di Alberto Prunetti
[López è un muratore argentino con il triste primato di essere desaparecido due volte: la seconda volta nel settembre 2006, in piena democrazia, nel corso di un processo in cui la sua deposizione è stata l’elemento chiave per far luce sulla sorte di altre due vittime della dittatura militare: Patricia Dell’Orto e Ambrosio De Marco. López è l’ultimo prigioniero che li ha visti vivi e di lui non si hanno più notizie. Carmilla si è occupata di López qui, qui e qui.]A.P.
Arrivato a Buenos Aires da meno di mezz’ora, l’amico argentino che mi è venuto a prendere all’aeroporto mi dice che ceneremo con un suo amico, Gerardo Dell’Or(t)o. Il nome innesca un riflesso automatico. Chiedo se è per caso un parente di Patricia, la ragazza al centro delle dichiarazioni di López. “È suo fratello”, risponde il mio amico, prima di fare un numero al cellulare. Poche parole che mi riempiono di curiosità:”Gerardo, stasera porta il libro!”
Il libro di Gerardo è fuori dall’ordinario, secondo gli stereotipi dell’industria culturale europea. A partire dalla tiratura: un solo esemplare. Un libro con carta di alta qualità, rilegato e con una copertina di cartone duro, rosso. Per leggerlo, devi incontrare l’autore. E non è strano: a Buenos Aires, città di un fervore intellettuale che fa impallidire Roma o Milano, ogni anno c’è una fiera dedicata ai libri in un solo esemplare. Pagina dopo pagina, si alternano una serie di foto, commentate da didascalie evocative. Innanzitutto il soggetto: Patricia, fotografata dal padre, lui stesso fotografo negli anni Sessanta. Foto in bianco e nero, negli anni dell’adolescenza. Patricia a scuola, hippie, mano nella mano col marito, Ambrosio de Marco. Poi altre foto in montaggio alternato: Patricia e la figlia Mariana De Marco, fotografata da Gerardo (che è un fotografo professionista, collaboratore di uno dei più noti quotidiani di Buenos Aires). Quando Patricia e Ambrosio sono sequestrati, Mariana aveva solo pochi giorni. È cresciuta coi nonni, e il filo di memoria che la unisce ai genitori è tessuto anche dalle parole di Jorge Julio López. È lui il protagonista dell’ultima parte del libro. Gerardo scrive:
“La mia memoria è fatta di ricordi estranei, ricordi di famiglia con cui ho vissuto e altri che sono andato a cercare. Uno di questi aveva il nome di un sopravvissuto: l’ultimo che li aveva visti vivi.” Gerardo parla di López. Alcuni anni fa si sono incontrati.. Hanno parlato del periodo che Patricia ha trascorso con López, nella militanza nel quartiere e nella detenzione clandestina. López e Gerardo hanno camminato in un campo, osservando alcuni alberi, l’unica cosa che López si ricordava di poter vedere da una finestra nella sua prigionia. E sono proprio gli alberi — ondeggianti nell’esposizione, sovraimpressi gli uni agli altri nella distorsione del mosso fotografico — i protagonisti di un’altra sezione del libro di Gerardo. In quest’occasione Gerardo ha scattato un ritratto bellissimo di López. Mi chiedo se non è in quell’istante che il vecchio testimone ha riferito le parole di Patricia, il messaggio che le ha lasciato da una cella di un centro clandestino di detenzione, per la figlia Mariana: “Sei tu, López? Se vai a casa mia, ricordati di dire, alla mia bimba, ai miei genitori….” Il vecchio muratore è ricordato nel libro di Gerardo anche da Mariana. Ecco le parole della ragazza: “Sono quindici anni che conosco Jorge Julio López, anche se non l’ho mai visto negli occhi. La volontà di non incontrarci è stata reciproca. Gli avevano detto che assomiglio molto a mia madre, e non voleva vedermi. E io non volevo trovarmi di fronte a lui. Oggi sento che le tessere della storia si uniscono grazie a lui. Che tutto ha un senso, che è stato lui il messaggero di un desiderio, di un ricordo: il messaggero di tanto amore dentro all’orrore più grande.” Le parole di Patricia sono toccanti, lette in quella terrazza di Buenos Aires, tra il frastuono delle discussioni degli amici. “Gli devo, gli dobbiamo molto. Non posso evitare di sentirmi in debito: aver voglia di uscire di corsa, a cercare fino a sotto le pietre, fino a trovare Julio López.”
Non sentivano la stessa urgenza i poliziotti che seguivano con alcuni cani pastore alcune tracce olfattive di López, nel corso di una ricognizione, a pochi giorni dal sequestro. I cani hanno trovato alcuni indumenti sporchi di sangue, riconosciuti come appartenenti a López. Le tracce portavano fino a una casa isolata. Qui i poliziotti si sono fermati, hanno preso un mate con altri poliziotti che hanno trovato sul posto, poi sono tornati indietro. Sono tornati sul luogo solo alcuni giorni dopo, quando la pista era ormai fredda. È una notizia nuova, che getta altro discredito sulla polizia argentina. Ed è, purtroppo, una notizia già vecchia. Come quel nunca mas che invece, succede ancora.
[Le foto di questo articolo sono tratte da Imagenes en la memoria di Gerardo Dell’Oro.] A.P.