di Alberto Prunetti
Continuò a camminare nelle strade ormai illuminate artificialmente. La città non sembrava voler rallentare il ritmo. Il traffico rimaneva caotico e il rumore dei motori era superato solo dai colpi dei clacson. Bastarono pochi passi in direzione Corrientes e il suo stomaco cominciò a lamentarsi. Guardò le vetrine dei ristoranti. Evitò con la consueta attenzione i posti pieni di turisti e quelli con una clientela troppo affettata. Si atteneva a un’ipotesi che la realtà non aveva mai falsificato: i ricchi mangiano da schifo. Attraversò una strada, attratto da voci di ubriaconi e da un’atmosfera da taverna italiana degli anni Cinquanta. “Ecco il mio posto”, pensò.
L’interno sembrava non aver mai conosciuto ristrutturazioni e assomigliava alla casa di un rigattiere nel giorno di una festa tra amici alcolizzati. Risate, urla, voci in un castigliano incomprensibile. Non capì se fosse per il lunfardo, il dialetto portegno infarcito di termini gergali italiani, o se la colpa andasse addebitata ai radi denti rimasti in quelle bocche: ad ogni modo pareva non riuscire a intender troppo del loro spagnolo. Comprese però che quella era serata di tango cantato e di trippa gorda. Si preparò all’evento. Annuì, quando una bocca sdentata proferì qualcosa da un tavolo vicino. Un altro avventore, conscio che non aveva capito niente, gli spiegò che per tradizione lì dentro il tango era solo cantato. “Eh, sì, anche a me il tango piace solo cantato.” Spiegò: “Non mi piace ballare, tengo piernas de madera.”
“Beato te, amigo, noi di legno non abbiamo più nulla!” crepitò un avventore, prima di scoppiare a ridere.
Si avvicinò al tavolo l’oste, con una faccia degna d’un caratterista dei vecchi spaghetti-western italiani. “Mucho gusto, Carlitos”. Non c’era menu, solo un fogliaccio di carta da macellaio attaccato a un muro, e le cose sembravano essere le stesse da anni. Ma la cuoca non aveva l’aria di una che scherza. Guardandola, larga di fianchi e con una permanente sfatta, immaginò che con le padella sapeva farsi onore. Quanto alla griglia, quella era affare d’uomini, secondo il costume gaucho che si riproduceva negli anni. Ordinò la trippa gorda alla parrilla, “e vediamo cosa succede”, disse. Stesero sul tavolo una tovaglia a quadrettoni gialli e rossi, mentre un gatto soriano, addetto alla derattizzazione, si strusciava contro il suo stinco. Il vino era libero: sul bancone c’era sempre una damigiana da cinque litri e quando la svuotavano Carlitos la riempiva.
“Che fai qua, italiano?” chiede un tale, mentre tagliava il vino con l’acqua di seltz.
“Sono alla ricerca di vecchi parenti.”
“Ti piace la città?”
“Per ora è bellissima. Ricorda l’Italia che non ho conosciuto. C’è anche qualcosa di Madrid e Parigi, a tratti di New York. Ma appena entro in un locale ho la sensazione di ritrovarmi nella Roma popolare degli anni Cinquanta.”
“E’ una città che contiene tante città, questo l’hai capito bene, tano.”
“Promosso”, pensò. “Non sono più un turista, sono già diventato un tano, un italiano che ha messo radici a Baires. Meglio così.”
Scambiò due parole col tipo. In due minuti quello gli spiegò che la pizza, la pasta e il lotto erano invenzioni argentine. Non se la sentì di contraddirlo. Poi l’altro reclamò come argentine anche scopa e briscola. La misura era colma e si mise a fare il bastian contrario. L’argentino non batté ciglio e rilanciò. La tenzone si spostò sui polli allo spiedo che girano nel forno. Anche quelli argentini. Peccato che a Baires li chiamino come in Italia, pollos al spiedo, ma sul Plata nessuno conosce il significato della parola “spiedo”. Segnò un punto e per calmarlo gli offrì da bere.
Arrivò la trippa in gratella: un sontuoso pezzo di intestino grasso, arricciato sui carboni ardenti. Come omaggio della casa, enormi costole di asado. L’asado alla brace è un’arte argentina, su questo non c’era discussione. Contemplò la monumentale griglia e l’asador assorto nel suo lavoro. Su un lato era disposta la camera di combustione, che bruciava carbone fossile. Di tanto in tanto Carlitos prelevava con una pala il carbone, ridotto a brace ardente, e lo disponeva sotto la griglia. Questa, dotata di una leva, era sollevabile e regolabile. Così l’asador era libero di disporre regolarmente le braci, calibrando a suo piacimento la distanza della carne dai tizzoni che la arrostivano. Carlitos scottava la carne in anticipo e terminava la cottura solo quando riceveva una comanda. Il risultato era stupendo: la carne era quasi bruciata all’esterno, ma si conservava rosa nelle fibre interiori.
Stava ancora masticando la trippa e l’asado quando sentì le vibrazioni delle corde di una chitarra. Un tizio, con radi capelli lunghi legati in un codino, iniziò a suonare. L’oste impose il silenzio con gesto severo. Tutti guardarono un tipo di età indefinibile, quasi un barbone, con barba e capelli incolti, vestiti logori e occhi lacrimosi, di un azzurro sbiadito. Attaccò un brano, una zamba malinconica di Atahualpa Yupanqui, con voce rauca, sporca, stupenda. Ne aveva poca però, quella che l’alcool gli aveva lasciato, e per sentirlo bisognava tendere le orecchie, evitando anche di respirare. Il trovatore sdentato passava da una copla andina a un tango di Mercedes Sosa, mentre l’italiano restava assorto in un mare di malinconia musicale, in quella città triste e stupenda. La chitarra passava di mano in mano, ogni pezzo gli sembrava sempre più intenso e il vino non mancava mai nel suo bicchiere.
Poi gli occhi cominciarono a galleggiare tra i resti delle costolette di vitello scarnificate. Svuotò il fondo di rosso, lasciò quindici pesos e si lasciò ingoiare dalle strade di Buenos Aires, battute dal vento della Pampa.