di Igino Domanin
[Di Igino Domanin, ci preme segnalare l’uscita del romanzo d’esordio Spiaggia libera Marcello, la cui recensione abbiamo pubblicato qui. Oltre che scrittore, Domanin è ricercatore di filosofia teoretica.]
Michel Foucault negli anni Settanta ha capovolto l’immagine tradizionale della riflessione politica. Bisognava, a parer suo, tagliare la testa al re non solo, come fecero i rivoluzionari francesi, nella prassi, ma, adesso, innanzitutto nella teoria. L’analisi del potere, cioè, non si basava sul primato della sovranità e sulle nozioni giuridiche ed economiche che ruotano intorno a essa. In particolare, Foucault metteva radicalmente in discussione il primato della Forma-Stato come oggetto della critica della politica e indicava un metodo nuovo d’indagine. Il potere, insomma, consiste nell’esercizio di alcune tecniche di governo nell’ambito delle quali, per esempio, strutture architettoniche, misure amministrative, enunciati filantropici formano una rete di elementi in grado di controllare e dirigere la condotta degli individui.
In Sorvegliare e punire, infatti, Foucault ci ha mostrato come la prigione sia un caso di questo genere. L’analisi del suo funzionamento, infatti, passa attraverso i collegamenti che esistono tra le condizioni di visibilità (il sistema di sorveglianza che crea una dissimetria fondamentale tra vedere e essere visti) che ripartiscono architettonicamente all’interno del penitenziario e i discorsi intorno al valore educativo della pena, fino a comprendere certi metodi di disciplinamento e addestramento delle prestazioni del corpo.
Questa rete di elementi, sia discorsivi che non discorsivi, Foucault la chiamò dispositivo.
La microfisica del potere foucaultiana può essere messa in correlazione con la crisi della politica moderna e delle sue ideologie, con l’eclissi del primato dello Stato-nazione come arena politica eminente e lo svuotamento di significato della cittadinanza democratica, con la necessità, infine, di mostrare come la soggettività sia il luogo di applicazione di un potere e di come essa sia attraversata, nella sua costituzione, dall’azione dei dispositivi.
Nel piccolo e densissimo scritto Che cos’è un dispositivo? (pubblicato presso Nottetempo, € 3.00) Giorgio Agamben prova a fare dei passi in avanti rispetto alle analisi di Foucault. Passi importanti nella direzione della comprensione, a mio avviso, delle trasformazioni attuali dell’esercizio del potere nel contesto della società dell’informazione. Soprattutto in riferimento alla mutazione antropologica che le tecnologie dell’informazione sottendono.
Agamben ricostruisce la logica di funzionamento del termine dispositivo nel discorso teorico di Foucault. E ipotizza che essa sia intrecciata con una certa eredità hegeliana che giunge a lui tramite l’insegnamento di Jean Hyppolite, suo illustre predecessore alla cattedra del Collége de France. In un testo dedicato al pensiero di Hegel, Hyppolite sottolineò, con evidenza, il ruolo del termine “positività” nel giovane Hegel. Questo termine indicava come l’elemento storico consiste in “un carico di regole, riti, e istituzioni che vengono imposti agli individui da un potere esterno, ma che vengono, per così dire, interiorizzati nei sistemi delle credenze e dei sentimenti”. Questa definizione è analoga a come, infatti, Foucault definisce il dispositivo.
Foucault, quindi, sottolinea che il potere non è il luogo della violenza bruta, al contrario esso agisce tramite dispositivi che funzionano attraverso la produzione di un soggetto. In altri termini, se pensiamo a certi istituti come la confessione, Foucault ci mostra che in essi si determina innanzitutto una procedura volta ad oggettivare la condotta di un soggetto, il quale a sua volta è costretto a prendere posizione rispetto a se stesso. La”libertà” del soggetto e la sua assunzione di responsabilità di fronte a se stesso, cioè, sono elementi funzionali all’operatività di un dispositivo; anzi, è il dispositivo stesso a produrre le condizioni di manifestazione del soggetto, a prevederne e invocarne l’evidenza storica.
Mentre le teorie classiche del potere ruotano intorno a una concezione della forza che tende a identificarsi, necessariamente e in ultima istanza, con la violenza e la repressione, Foucault ci mostra come le condizioni di esercizio effettivo del potere abbiano di mira la costituzione della libertà del soggetto.
Quali sono gli apporti problematici di Agamben? Nella seconda parte del suo testo Agamben prende le mosse dalla teologia. Sostiene la necessità, cioè, per comprendere teoricamente il discorso foucaultiano, che bisogna mutare contesto e collegare quanto dice Foucault con gli interrogativi attuali della politica occidentale. La teologia è lo sfondo schmittiano in cui Agamben colloca l’analisi di Foucault. Nella teologia, troviamo un impiego del termine greco oikonomia che si sgancia dalle definizioni aristoteliche. L’oikonomia, cioè, è quell’insieme di attività affidate nella ambito della Trinità al ruolo del Figlio e che riguardano il modo di condurre gli uomini verso la salvezza. Agamben rileva come qui sorga la frattura, tipica della cultura occidentale, tra l’essere e la prassi, tra l’ontologia e la politica. L’oikonomia è, dunque, il piano molteplice e dispersivo dei dispositivi e della loro azione, priva di qualsiasi necessità di fondazione, che opera per fini escatologici.
La secolarizzazione di questa teologia politica diventa, perciò, lo sfondo delle analisi foucaltiane. Nel capitalismo moderno, l’azione dei dispositivi funziona attraverso il moltiplicarsi e intensificarsi della procedure di soggettivazione. Agamben sottolinea come, però, esiste un contrappeso al dispositivo. La comprensione genealogica del dispositivo, infatti, rimanda all’origine sacra della sua formazione. Agamben interpreta il sacro come il momento di separazione che stabilisce la soglia tra il divino e l’umano, tra ciò che appartiene al puro essere e la storicità delle pratiche. Il sacro, però, invoca anche la possibilità concreta del profano: la violazione del confine e l’espropriazione di quanto è stato riservato agli dei e sottratto agli uomini.
Questo rapporto si traduce nella società industriale nella tensione che la libertà del soggetto è in grado di esercitare nei confronti del potere e dei suoi dispositivi. Il soggetto è senza dubbio “assoggettato” alle regole dei dispositivi in cui è emerso, ma nello stesso tempo può esercitare una certa resistenza, poiché, pur esistendo in virtù dei dispositivi che regolano e supportano le sue pratiche, è ritenuto ”libero” e , quindi, relativamente autonomo e in grado di poter elaborare delle strategie di risposta alle prestazioni che il potere esige da lui.
L’ipotesi, però, che si affaccia nel finale del testo di Agamben è che l’operatività dei dispositivi attuali funzioni in base a un regime differente. La tesi è suggestiva, poiché poggia sull’intuizione che la tecnologia contemporanea funzioni su dinamiche di desoggettivazione piuttosto che sulla produzione del soggetto. Non tanto perché il soggetto sparisca, piuttosto in quanto si dequalifica e si demoltiplica in modo seriale.
Le tecnologie comunicative, per esempio, tendono a esonerare il soggetto dall’obbligo di ogni prestazione, a spogliarlo di ogni necessità di agire. In questo modo, viene intaccata la possibilità della profanazione del dispositivo che agisce, perciò, anonimo e indisturbato. La perdita dell’esperienza tipica del telespettatore che frantuma compulsivamente qualsiasi filo conduttore e qualsiasi narrazione possibile attraverso lo zapping, l’esposizione totale delle nostre vite allo sguardo dei sistemi di videosorveglianza, la violazione sistematica della privacy da parte delle strategie di marketing virale, sono solo alcuni segnali del modo in cui la presenza dei dispositivi esercita il proprio potere nella società dell’informazione. La mutazione antropologica del potere contemporaneo passa da qui.
Il modo in cui l’economia della conoscenza, per esempio, prende di mira le caratteristiche che definiscono la natura umana, perfino nelle sue determinazioni biologiche e linguistiche, e rimodula tecnicamente il loro funzionamento sembra, infatti, produrre degli effetti di desoggetivazione dell’esperienza. In altri termini, certe prerogative della soggettività vengono ascritte direttamente al dispositivo tecnico che assolve a certi compiti perfino sensoriali e dirige minuziosamente attraverso i propri reticoli informativi i comportamenti individuali. Il soggetto è, quindi, reso, per così dire, isolato dai compiti dell’esperienza: contemporaneamente sgravato e spogliato della possibilità di elaborare una risposta sensata. Con questa determinazione bruta della condizione umana la politica a venire sta già per fare i conti.