Un’analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza
di Alan D. Altieri
[Alan D. Altieri inizia con questo reportage in tre parti la sua collaborazione con carmilla]
Tutti i capitoli di “AmeriKa dämmerung”
1. Regicidio
Gli Stati Uniti d’America – olimpo del diritto, modello di democrazia – sono una repubblica presidenziale a elezione del Presidente a mezzo di suffragio universale popolare diretto.
Giusto?
Sbagliato.
Il sistema elettorale degli Stati Uniti è in realtà molto più complesso e comunque NON È a elezione diretta. Una realtà contraddittoria che si sta rivelando tanto più perniciosa quanto più l’elettorato americano si avvia verso l’Election Day, martedi’ 4 novembre 2008.
Per gli Stati Uniti, il corrente anno è simultaneamente un anno di grazia e di disgrazia:
– di grazia in quanto segna la fine dell’Era Bush II (1), la definitiva uscita di scena di George W. Bush, presidente al minimo assoluto del consenso popolare (sotto il 30%) e già definito, anche dal campo repubblicano, come uno tra i peggiori presidenti della storia americana;
– di grazia in quanto le elezioni presidenziali di novembre potrebbero, ma soprattutto dovrebbero, segnare una svolta chiave nella guida del paese;
– di disgrazia, in quanto, a causa di una vera e propria guerra intestina all’interno di uno dei due partiti maggiori e della complessità del sistema elettorale, non è affatto detto che ciò accada.
Cronistoria di base. L’Era Bush II si lascia dietro un retaggio ingombrante:
1. Otto anni di dominio da parte di un Presidente che una statistica di uno dei più grossi think-tank indipendenti specializzati in studio della comunicazione ha calcolato avere “premeditatamente mentito al popolo americano circa duemila volte”;
2. Sette anni di ininterrotta war on terror (guerra al terrore), innescata dal 9/11, culminata con l’attacco e l’occupazione dell’Iraq. Dopo cinque anni di questo discusso, discutibile e sanguinoso conflitto nel cuore petrolifero del Medio-Oriente, gli Stati Uniti contano quattromila caduti e ventinovemilacinqecento feriti;
3. Il progressivo sgretolamento di un’intera classe dirigente di falchi di Washington, la squadra Neocon/Teocon, tra i ben due Attorneys General (ministri della giustizia) e un elenco interminabile di spin-doctors (super-esperti);
4. La conseguente erosione del consenso del Partito Repubblicano nella sua interezza, accusato dai suoi stessi elettori di cecità, compromissione, corruzione, collusione ma soprattutto stupidità;
5. Una situazione economica nazionale (e globale) il cui deterioramento è in costante accelerazione;
6. Il sorgere di un sentimento di ribellione sociale dal basso nei confronti dell’equivalente americano di ciò che in Italia è ormai comunemente definita la “Casta”.
Con siffatte premesse, dopo otto anni di Bush II, accettato ormai il “regicidio” da parte dell’elettorato, dalle elezioni presidenziali di questo prossimo novembre sono in molti ad attendersi – e a sperare in – un completo rovesciamento di prospettiva politica a favore del Partito Democratico. Solo che…
Secondo una analisi tanto sintetica quanto corrosiva da parte dei bloggers politici americani fatte all’inizio delle primarie (2): the Democrats have the White House in their pocket… unless they screw it all up, (I democratici hanno la Casa Bianca in tasca… A meno che non mandino tutto in malora).
Siamo ormai in vista della conclusione delle primarie stesse, ma l’analisi è cambiata: Guess what: They ARE screwing it all up!
2. Fratricidio
La parola è: internecine.
È un vocabolo inglese, privo di equivalente italiano univoco, derivato direttamente dal latino: internecare, in cui necare significa uccidere. Un intenecine è sostanzialmente un tutti-contro-tutti all’interno di un gruppo più o meno ristretto che dovrebbe invece conservare unità e/o identità. Un risulta sempre, invariabilmente distruttivo e autodistruttivo.
Nello specifico delle elezioni primarie americane 2008, lo internecine che (ormai non solo secondo i bloggers ma anche per grossi commentatori politici) rischia di mandare tutto in malora per i democratici è la lotta fratricida tra i due candidati chiave: Hilary Rodham Clinton, Senatrice dello Stato di New York, e Barack Hussein Obama, Senatore dello Stato dell’Illinois.
Da un lato una ex-First Lady che si è effettivamente re-inventata una carriera politica al di fuori dell’ombra del marito, l’ex-presidente William Jefferson “Bill” Clinton. Determinata e preparata, ambiziosa e calcolatrice, la Senatrice Clinton si porta però dietro stigmate pesanti:
a) la “ignara” moglie del Presidente reo di scappatelle nello Studio Ovale;
b) la “co-Presidente” che cercò di riformare l’allora già disastrato servizio sanitario nazionale, fallendo malamente;
c) la senatrice democratica che in Congresso ha votato tutte le mozioni repubblicane a favore della Guerra dell’Iraq e che ora torna su quelle decisioni criticando aspramente l’Amministrazione Bush II;
d) l’animale politico che ritiene di essere entitled (a cui spetta di diritto) alla Casa Bianca per il semplice fatto di esserci già stata, sia pure in un ben diverso ruolo.
Dall’altro lato, un personaggio dalle caratteristiche (all’apparenza) diametralmente opposte. Snello e piacente, forbito ed elegante, parte afro-americano, parte caucasico, parte addirittura medio-orientale, il Senatore Barack Hussein Obama si presenta come “l’uomo nuovo” della politica americana. Nato nel privilegio, educato nelle migliori scuole della Ivy League, navigato esponente di livello medio-alto dell’amministrazione dello stato dell’Illinois, questo avvocato che mai ha esercitato la professione ma che sempre è stato nei circoli che contano, nelle primarie democratiche è riuscito a conquistare tutti gli stati dello Heartland of America, vale a dire tutto quello che è al di fuori dei grossi stati elettorali: New York, California, Texas, etc.
Lo slogan presidenziale di Obama – Change You Can Believe in (Cambiamento in cui Credere) – è venduto all’elettorato come l’autentico emblema della sua proposta di rinnovamento. Ma, parafrasando un immortale della poesia italiana: “fu vero rinnovamento”? Paradossalmente, la risposta è who knows? (chi lo sa?).
A tutti gli effetti, anche Barack ha le sue stigmate:
a) a molti appare come the whitest black man since O.J. Simpson (il negro più bianco dopo O.J. Simpson);
b) nella sua carriera è stato sempre molto, troppo cauto a votare obliquo, astenersi, non schierarsi. Una linea di condotta abilmente prudente o ambiziosamente premeditata?
c) politicamente parlando, la sua è una clean slate (lavagna pulita), sulla quale, da potenziale Presidente (e primo Presidente “etnico” nella storia degli Stati Uniti), Obama stesso potrà scrivere tutto. E/o il contrario di tutto.
Tra i due contendenti fratricidi, il mudslinging – lo scontro delle palate di fango in faccia – è cominciato addirittura prima che il candidato terzo incomodo John Edwards, avvocato di milionario successo in uno degli stati del sud, già in lizza in precedenti elezioni, abbandonasse la corsa.
Lo internecine Hilary/Barack è in piena escalation. Hilary è accusata di spocchia, presunzione, supponenza, antipatia, arroganza. Barack viene tacciato di inesperienza, doppiezza, furberia, ambiguità, fasullaggine. Il tutto condito, all’interno e all’esterno dei rispettivi entourage, da insulti brutali, pugnalate alle spalle, insinuazioni volgari, veleni personali, scandali sbracati. Il tutto disseminato di sempre nuove mine vaganti. Qualche esempio:
a) Un’esponente dello staff elettorale di Barack è stata licenziata in tronco per detto che Hilary is a monster (Hilary è un mostro), pronta a qualsiasi cosa pur di arrivare alla Casa Bianca;
b) Eliot Spitzer, Governatore democratico dello Stato di New York, duro e puro ex-avvocato dello stato, è stato costretto alle dimissioni dopo un ennesimo scandalo a base di prostitute pagate con fondi statali;
c) Bill Richardson, governatore dello Stato del New Mexico, ha abbandonato la sponda di Hilary girando il proprio supporto a Barack e ricevendone per questo l’epiteto di Judas, Giuda. Se Richardson è Giuda, battuta corrosiva diffusa ora su base quotidiana su tutti i canali news americani, non è ancora ben chiaro chi sia Cristo;
d) Hillary Clinton è alla griglia di tutti i telegiornali per avere raccontato un aneddoto di una sua visita in Bosnia iniziata sotto il tiro dei cecchini. Totalmente falso: filmati di quella medesima visita mostrano un aeroporto bosniaco quieto e noioso quanto un qualsiasi comizio di casa nostra;
e) Barack Obama stesso è finito nel tritacarne mediatico per i suoi fin troppo stretti legami con tale Reverendo Jaremiah Wright, un religioso dalle posizioni politiche più che radicali, il quale però ha celebrato niente meno che le nozze di Barack e ha tenuto a battesimo i suoi due figli.
Questa faccenda del Reverendo Wright, ovviamente afro-americano, presenta svariati motivi di interesse. Cito solo due passaggi nei suoi incendiari sermoni, eseguiti con l’enfasi di una farsa alla Saturday Night Live:
a) è una turpe ipocrisia che l’America si indigni per il 9/11 dopo avere annientato a suon di bombe Hiroshima, Nagasaki e parecchia altra roba senza che nessuno battesse ciglio;
b) Hilary non sa niente di che cosa significhi vivere in una nazione dominata da bianchi ricchi, Hilary non è mai stata chiamata “N-beep”.
Nelle trasmissioni radio-TV americane, il “beep” viene inserito automaticamente per coprire un insulto e/o una volgarità. Lo “N-beep” in questione, manco a dirlo, sta per nigger, famoso e famigerato epiteto razziale.
L’oltraggio mediatico suscitato dalla lunga affiliazione di Barack con siffatto individuo, ha costretto Barack stesso a pronunciare un importante discorso in diretta TV di analisi critica/presa di posizione/presa di distanza non tanto dal Reverendo Right quanto dalle sue posizioni. Barack ha anche invitato al superamento una volta per tutte della questione razziale che continua a essere un divide, frattura, in seno alla società americana. Il dibattito se questo discorso sia grandioso o indegno è tuttora in corso.
Intanto, mancano ancora alcune sanguinose primarie, tra cui quelle dei grandi stati della Pennsylvania, North Carolina e Indiana. Il conto alla rovescia verso la Convention democratica — Denver, Colorado, fine agosto 2008 — continua inesorabile. Cosi’ come inesorabilmente l’internecine continua a divorare lo schieramento democratico dall’interno.
Sotto lo sguardo del sempre più compiaciuto elettorato repubblicano, il sempre più frastornato elettorato democratico è costretto ad assistere a quello che ormai viene percepito come lo scontro frontale tra due inestinguibili narcisismi.
Hilary e Obama sono sordi a tutti gli appelli a formare il ticket: Presidente/Vice-Presidente, che verosimilmente assicurebbe ai democratici la Casa Bianca. Nessuno dei due vuole scendere di livello. Quello che è peggio, nessuno dei due sembra comprendere una semplicissima verità: il cinquanta percento del potere è sempre meglio del cento percento di niente.
3. Democraticidio
The primaries exist for one reason and one reason alone: to butcher the presidential hopefuls, Le primarie esistono per una ragione e una sola: macellare gli aspiranti candidati presidenziali. Questa è una delle più innegabili verità del sistema elettorale americano.
Nelle primarie, i candidati sono costretti a pagare attraverso i fondi racconti dai sostenitori (al limite a pagare di tasca propria) tutte le spese di propaganda elettorale, dalla benzina per l’autobus ai donuts per gli elettricisti al seguito.
Ma le primarie sono soprattutto un gioco al massacro politico, diverso da stato a stato, volto a un unico obbiettivo: assicurare il numero di delegates, delegati, che alla Convention sceglieranno quello che sarà il contender alla presidenza degli Stati Uniti. Il numero dei delegati è proporzionale alla popolazione dello stato stesso. Stati quali New Yok, California, Texas, Illinois, Florida sono stati chiave in quanto estremamente popolosi e quindi con un alto numero di delegati.
Questa struttura si ripete anche nell’elezione presidenziale vera e propria. Agli stati a più alta popolazione corrisponde un proporzionale numero di electoral votes, voti elettorali, un equivalente dei “grandi elettori” dell’Europa Imperiale di un tempo. Ma nemmeno gli stati a bassa popolazione possono essere trascurati: George W. Bush vinse l’elezione del 2000 proprio grazie agli electoral votes di questi stati. Nonché in virtù di un “aiutino” (leggi broglio) da parte del governatore dello Stato della Florida, suo fratello Jeb Bush. Nella realtà, gli electoral votes costituiscono un ulteriore livello di distanza tra la volontà popolare iniziale e il risultato politico finale.
Tornando alle primarie, non tutte vengono eseguite per scheda e urna. In taluni stati, a esempio lo Iowa – piatta estensione rurale nello Heartland of America – si tengono ciò che sono chiamati Caucuses. Procedure osteggiate e sbeffeggiate in tutti i migliori circoli politici da Manhattan, NY, a Beverly Hills, CA, i Caucuses sono incontri di votanti dai quali emerge una preferenza espressa verbalmente. Incontri tenuti in ristoranti, chiese, garage, etc. Come proposta, è vagamente surreale. Sarebbe come se “gli amici del Caffé Sport” si riunissero per decidere quale deputato o senatore mettere in lista per questo o quel partito italiano. I Caucuses costringono i candidati — nella maggioranza dei casi soggetti ricchi e acculturati — a corteggiare mungitori, idraulici, postini e altri assortiti blue collars ai quali, in condizioni ordinarie, nessuno di loro si sognerebbe di rivolgere la parola.
Completate tutte le primarie, si arriva alle due Conventions repubblicana e democratica. In un clima da finale di Serie A in meta-amfetamina, tra majorettes sorridenti, bande impennacchiate e lancio di migliaia palloncini rossi-bianchi-&-blu, i delegati dei cinquanta stati passano il loro voto – orgogliosamente rispecchiando la volontà degli elettori, è chiaro – decidendo finalmente il candidato presidenziale del partito in questione. È fondamentale sottolineare nuovamente che, tra Caucuses da un lato, schede e urna dall’altro, l’elettore americano delega altri personaggi alla scelta decisiva.
Finita qui, alle Conventions? Per nulla. C’è un ulteriore livello: i cosiddetti superdelegates, super-delegati.
I super-delegati sono i pezzi da novanta del partito: senatori, deputati, governatori, avvocati dello stato, etc. I super-delegati sfuggono al meccanismo delle primarie ma possono risultare cruciali nella scelta del candidato presidenziale. Non solo. I super-delegati sfuggono anche al controllo degli elettori.
Alla data del 24 marzo 2008, per i due candidati democratici la situazione delle primarie, dei delegati e dei super-delegati è la seguente:
– numero totale dei delegati: 4.047;
– numero dei delegati per avere la nomination: 2.024;
– numero dei delegati per Hilary R. Clinton: 1.485;
– numero dei delegati per Barack H. Obama: 1.622;
– numero totale dei super-delegati: 796;
– numero dei super-delegati per avere la nomination: 492.
In teoria, i super-delegati dovrebbero schierarsi secondo la volontà popolare. In pratica, la partita è ancora tutta da giocare. In uno scenario freddamente pragmatico, i super-delegati, o alcuni di essi, potrebbero votare contro l’esito delle primarie e quindi contro il voto dei delegati degli stati. Potrebbero infatti ritenere che un afro-americano ha meno probabilità di vincere contro il contender repubblicano. Oppure che una donna ha meno probabilità di vincere. Oppure che…
Se questo accadesse – anche se non è affatto detto che accadrà – il voto popolare verrebbe svuotato di qualsiasi significato, relegato in una qualche cantina maleodorante del tutto disconnected dalla “ragion politica”.
Ma l’elettore americano, inclusi i blue collars dei Caucuses, non è del tutto cretino. Questi giochi, giochini e giochetti – inciuci diremmo noi – sono fatti alla luce del sole. Vengono messi sotto la lente d’ingrandimento del micidiale one-eyed monster, mostro con un occhio solo, la televisione. Ogni più vago commento, ogni più impercettibile sfumatura, ogni più piccola gaffe è sezionata, smembrata, rimontata e mandata in playback talmente tante volte da provocare nello spettatore crisi di convulsioni.
Citando l’analisi Chris Matthews, uno dei più influenti – e acidi – commentatori politici del network MSNBC: Alla fine, il candidato presidenziale democratico potrebbe essere scelto da una cupola di grandi elettori riuniti in un club con poltrone di pelle intenti a fumare grossi sigari.
Un’immagine che non può non richiamare alla mente le bassezze mafioso-politiche del Proibizionismo. Un’immagine che tramuta larga parte del sistema elettorale de the greatest democracy in the world, la più grande democrazia del mondo, in un serraglio sotterraneo e cospiratorio, ambiguo e pilotato, inganenvole e, cosa peggiore di tutte, distorto.
La costituzione americana si apre con tre parole che hanno fatto epoca, We The People, Noi Il Popolo. Riferendosi alla internecine nel Partito Democratico americano, una volta che tutti i giochi saranno fatti, se l’analisi di Chris Matthews dovesse trovare una conferma anche solo parziale, ben poco potrebbe restare di We The People. E, in una ugualmente paradossale assonanza alla rovescia, il Partito Democratico americano potrebbe avere perpetrato un vero e proprio democraticidio.
Il che porta a un ulteriore doppio paradosso. Stanno iniziando i primi sondaggi riguardo all’esito del confronto tra i due candidati democratici e quello che è già l’unico candidato repubblicano, John McCain, anziano senatore dell’Arizona decorato reduce della Guerra del Vietman. John McCain dichiara candidamente di “non capire nulla di economia” e di “volere mantenere truppe americane in Iraq per tutto il tempo necessario”. Alla data del 24 marzo 2008, ecco cosa ha rilevato la Gallup:
Clinton 44% – McCain 48%
Obama 45% – McCain 48%
Non solo. Stando a un diverso sondaggio, esisterebbe addirittura un venti percento di elettori democratici schierati o con Obama o con Hillary i quali, in caso il loro candidato non venisse nominato a causa degli incuici dei super-delegati, voterebbero repubblicano per ripicca.
Morale? Paradosso su paradosso: la internecine democratica sta offrendo ai repubblicani la Casa Bianca su un piatto d’argento.
They ARE screwing it all up!
(continua con “AmeriKa dämmerung – parte II: L’eKonomia”)
Note
(1) L’Era Bush I si concluse nel 1992 con la sconfitta di George H.W. Bush, padre dell’attuale presidente, a opera del democratico Bill Clinton.
(2) Le tornate elettorali dei due partiti maggiori maggiori volte alla scelta del candidato presidenziale.