di Enzo Fileno Carabba

TerreDesolate.jpgD’ora in avanti, i capitoli del romanzo di Enzo Fileno Carabba saranno illustrati da Liza Schiavi, artista di straordinaria bravura. (V.E.)

9. TERRE DESOLATE

Mentre uscivo dall’infanzia andai a vedere il film Lo squalo, di Spielberg, e appena finito il film, in Piazza della Repubblica, fui colto da morbillo. Mia cugina disse che mi era venuto il morbillo dalla paura.
Ma non credo.
Una cosa importante del film è che i fondali in cui si muove lo squalo sono di notevole squallore. Un altro regista avrebbe colto l’occasione per mostrare fondali tetri ma spettacolari. Mentre i paesaggi in cui nuota il pescione protagonista ti fanno veramente cascare le braccia, da quanto sono piatti, fangosi, quasi lagunari (quello è uno squalo che viene da Venezia). E sappiamo cosa accade quando ti cadono le braccia, se c’è in giro uno squalo come quello: irreale, ma non per questo meno affamato.

Le barriere coralline mi mancano, nel senso che non ne ho mai vista una, dal vero. Se il tempo che ho impiegato nella mia vita a contemplare rapito fotografie di barriere coralline lussureggianti lo avessi impiegato a lavorare sarei una persona estremamente produttiva.
Le barriere coralline sono un tripudio di vita e di colori, almeno credo. Però uscendo dalla sala cinematografica mi resi conto per la prima volta con chiarezza che mi piacevano anche taluni paesaggi desolati e fangosi, sotto o sopra l’acqua.
C’è qualcosa di essenziale, nella desolazione.
Per esempio mi piacevano quelle tipiche storie in cui qualcuno sopravvive a un disastro nucleare, o a qualche altro evento globale, e si aggira sulla Terra distrutta, ridotta a un pianeta fantasma, lottando con altri sopravvissuti abbrutiti, fantasmi anche loro, non più umani. Mi davano un’intima soddisfazione, queste storie, non capisco bene perché.
Immagino che se mi trovassi davvero in una situazione del genere non sarei contento. Ma questo vale per molte storie appassionanti. Anche perdere molti anni per assediare Troia o cercando di sposare una donna potrebbe essere negativo. Forse quelle storie catastrofiche mi piacevano perché mi identificavo nel protagonista e mi pareva che il disastro globale fosse già avvenuto e che quelli attorno a me fossero già abbrutiti e disumani. Mentre io chiaramente no.
Lo so che non è una bella cosa da pensare. E non nego che avevo un carattere difficile.
Nel tempo grazie a uno sforzo titanico sono diventato più tollerante, sono molto migliorato. Solo che i miei contemporanei sono rimasti i soliti scemi. Per esempio, i due principali leader mondiali se ci fai caso hanno veramente due facce da deficienti.

Durante le passeggiate in campagna con mia nonna Nadia avevo delle vere e proprie visioni dove mi vedevo aggirami nei paesaggi desolati. Non capivo bene se quello che vedevo era il futuro della terra oppure un altro pianeta che mi accingevo a colonizzare.
Con le visioni non si va molto per il sottile, a volte.
Io e mia nonna potevamo comunicare con lunghi silenzi. Quando invece parlavamo e lei mi raccontava qualcosa del suo passato si trattava, per lo più, di storie relative ad altri percorsi a piedi. Come i chilometri che percorreva per raggiungere la piccola scuola in cui insegnava da ragazza, e durante i quali incontrava sempre lo stesso serpente che prendeva il sole su una pietra. Non mi ha mai raccontato nulla di suo marito, cioè il mio nonno materno, che non ho mai conosciuto e di cui non ho mai sentito parlare, neanche da altri, se non per vaghissimi accenni. Una figura avvolta nel mistero che si prestava alle ipotesi più ardite.
Mi ricordo che durante una di queste passeggiate con la nonna Nadia cantavo a squarciagola la canzone Il vecchio e il bambino, di Francesco Guccini. (Un altro pezzo forte del mio repertorio era Adesso spogliati di Cocciante). Nella canzone questo vecchio e questo bambino camminano per mano in una pianura desolata, la situazione non è rosea: “tutto d’intorno non c’era nessuno, solo il tetro contorno di torri di fumo”. Il vecchio racconta al bambino com’era la Terra prima: “immagina questo coperto di grano / immagina i frutti, immagina i fiori / e pensa alle voci, e pensa ai colori”. Ma il bambino, che evidentemente è nato dopo il disastro, con occhi tristi e voce sognante dice: “mi piaccion le fiabe, raccontane altre”.
Data la tenera età non avevo letto i grandi autori disastrosi, come Ballard, che più tardi si è conficcato bene nella mia mente. La peculiarità di quel momento in cui io cantavo Il vecchio e il bambino è che eravamo in effetti un vecchio e un bambino, come nella canzone, ma invece di avere davanti a noi il deserto avevamo davanti a noi un rigoglio vegetale sbalorditivo. Se ben ricordo non era neanche primavera, era inverno, ma grassi anemoni crescevano a vista d’occhio.
Così ce ne andavamo per le campagne, io e mia nonna, come viandanti prima del disastro. Una cosa che ci accomunava ai viandanti dopo il disastro, almeno per come ce li immaginiamo di solito, è che mia nonna – una ex maestra rispettabile con una splendida crocchia bianca – mi istigava al furto.
Ero diventato particolarmente scaltro ad arrampicarmi sui muri delle ville o intrufolarmi quasi dentro per prelevare fiori o altre piante e portarle a mia nonna che faceva il palo. Naturalmente non è che entravo proprio dentro le case, rimanevo ai margini della proprietà privata. E io quelle splendide magioni me le ricordo ancora con paura e desiderio.
Una volta fummo sorpresi da un signore altissimo (quella volta ero proprio dentro il giardino, per mio eccesso di zelo) ma la nonna assunse un tale contegno che il proprietario non osò dire nulla, anche se vidi che gli occhi gli roteavano nelle orbite. Mia nonna sapeva essere altera e dignitosa come un’arciduchessa asburgica, all’occorrenza.

Se lei era un’arciduchessa asburgica, io ero un vietcong. Perlomeno: quando strisciavo, mi arrampicavo e mi intrufolavo immaginavo di essere un vietcong. Mi piacevano da matti i vietcong, per quel che ne sapevo, cioè nulla. Tempo dopo, quando al cinema ho visto Rambo, mi sono subito identificato in quel vietcong bianco.
Raggiunta una certa età cominciai anche a fare le trazioni su un ramo relativamente diritto del mio ciliegio preferito. Le trazioni sono la cosa migliore per prepararsi all’apocalisse.
Avevo letto che al centro della nostra galassia c’è un buco nero che divora tutto. Ero sicuro che le trazioni – se ne facevo parecchie – mi avrebbero permesso di risbucare dall’altra parte del buco nero illeso, quando la terra fosse stata risucchiata.
Ma perché mi piacevano così tanto gli scenari desolati? Non erano l’opposto degli ambienti rigogliosi che amavo? Neanche Rambo potrebbe trovare rose da rubare per darle a sua nonna, a cui sicuramente è devoto, in un mondo ridotto in cenere.
Eppure mi piacevano, gli scenari desolati. Per me paradossalmente rappresentavano una specie di rivincita della Natura. Una Natura privata degli orpelli, ridotta all’essenziale, ma non per questo meno potente: anzi più forte ancora. Dopo il disastro mondiale non ci sarebbero più state ciliegie, e questa era una controindicazione spiacevole, ma qualche lichene sì. Dopo il Disastro non ci sarebbero più stati gli animali che conoscevamo, ma altri esseri pericolosi, affamati e tuttavia commestibili sarebbero nati a poco a poco dalla fanghiglia delle pozze e tutto sarebbe ricominciato.
Inoltre, dato che conoscevo a menadito i territori dove vagavamo intrepidi a caccia di fiori, davo per scontato che quando l’esistenza si fosse ridotta a una mera lotta di sopravvivenza su quelle colline — magari spoglie, ma sempre quelle — avrei saputo come muovermi, dove nascondermi, da dove passare, e avrei prevalso su quei poveri sopravvissuti che nella vita precedente avevano conosciuto solo gli ambienti urbani, stavano seduti sui muretti, si drogavano in piazza Fardella, masticavano big bable e guardavano Happy Days.
Come dire Rambo contro Fonzie: non ci sarebbe stata storia. Avrei potuto dire a chiunque: qui la legge sono io.
Magari quelli che guardavano Star Trek avrebbero rivelato maggiori capacità di adattamento, ma i bamboccioni che guardavano Happy Days sarebbero morti cercando ostinatamente cibo in qualche pub ormai depredato da anni.
Già allora, col mondo non ancora sottosopra, stavo bene dove gli altri avevano paura.
Certo sapevo che dopo ci sarebbero stati dei predatori da cui stare in guardia. Personalmente immaginavo grandi squali mutanti uscire dalle pozze prosciugate, sfilandosi dal fango come lombrichi. Perché poi, col mondo ridotto all’osso, noi ci si immagini sempre dei predatori enormi e grassi, è un mistero. Cosa mangiano questi predatori enormi?
Mi era chiaro che avrebbero cominciato col mangiare noi. Ragione per cui col mio amico Nicola decidemmo di scavare dei cunicoli sotterranei dove rifugiarci, dove nasconderci in caso di pericolo. Ma non intendevamo certo stare rintanati e basta come tapini. Saremmo sbucati dall’altra parte del cunicolo e avremmo contrattaccato: sorpresa garantita, effetti devastanti.
Chiaramente i cunicoli avrebbero evitato le pozze da cui uscivano i predatori mutanti e sarebbero stati collegati l’uno all’altro tramite passaggi che noi — prudenti — avremmo occultato con paretine di terra facili da buttar giù. Il mio amico pensò anche di piazzare delle riserve di cibo qua e là, tipo barattoli di nutella e tubetti di maionese. All’epoca ci piaceva succhiare la maionese direttamente dal tubetto. E anzi io, se devo dire la verità, la mangiavo accompagnandola a piccoli pezzi di buccia di arancia o di limone, trovavo che l’insieme avesse un effetto digestivo, anche se non conoscevo il significato della parola digestivo e neanche quello della parola anticrittogamico.
Nei momenti di maggiore entusiasmo pensammo che i cunicoli avrebbero collegato la casa di mia nonna alla casa mia e alla casa del mio amico. Ci rendevamo conto che per fare questo dovevamo passare sotto l’intera città: un lavorone. Però alla fine la cosa avrebbe offerto particolari vantaggi. Potevamo sbucare all’improvviso dove ci pareva, a patto di trovare il modo di perforare l’asfalto e poi richiuderlo senza lasciare tracce. Ci doveva pur essere il modo. In attesa di trovarlo demmo inizio agli scavi.
Alla luce di quella esperienza posso dire che scavare anche solo dieci metri di cunicolo è un’impresa disperata. Una cosa impossibile.
Quando sento chiedere: chissà come hanno fatto a costruire le piramidi?! O: chissà come hanno fatto a tirar su le statue dell’Isola di Pasqua?! E insomma quando sento queste domande sulle grandi e misteriose imprese umane, io piuttosto mi chiedo: come diavolo ha fatto certa gente a scavare i cunicoli?
Davvero io e il mio amico eravamo all’inizio dell’evoluzione umana, per certi aspetti. E ci siamo restati, perlomeno io.
Ci massacrammo i polsi con certe zappe traballanti che mia nonna teneva in cantina, ogni colpo ci faceva tremare le braccia: aveva delle ripercussioni che ci arrivavano fino al gomito. I tendini ballavano dolorosamente. Tra l’altro la parte in metallo della zappa rischiava sempre di volar via dal manico, con effetti micidiali.
Poi un vecchio che si arrampicava sui pini per togliere i nidi delle processionarie (altro che abeti! È molto più difficile salire sui pini) e che arrivava sempre sferragliando in bicicletta, pieno di roba da vendere, in equilibrio precario eppure perenne, e che faceva il galante con mia nonna, ci disse che ci conveniva usare la pala.
Allora abbandonammo la zappa e ci demmo alla pala. Non era meno faticoso. Scoprimmo in quell’occasione che i terreni attorno a casa di mia nonna non erano terreni: quella era roccia marrone. Con l’erba sopra. Ma, almeno, usando la pala ci facevamo meno male e non rischiavamo di darcela in testa l’un l’altro.
Imparammo però che quando scavi un cunicolo il soffitto tende a caderti in testa. Alla fine più che una complessa rete di cunicoli utile a fronteggiare il nemico ottenemmo una buca.
Gran bella buca, però.
E poi, in caso di pericolo potevamo sempre rifugiarci in casa della nonna.