di Tito Pulsinelli
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI), lunedì scorso ha deciso di mettere in vendita 400 tonnellate d’oro stivate nei suoi forzieri, e di licenziare 380 dipendenti.
Il FMI ha bisogno di fare cassa immediatamente. La crisi in cui si dibatte da vari anni è seria, e non può più giocare a nascondino, o gingillarsi con dichiarazioni ad hoc cui non credono più nemmeno i monopoli mediatici.
Il bilancio del FMI presenta numeri in rosso perché è rimasto senza clienti;
è diventato un organismo prescindibile perché esistono altre fonti di
finanziamento alternative, più vantaggiose per gli Stati.
Sostanzialmente, l’aumento del prezzo delle materie prime, del petrolio-gas,
ed ultimamente anche dei cereali ed alimenti, ha generato flussi finanziari
consistenti dai grandi centri industrializzati verso la periferia e i Paesi
in via di sviluppo.
Questi erano i clienti-forzati del FMI, cui dovevano sottostare,
arrendendosi all’iniquo scambio di capitali a cambio di sovranità economica,
fiscale, commerciale, monetaria ecc. Il FMI esercitava apertamente l’usura
internazionale a favore del mondo industrializzato: Borsa di New York,
Londra e G8.
Dominique Strauss-Kahn, boss del FMI, ha spiegato la decisione di vendere i
gioielli di famiglia, con queste parole involontariamente umoristiche.
“Abbiamo deciso di sostituire un modello obsoleto di entrate, con un altro
più moderno e prevedibile, in sintonia con le altre istituzioni finanziarie
internazionali…”.
Mentre la Cina, l’India, la Russia, l’Iran e il Venezuela (tra gli altri)
hanno diversificato le proprie riserve nazionali alleggerendole dei dollari,
vendono il petrolio possibilmente in euro -o barattandolo senza far ricorso
alle denominazioni cartacee- e comprano oro… il FMI è costretto a vendere il
suo oro. Quest’ultimo schizza al cielo e si è rivalorizzato più di qualsiasi
altra materia prima.
Con l’approdo forzato alla ”modernità” -cioè con la vendita dei lingotti- il
FMI prevede di fare una cassa di 11 miliardi di svalutati dollari, da usare
in un fondo di investimenti. “Abbiamo preso una decisione difficile ma
necessaria, per eliminare un deficit e dare una base sostenibile alle
finanze del FMI” ha concluso mestamente Strauss-Khan.
La vendita dello stock aurifero è un segno dei tempi. Un altro segnale della
crisi terminale del neoliberismo e del mito della globalizzazione, che si
abbina al declino del dollaro come mezzo di scambio internazionale, e al
tracollo inoccultabile di Wall Street. Si tratta della diminuita capacità
del sistema-USA di drenare ricchezza dal mercato globale per finanziare il
proprio incontrollabile deficit.
Se è vero che chi si sbarazza ora dei dollari sta perdendo un terzo del suo
valore, c’è anche da porsi questa domanda: quanto perderà se li eliminirà
tra un anno? La partita tra la Cina e la Riserva Federale si dipana intorno
a questo enigma, ma dopo il sinistro scricchiolare del terzo gruppo bancario
degli Stati Uniti, chi può escludere che —dopo il mercato interno- anche
alcuni segmenti importanti della banca non passeranno sotto il controllo di
Pechino?
Strauss-Khan ha praticamente confessato che una delle istituzioni disegnate
a Bretton Woods sul finire della seconda guerra mondiale dagli “architetti
finanziari occidentali”, ha compiuto la sua funzione. Non ha più spazio in
un mondo dove gli Stati Uniti da tempo non producono più la metà dei beni
che circolano nel pianeta.
Ci sono altri attori globali, si è determinata un’altra relazione di forze
che ha messo fine all’effimera stagione dell’egemonismo unipolare dei
fondamentalisti neocons. Non può rivivere neanche a costo di spaventose
guerre globali verso il Santo Graal eurasiatico, e i suoi immensi giacimenti
di idrocarburi.
Sebbene la politica di Bush si sia caratterizzata per il trasferimento di
ingenti fondi statali della voce “difesa” al complesso militar-industriale,
la crisi ormai bussa alla porta non solo dei “contrattisti” e dell’indotto
mercenario in mano ai collaboratori presidenziali più intimi.
Secondo F. William Engadahl, sono in serio affanno i gruppi Blackstone e
Carlyle dove i Bush hanno molto a che spartire. Con un capitale di soli 670
milioni di dollari, il gruppo Carlyle era stranamente riuscito a finanziare
un portafoglio di “assicurazioni” per 21,7 miliardi, grazie alle ipoteche
immobiliari emesse dall’agenzia parastatale Freddie Mac e Fannie Mae. Nello
scorso settembre, Carlyle è stato salvato con 1,3 miliardi di dollari
provenienti dal “fondo sovrano di ricchezza” di Abu Dhabi, che ora controlla
il 10% del malloppo. L’interpretazione familiare e militare che Bush dà alla
teoria di Keynes, si mostra insufficiente per far quadrare il cerchio.
Carlyle deve far fronte a un restante debito di 16 milardi con quattro
banche che —dal canto loro- già stanno in cattive acque.
Sul fronte della Mesopotamia, invece, aspettano l’arrivo dei nuovi veicoli
corazzati che il Pentagono aveva urgentemente richiesto per sostituire i già
obsoleti “Humvee”, che si sono dimostrati vulnerabili agli attacchi degli
iraqeni. Bastano pochi lanciarazzi RPG a puntamento laser e vecchie mine
anticarro per mandare in tilt l’elefantiaco apparato di controllo
nordamericano. I nuovi veicoli saranno più corazzati, più pesanti, quindi
sacrificano il dogma della “avio-trasportabilità” e dei ponti aerei.
I caccia Mach 2+, le caratteristiche stealth, supercruise e l’armamento
aria-superfice si sono dimostrati efficaci nella conquista del territorio,
non nel suo effettivo controllo. Sono inadatti a vincere le guerre che gli
avversari si ostinano a combattere in modo diverso da quel che gli invasori
desiderano. La superiorità tecnologica, l’avionica sofisticata, sono
inadatte contro un avversario che si nasconde. Moltiplicano all’infinito i
“danni collaterali” contro i civili, rendendo di conseguenza impossibile il
controllo della mente e dei cuori degli invasi da colonizzare.
Gli israeliani hanno lasciato in Libano 1/7 delle loro forze corazzate,
ridotte a carcasse dalla tecnologia semplice e a basso costo degli RPG, però
sparati a breve distanza da resistenti temerari che sanno avvicinarsi alle
“fortezze mobili”, nonostante l’incomparabile potere di fuoco.
In Afganistan, gli Stati Uniti hanno rapidamente accantonato la pretesa di
saper combattere due guerre contemporaneamente, ed hanno passato la patata
bollente agli europei. Ora si ritrovano a dover far transitare i
rifornimenti sulle vie terrestri russe. L’offerta di Putin disvela che è
indubbiamente interessato a prolungare la presenza della NATO in terra
afgana. E’ una mossa di scacchi o un bluff di poker? Che pensare di quelli
che non amano la “dipendenza energetica” ed oggi si ritrovano a dipendere da
Mosca per la prosecuzione di una guerra già compromessa?
Cinque mesi prima dell’invasione, l’ex candidato presidenziale republicano
Pat Buchanan (1) avvertiva che “…l’unica impresa in cui i popoli islamici
sanno prevalere è quella di espellere le potenze imperiali con il terrorismo
o con la guerra di guerriglia. Cacciarono i britannici dalla Palestina e
Aden, i francesi dall’Algeria, gli Stati Uniti dalla Somalia e da Beirut,
gli isreliani dal Libano. L’unica lezione che apprendiamo dalla storia è che
non impariamo nulla dalla storia”.
L’economia degli Stati Uniti, 75 anni fa era basata sull’agricoltura, 50
anni fa sull’industria manifatturiera, oggi è fortissima nell’industria
dello spettacolo: entertainment, comunicazione e rappresentazione della
realtà. Eccelle nei monopoli mediatici e nell’elaborazione dell’immaginario
simbolico.
Lo capiranno le elites europee? Per ora no, preferiscono cullarsi nel
miraggio prussiano di far rivivere con gli argomenti della NATO lo sfumato
egemonismo “occidentale”. E sulle “invasioni umanitarie” converge anche
quella classe politica che finora rappresentava l’alternativa apparente.
Solidale persino nel modo di misurarsi con la nuova realtà multipolare, con
il rincaro e la carestia delle materie prime, cioè indugiando nel tepore
della fiction degli ”Stati Uniti Occidentali”. Vale a dire la falange delle
elites oligarchiche della anglosfera+Europa+Israele. Riunificate sotto le
bandiere di una NATO che si prefigge di surrogare -o neutralizzare
rapidamente- i superstiti organismi internazionali, a cominciare dall’ONU.
Il meta-Stato dell’Unione Europea si riduce al potere reale ed assoluto
della Banca Centrale Europea (BCE), al braccio esecutore dei notabili
inamovibili della Commissione di stanza a Bruxelles, e all’apparenza vuota
del Parlamento di Strasburgo. Per il resto, brilla la rinuncia aprioristica
ad una propria politica di difesa e alla necessità di disporre di uno
strumento militare autonomo. Persino ad usare più razionalmente gli eserciti
nazionali esistenti che —sommati e coordinati- rappresenterebbero una carta
spendibile.
Con la risacca atlantista straripata anche a Parigi e Berlino, invece, si
sta affermando l’abdicazione ad un ruolo geopolitico autonomo dell’Europa,
più proporzionato alla mole della sua economia. L’UE dei banchieri e dei
managers sottovaluta la sovranità geopolitica ed è spaesata e gregaria nel
nuovo contesto multipolare. Le elites del vecchio mondo sono pigre, troppo
abituate a fiancheggiare Washington. Anche oggi, quando è in preda alla
disperazione e moltiplica le sue velleitarie “avventure nel mondo”. Anche
quando sono gli Stati Uniti ad aver più bisogno degli europei.
Le ottimistiche previsioni dello screditato FMI dicono che il costo della
crisi di Wall Street sarebbe di 945 miliardi di dollari, di cui 565
ascrivibili al crack dei crediti ipotecari delle banche degli Stati Uniti.
Quanti ne hanno sborsati finora i guru del Banco Centrale Europeo (BCE)
nell’operazione di salvataggio? Fino a quando manterranno aperto il
rubinetto della “immissione di liquidità” a favore dei biscazzieri globali?
Bush, intanto, ha speso invano 3 “milioni di milioni” di dollari senza poter
metter mano sul petrolio iraqeno che —a differenza dei biglietti verdi o del
cartaceo delle Borse- è una ricchezza verace e tangibile, massime in tempi
di grande crisi. L’unica a poter ridare ossigeno, in attesa di una
leadership capace di ridisegnare un altro ruolo nel mondo e programmare
un’altra economia.
(1) Ex consigliere di Nixon, Reagan e Ford; fondatore della revista The
American Conservative, collaboratore di The Nation e Rolling Stone.