull’aiuto di nessuno se non di persone che vogliono approfittare della sua debolezza economica, da cui dipende gran parte della sua fragilità psicologica. Sfoga sul figlio le frustrazioni di un’esistenza ingiusta, la rabbia di non poter scegliere: di non poter decidere neppure di amare. Junior, i capelli ricci e arruffati se li vuole lisciare come le rockstar occidentali ma non può, la madre non glielo permette. Perché, sembra domandarci la regista lungo tutto il film. Credete davvero che il problema sia il pelo malo? E che l’omosessualità, tale o presunta di Junior, generi questa condizione di frustrazione e sfruttamento?