di Enzo Fileno Carabba
[Illustrazione di Liza Schiavi – cliccare per ingrandire]
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13. Le forze dell’ordine – Uno spacciatore in erba
Quando l’attenzione dei molestatori nei miei confronti si indebolì, il loro posto fu preso dalle forze dell’ordine.
Da ragazzo infatti polizia e carabinieri mi fermavano di continuo, e senza neanche offrirmi dei soldi.
La scena tipica era la seguente. Mi prendevano, mi portavano in uno stanzino, o in un angolo all’aperto ma riparato dai venti, e mi dicevano: dai, tanto lo sappiamo che ce l’hai, dicci dov’è che è meglio per tutti.
Sembrava che fossimo in confidenza, anche se in effetti li vedevo per la prima volta.
Trovavo la cosa particolarmente spiacevole: perché darmi del tu? E poi: se gli agenti sapevano qualcosa che me lo chiedevano a fare?
Io giuro che la prima volta che ho sentito questo discorso non l’ho capito molto. Cos’è che avevo? Cercavano la droga, ma io non lo sapevo. E così mi sono mantenuto sul vago nelle risposte. Magari, dopotutto, avevo sul serio ciò di cui parlavano: che so, le scarpe.
E la mia vaghezza li ha eccitati ancora di più.
Tra l’altro in questi frangenti tendo ad assumere un faccia particolare, non so se tonta, inespressiva o colpevole, dato che non mi vedo allo specchio.
Comunque, questa famosa prima scenetta in cui sono stato fermato e mi hanno spiegato che tanto loro sapevano tutto (quel tanto mi innervosì particolarmente) per cui mi conveniva parlare subito si è svolta in un porticciolo delle isole Eolie. Ero appena arrivato col traghetto da Napoli e mi portarono in un baracca, che nel mio ricordo ha i muri di canne.
A questa scenetta ne sono seguite molte altre: tutte le volte che arrivavo alle Eolie venivo fermato dalle forze dell’ordine. Col tempo è diventata una specie di tradizione.
Ora, è bene chiarire che io in vita mia, sarà perché mio padre quando ero bambino mi proponeva di fumare le Marloboro, o per qualche influsso celeste, comunque non ho mai fumato neanche una sigaretta, e se è per questo non ho mai neanche bevuto una coca cola.
Eppure venivo sempre fermato da agenti che vedevano in me un giovanissimo spacciatore in erba, e questo avveniva ovunque in Italia, e perfino all’estero.
Il che spingerebbe a concludere che avevo un’aria poco raccomandabile, anche se è vero il contrario. Doveva esserci qualcosa in me, che li spingeva a fermarmi e a prendersi tutte quelle confidenze. Dal mio punto di vista erano molestatori legalizzati. E a tutt’oggi quando un rappresentante delle forze dell’ordine mi ferma non posso reprimere una certa apprensione.
Quando racconto degli anni intensi in cui venivo fermato di continuo, spesso mi sento obiettare: guarda che quegli agenti facevano solo il loro dovere.
Ecco, se c’è qualcuno che mi preoccupa sono proprio quelli che fanno solo il loro dovere. (Sono come quelli che tanto sanno tutto). E’ quel solo che mi insospettisce. Non potrebbero fare anche qualcos’altro?
Senza contare che sul traghetto per le Eolie vedevo certi tipi abbronzati con l’aria stolidamente soddisfatta di sé e con la catena d’oro al collo e con la camicia di lusso aperta sul petto che erano chiaramente degli spacciatori internazionali, giacché mi era chiaro che gli spacciatori veri hanno sempre la camicia aperta. Infatti non mi risultava che esistessero spacciatori importanti in Alaska o al Polo Nord, e se esistevano duravano poco.
Insomma questi tipi volgari che erano apertamente spacciatori e si portavano dietro certe valigette inequivocabili non venivano mai fermati. Se anche un ragazzetto male in arnese come me avesse detenuto qualche sostanza illecita sarebbe stata ben poca cosa in confronto a quello che portavano loro in quelle valigette.
Il bello è che sono cresciuto senza preconcetti negativi nei confronti delle forze dell’ordine. Mio nonno oltre a essere magistrato insegnava ai carabinieri. Per cui da bambino avevo il culto dei carabinieri. Il nonno diceva che in caso di bisogno bastava che andassi dai carabinieri, sparsi su tutto il territorio nazionale. Diceva che aveva insegnato a talmente tanti carabinieri che si poteva teorizzare l’esistenza dei carabbieri: cioè quei carabinieri a cui aveva insegnato lui. E in effetti aveva ragione: nel corso del tempo mi sono imbattuto in diversi carabbieri, e riconosco che avevano una marcia in più rispetto agli altri.
E poi in casa dei nonni c’era un carabiniere di legno che trovavo rassicurante.
Quest’idea rassicurante la estendevo a tutte le forze dell’ordine.
Per cui le prime volte che sono stato fermato e trattato male ci sono rimasto peggio.
A partire dalla mia adolescenza (da bambino non mi fermavano: sarebbe stato il colmo) questa cosa del difficile rapporto con le forze dell’ordine ha accomunato me e mio padre, anzi si può pensare che io l’abbia ereditata da lui.
Un’altra cosa che ci accomunava, secondo mio nonno, era il passo un po’ sbilenco da pistolero stanco. Ma non era per il passo sbilenco che ci individuavano come soggetti pericolosi, perché spesso ci fermavano quando eravamo in macchina.
Una volta eravamo in macchina dalle parti di Siena quando sbucò il tipico agente appostato dietro un cartellone pubblicitario.
Al che mio padre gli disse torvo: lei era qui apposta.
Avreste dovuto vedere la faccia dell’agente.
Bisogna ammettere che l’obiezione di mio padre era sottile e sorprendente: lei era qui apposta. Bè, è chiaro che l’agente stava lì apposta! A rigore, non era mica un’offesa. Ma mio padre riuscì a dirglielo con un tale disprezzo nella voce e nel volto che anche l’agente percepì oscuramente che c’era qualcosa di spregevole nel nascondersi dietro un cartellone. Era un atteggiamento da subumano, una cosa meschina.
Per cui si offese. Voleva arrestare mio padre. Gli occhi di mio padre cominciarono a roteare, fenomeno che nella famiglia Carabba segnala l’arrivo di un’ira tremenda. Al che mio padre saggiamente prese e si allontanò a piedi, col passo da pistolero stanco ma incazzato che certamente rafforzò le convinzioni negative dell’agente.
Qui intervenne mia madre, in lacrime, facendo intendere che suo marito era un pazzo e che la vita era dura. A questo punto l’agente perplesso ci lasciò andare, mia madre si mise alla guida e qualche centinaio di metri più in là caricammo a bordo mio padre.
Mentre la prodigiosa uscita “lei qui era apposta” rappresentò un caso isolato, per il resto la scena di mia madre in lacrime e di mio padre ripreso a bordo qualche centinaio di metri più in là si ripetè molte volte. Inutile dire che poco dopo ripartivamo tutti felici, compresa mia madre.
Anche gli amici di mio padre – gente onesta ma focosa — avevano a volte problemi con le forze dell’ordine.
Uno trovò un vigile che gli faceva sempre spostare la macchina, questo vigile non era mai contento, al che l’amico esasperato disse: Bella fica spostatala te. Al processo sostenne che bella fica in fiorentino è un appellativo positivo, ma credo che questa linea difensiva si sia rivelata perdente. Anche perché il vigile era maschio.
In ogni caso, non si negherà che l’offesa “lei era qui apposta” è molto più misteriosa e allusiva.
E’ chiaro che anche mio padre subiva il fermo rituale al suo arrivo alle isole Eolie. Ma essendo uno spirito intraprendente non reagiva con quella faccia da allocco che era invece la mia strategia involontaria. Per esempio al termine di una perquisizione con aria insolente chiese: trovato nulla?
Al che lo fecero spogliare, ricominciarono da capo e credo che la nuova perquisizione fu molto più meticolosa e intrusiva della prima.
Se quanto sto scrivendo fosse opera di finzione e non la pura verità concluderei che il vero corriere della droga era mia madre. Ma in questi anni ho scoperto che – contrariamente a quanto si è detto per tutto il Novecento – la pura verità esiste e che io posso dirla.
Per esempio: non vorrei aver dato l’impressione di essere favorevole ai drogati. Quando qualcuno mi ferma e chiede cose tipo: hai niente contro i drogati? La mia sola risposta è: sì, certamente.
Penso anzi che quegli agenti che mi fermavano fossero loro stessi dei drogati, altrimenti come potevano fare i prepotenti con un ragazzino inerme?
Un’estate, in Abruzzo, mi innamorai di una ragazza che viveva in Spagna. I miei, gente liberale, a settembre mi concessero di andarla a trovare, nonostante la mia tenera età. Però non arrivai mai a Madrid. Davanti alla stazione di Milano mi ero seduto in una specie di aiuola spelacchiata (che ora non esiste più), perché la mia coincidenza partiva dopo molte ore. Ero appena stato trattato malissimo da una barista perché cercavo di telefonare in Spagna, urlava e sputava, non capivo cosa muovesse la sua rabbia, dato che i miei gettoni erano buoni. Vennero tre zombie: ero seduto in terra e me li vidi piovere dall’alto, uno mi mise le mani sulle spalle. Mi rapinarono a mano armata e questo pose fine al mio viaggio e anche alla mia storia d’amore. I passanti non si curavano di noi, e neanche le forze dell’ordine. D’altra parte, ognuno fa quello che gli pare. Oppure non si accorsero di niente, eravamo solo in pieno giorno a Milano di fronte alla stazione. Uno dei tre rapinatori mi mostrò il braccio pieno di buchi. Era il meno armato dei tre. Ma il vetro che teneva in mano e mi ballonzolava vicinissimo alla faccia me lo ricordo ancora. Disse che gli sarebbe dispiaciuto sfregiarmi perché assomigliavo al suo fratellino. Bizzarra motivazione, se ci pensi.
Spero che la sorte sia stata dura con loro.
Dio mi fulmini se voglio disquisire del rapporto tra droghe pesanti e droghe leggere. Dico solo che durante l’adolescenza, come è normale, tutti i miei amici fumavano foreste di spinelli e io — nonostante non fumassi — non avevo niente in contrario. Ma l’aria di estrema importanza che alcuni di loro si davano, il sussiego che esibivano quando veniva il momento di passarsi una canna, quella serietà rituale epperò alternativa, in effetti mi sembrava ridicola e non la sopportavo.
Questo per dire che non era la mia passione per le droghe a rendermi fastidiosa la confidenza con le forze dell’ordine.
O dovevo espiare una colpa di mia nonna?
Infatti era delle forze dell’ordine anche quell’uomo che guidava la macchina che portava mio nonno, mi pare si chiamasse Giorgio. Era un individuo taciturno e impenetrabile. Ma mia nonna poteva essere una specie di punteruolo che perforava la psiche di chiunque. A patto di darle il tempo di lavorare la vittima. Una volta Giorgio ci accompagnò fino in Abruzzo, un viaggio di molte ore. In una situazione simile non hai scampo.
Ero un po’ dispiaciuto di non aver fatto il viaggio in treno come altre volte, e di essermi perso i tortellini alla panna della stazione di Bologna, forse per questo non feci troppo caso ai dialoghi. Comunque, una volta arrivati in albergo, sistemai le cose in camera mia e poi scesi. In un angolo buio c’era Giorgio, seduto su una sedia, praticamente in lacrime.
Quando vide che ero lì e lo guardavo alzò la testa e disse: un giorno capirai quanto è difficile essere uomo.
La frase può apparire retorica, ma la disse con una tale gravità che mi impressionò.
Che poi forze dell’ordine vuol dire tutto e nulla, dipende dagli individui. Una volta, ero ormai grande, sono andato alla scuola carabinieri per partecipare a una lettura contro la pena di morte. L’evento si teneva in una grande sala con alte finestre e appena entrato ho provato subito una sferzata, qualcosa. Più tardi il militare che faceva gli onori di casa mi ha detto che mio nonno per anni ha insegnato lì, proprio in quell’aula. E che lui era onorato di essere stato un suo allievo. Sono convinto di aver sentito la presenza di mio nonno appena entrato.
Tra parentesi, sento sempre la presenza delle anime nei posti che le persone hanno frequentato da vive, mai nei cimiteri. (Non vi è, tra i miei cari, un assiduo frequentatore di cimiteri, perché magari se uno frequenta molto i cimiteri da vivo allora davvero aleggia qualcosa di lui nei cimiteri dopo la morte). Per esempio avverto la presenza della mia nonna materna nei campi. Però potrebbe trattarsi di suggestione, basata sui miei ricordi. Invece quella volta appena entrato nella grande aula non avevo la minima idea che mio nonno avesse insegnato là per anni.
A un certo punto mi si è avvicinata una persona che somigliava a mio nonno. Era un suo cugino, che non avevo mai conosciuto, però l’emozione è stata grande.
Il militare che faceva gli onori di casa era gentilissimo, squisito, e mi ha detto che se tornavo in un altro momento mi avrebbe fatto visitare tutto l’edificio. Allora circa due mesi dopo ho chiamato e ho chiesto di lui, dicendo nome e cognome con grande familiarità.
Il centralinista non sembrava molto disponibile.
Allora gli ho detto qualcosa che più o meno significava: ma dai,sbrighiamoci, passamelo, il brigadiere, tanto lo so che c’è.
Il GENERALE in questo momento è impegnato, mi ha risposto il centralinista con un certo sdegno. Al che mi sono un po’ vergognato, mi sono sentito come quelli che dicono: tanto lo so che ce l’hai.
Una volta la mia fidanzata mi aspettava in un ristorante presso un valico in mezza montagna. Il locale fu invaso da agenti armati di tutto punto, con tanto di giubbotti antiproiettili. Sta per arrivare un tipo veramente pericoloso, dissero. Vi conviene andare via o nascondervi dietro un riparo. La mia fidanzata prese posto dietro una colonna.
Dopo una ventina di minuti di attesa e di tensione il tipo pericoloso arrivò e la mia fidanzata si accorse che ero io.
Questo me lo disse dopo. Mi vidi sbucare da dietro gli alberi dei soggetti armati, alcuni non erano neanche in divisa ma indossavano magliettine bianche a maniche corte. Potevano essere dei rapinatori, per quel che ne sapevo. A ogni buon conto, mi fermai.
Dopo avermi fatto parcheggiare in salita (cosa che odio), uscire dalla macchina e appoggiare le mani sul cofano, mi rivolsero un sacco di domande impegnative tipo dove andavo e da dove venivo. Spiegai che stavo andando proprio al ristorante. Poi mi chiesero di aprire il bagaglio.
A quel punto la situazione si fece critica perché non sapevo aprirlo e loro non ci potevano credere. Dunque si convinsero che quello che cercavano – persona o cosa che fosse — si trovava nel mio bagagliaio e diventarono ancora meno gentili.
Questo per dire che anche ho le mie colpe, nei confronti delle forze dell’ordine. In effetti è difficile credere che uno non sappia aprire il bagagliaio della propria macchina, me ne rendo conto. Ma la macchina era della mia fidanzata e aveva la serratura del bagagliaio difettosa, si apriva con un trucco che solo lei conosceva.
Il bello è che in tutto questo la mia fidanzata rimaneva nascosta dietro la colonna. Non ci pensava neanche a uscire dal suo riparo e a dire: La macchina è mia è quello è il mio fidanzato, un tipo delizioso che non farebbe male a una mosca.
Evidentemente se ti dicono che sta per arrivare un tipo davvero pericoloso tu in qualche modo te ne convinci, chiunque sia.
La prima volta che sono stato fermato in macchina, prima mi hanno inseguito per un po’. Procedevo di notte sul viale dei Colli. Effettivamente vedevo questi lampeggianti festosi che mi tallonavano ma non capivo cosa volessero. Anche perché la sirena non l’avevano attivata. Quando finalmente ho accostato e ci siamo incontrati mi fanno: lei perché scappava? Gli ho spiegato che non scappavo.
Libretto, mi fa quello.
Giuro che non sapevo cosa fosse il libretto. Nessuno me l’aveva spiegato. Non lo trovavo, anche perché non sapevo cos’era: immaginavo davvero un piccolo libro.
Alla fine hanno dovuto cercarlo loro.
Il fatto è che avevo preso la patente da pochi mesi, ma dopo averla presa me ne ero come scordato, e continuavo a girare in bicicletta. Quella sera avevo detto a un mio amico che siccome ero stanco non me la sentivo di pedalare di notte fino a casa sua, che era lontana e in salita. Al che lui aveva tirato fuori l’ideona: perché non prendi la macchina?
Rimasi folgorato. Si può dire che la mia carriera di automobilista è iniziata da questa intuizione del mio amico.
Insomma gli agenti avevano trovato il libretto e mi fissavano con aria interrogativa, soprattutto quello più vicino a me. Probabilmente il libretto stava in un posto così ovvio che era impossibile che non l’avessi trovato, dal loro punto di vista. Sentivo che dovevo dire qualcosa.
Me ne sono venuto fuori con questa frase:
La mia mamma non me l’ha spiegato, cos’è il libretto.
Non so neanche io come ho potuto concepire una frase simile. La mente umana ha risorse inaspettate. Anche in senso negativo.
Avreste dovuto vedere come mi guardarono. Poi si sono guardati tra loro, muti, desolati. Secondo me si chiedevano se ero un grande idiota o un grande criminale.
Devono aver pensato che uno non può essere così idiota, per cui ero un grande criminale. Via radio hanno chiesto alla centrale di controllare cosa c’era sul mio conto..
Attesero la risposta. Risultavo pulito. Ma loro non ci credevano, non ci potevano credere. Hanno chiesto di controllare ancora. Non una ma molte volte. Saremo stati lì almeno un’ora.
Alla fine hanno deciso che non ero un grande criminale e mi hanno lasciato andare, sconcertati dall’incontro. Secondo me lo raccontano ancora.
Non mi hanno neanche fatto una multa, anche se avevo la freccia non funzionante (poi l’ho fatta riparare) e qualche altra pecca. Devo dire che li ho apprezzati molto.
Mi duole non poter dire la stessa cosa a proposito di quelli che davano la caccia agli spacciatori nelle isole Eolie. Torniamo ai tempi del liceo. Passavano gli anni, crescevo, mutavano i volti degli agenti che mi attendevano al porto, ma non i modi. Ci dev’essere una scuola in cui glieli insegnano, ma certo è una scuola diversa rispetto a quella in cui insegnava mio nonno.
Insomma una volta, ormai abbastanza cresciuto, tornai alle isole Eolie con questa fidanzata che aveva 14 anni più di me e una valigetta piena di pasticche e erbe: tutte medicine naturali, perché era ipocondriaca, ma naturale.
Queste pasticche scatenarono la fantasia dei miei persecutori. Non volevano convincersi che non si trattava di droghe.
Può anche darsi che non avessero tutti i torti. La mia fidanzata spiegava il senso profondo di quella roba.
Assistevo allo scontro tra il mondo dell’erboristeria e quello delle forze dell’ordine. Per la prima volta mi trovavo in posizione un po’ defilata e la cosa era rilassante. Non mi avevano neanche detto: dai, tanto lo sappiamo che ce l’hai. Forse erano frastornati dagli effluvi del tè rosa d’inverno.
Per cui perquisivano anche e me e le mie valigie, è chiaro, ma senza quell’entusiasmo di un tempo.
Io stesso facevo meno caso al loro cipiglio. Avevo altro a cui pensare. Ero distaccato.
In quel periodo i miei sogni volavano alto. Le cose troppo umane non mi interessavano. Le anime delle conchiglie e dei fossili che tenevo in camera mi piovevano in testa e mi suggerivano costantemente di espandere i miei interessi. Io accordavo loro la massima fiducia e nella mia entusiasmante arroganza giovanile mi sentivo sempre prossimo a toccare una verità assoluta. Dato che Dio era escluso dai miei orizzonti per motivi di principio (inoltre i fossili e le conchiglie non mi parlavano mai di Dio), questo desiderio di assoluto cercava altre vie. Era come se dalla parte di Dio ci fosse un grosso tappo, e allora quella pressione zampillava da tutte le fessure.
Per esempio non mi piacevano le musiche in cui c’era la voce umana, cioè a dire gente che cantava, preferivo la musica strumentale, la trovavo più pura. Meglio se lo strumento era un solo. Preferivo l’astrazione alla concretezza: andavo in direzione opposta rispetto ai miei contemporanei. La metafisica alla fisica. Un abisso marino alla spiaggia. Un lombrico a un cinghiale.
Per quale motivo poi un lombrico mi sembrasse più “assoluto” di un cinghiale resta in qualche modo un enigma. So solo che era così.
Forse perché un lombrico non ha gli occhi ed è molto più lontano dall’uomo, rispetto a un cinghiale.
Per la stessa ragione ambivo a comunicare con gli extraterrestri, piuttosto che col mio prossimo. Tuttavia non posso dire di averne incontrati molti.
Anche i libri che leggevo con maggiore entusiasmo, che potevano essere Kafka o Le mille e una notte, mi sembrava che non parlassero solo agli uomini, che celassero un segreto che parlava anche ai lombrichi o agli extraterrestri senza occhi, mentre se leggevo mettiamo Balzac o Dostoevskij mi pareva che parlassero esclusivamente agli uomini.
In quel periodo tali idee mi sembravano giuste. Io stesso avrei desiderato scrivere storie che andassero bene anche dall’altra parte della galassia. In un certo senso avevo già cominciato a esercitarmi. Nelle versioni che facevo, al liceo, dal latino e dal greco, dato che il più delle volte ignoravo la traduzione corretta (perché in tutta questa sete di sapere devo dire che lo studio delle materie scolastiche rimase un po’ sacrificato, in quanto troppo umano), insomma facendo le versioni cercavo delle frasi talmente ambigue da significare tre o quattro cose contemporaneamente, così potevo difendere la mia traduzione di fronte alla professoressa, un soggetto che certo meritava ogni inganno e che ancora popola i miei sogni. Dico popola perché a volte sogno di essere circondato da decine di cloni della professoressa che con tono stridulo dicono “Io sono la ventinovesima alunna” brandendo una mannaia. E vorrei suggerire che La ventinovesima alunna sarebbe un ottimo titolo per un horror. Inoltre sottolineo che il contrasto tra il fatto che i cloni nel sogno dicono “Io” e il fatto che in realtà sono una caterva, per cui a rigore dovrebbero dire “noi”, sarebbe di sicuro e spaventevole effetto.
Questa mia professoressa aveva l’ardire di sostenere che ogni tanto andavo fuori tema. Tutto perché la povera donna non era in grado di cogliere i nessi.
Diciamo che precorreva i tempi, era una pioniera. Oggi sono quasi tutti come lei.
Comunque torniamo a quella volta che ero sbarcato alle Eolie con la mia fidanzata piena di pasticche e gli agenti perquisivano anche me.
Il nesso tra questa situazione e la sete di assoluto c’è: perché è stata proprio la sete di assoluto la causa del mio trionfo. Infatti mi ero portato in valigia un libro di logica matematica, di tale Mendelson, me lo ricordo ancora. Confesso che ho difficoltà anche a fare le divisioni . Ma appena aperto quel libro pieno di simboli incomprensibili e superbi, avevo subito intuito che la logica matematica era abbastanza disumana e assoluta: faceva per me. Avevo quindi deciso di portare il libro Logica matematica, di Elliott Mendelson, al mare, in vacanza. Certo furono le anime dei fossili e delle conchiglie ad ispirarmi.
Il bello è che non era esibizionismo. Non amavo farmi vedere dagli altri mentre contemplavo i simboli. Davvero cercando ostinatamente di decifrarli provavo un piacere segreto e prezioso.
Prezioso era anche il libro, nel senso che costava un sacco di soldi, dal mio punto di vista. Temendo che si rovinasse durante il viaggio lo avevo dunque infilato in pacco di riso Flora, dopo aver buttato via il riso. E’ stata in quell’occasione che ho scoperto che le scatole di riso Flora hanno l’esatta misura della Logica matematica di Mendelson.
Insomma gli agenti erano lì, tutti esaltati per le pasticche e le erbette della mia fidanzata, e questa volta a me non mi consideravano più di tanto.
Almeno fino al momento in cui uno di loro affondando il gomito nella mia borsa non ha tirato fuori il pacco di riso Flora.
Ha fatto un lento sogghigno di trionfo, mentre anche tutti gli altri si voltavano. Non so come, avevano capito che quello era il momento decisivo.
Non mi dirai che qui dentro c’è del riso? ha detto, soppesando la scatola.
No, mi sono limitato a rispondere, assumendo un’aria più tonta e colpevole del solito, con una malizia istintiva.
Ahah! Ha detto lui, credendosi vittorioso. Ormai gli altri ci erano attorno.
Avreste dovuto esserci anche voi per vedere le facce che hanno fatto quando, dalle tenebre del pacco di riso Flora, è emerso il Mendelson, in tutto il suo splendore enigmatico, come un totem portatile.