E’ uscito per i tipi Rizzoli il racconto dei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro su cui Marco Baliani ha costruito un celeberrimo spettacolo di teatro civile: Corpo di Stato. Il delitto Moro (costa soltanto 7 euro) è uno degli esempi più folgoranti della presenza di una letteratura politica e civile in Italia, oltre che l’archetipo che dovrebbe governare ogni ricordo dell’uccisione dello statista democristiano – completamente fuori del cerchio celebrativo allestito dalla fiction di potere. Pubblichiamo l’intervento autografo di Marco Baliani sul suo spettacolo, oltre che un’intervista pubblicata nel ’98 dal Manifesto, a cura di Oliviero Ponte di Pino. [g.g.]
CORPO DI STATO
di Marco Baliani
Il tessuto di Corpo di stato è il rapporto conflittuale tra esigenza di rivolta contro l’ingiustizia e assunzione del ruolo di giustiziere.
E’ sempre stato difficile raccontare qualcosa che ci è tanto vicino – siamo nel nostro passato prossimo, solo vent’anni fa – specie se quel qualcosa ha inciso profondamente sulle nostre esistenze e sulle nostre scelte.
La materia è ancora così pulsante e non dipanata dalla lontananza, che si rischia allora di leggerla col senno di poi, filtrandola e mettendola a distanza di sicurezza.
Ho cercato allora di ritornare laggiù, in prima persona, ricordandomi di me in quei giorni, trovando nelle mie esperienze di allora quelle “piccole storie” che sole possono tentare di illuminare la Storia più grande. Ho percorso momenti dolorosi senza perdere però le atmosfere di quegli anni, gli entusiasmi, i paesaggi metropolitani, le contraddizioni.
Nei 55 giorni della prigionia di Moro ho raccontato di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine sia divenuta via via spartiacque per scelte fino ad allora rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche. Ho raccontato le mie storie, prima ancora che un palco teatrale, davanti a una telecamera; l’emozione della diretta televisiva è cosa diversa dall’eccitazione inquieta con cui ogni volta entro in scena a narrare.
Ora torno sulle tavole di legno a me care, non devo più cercare l’occhio di una telecamera, ma gli occhi di spettatori in carne e ossa; non sarò né personaggio, né narratore esterno, questa volta, ma io stesso narrante, un’esperienza nuova, una messa in gioco del personale, una dichiarata visione soggettiva di quegli anni. Amici, compagni, avversari, potranno avere i giusti motivi per non essere d’accordo o per trovare identità; per quelli che non c’erano, i giovani d’oggi, sarà come visitare un mondo che appare tanto lontano, quasi incredibile; spero che per tutti, come è già accaduto dopo la trasmissione televisiva, scatterà il desiderio di parlare, di contraddire con altri racconti: è un modo di uscire allo scoperto, di raccontarsi agli altri, di rievocare quei tempi difficili e densi. Quando si esce da momenti e tempi in cui la vita è stata pregna di avvenimenti, quando il vivere è sembrato intenso anche nel dramma, dopo, col tempo, ci si sente sempre un po’ stranieri, come reduci, testimoni di eventi troppo densi per essere dipanati. Camus dice: “Non essere ascoltati: è questo il terribile quando si è vecchi”.
Il narratore compie sempre questa sfida, straniero nel tempo cerca di vincere con il racconto la vecchiezza che stende sulle cose del mondo un manto spesso di oblio.
Marco Baliani
di Oliviero Ponte di Pino [da il manifesto del 9.5.1998]
Con il sequestro Moro un’intera generazione politica – il Movimento del ’77, schiacciato tra il delirio militarista delle Br e il centralismo burocratico del Pci – ha di fatto concluso la sua parabola e si è trovata ridotta al silenzio. A riprendere la parola prova ora uno straordinario narratore come Marco Baliani, che in Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa (in onda stasera su Raidue, alle 22.30, in diretta dai Fori di Roma dove lo spettacolo andrà in scena) prova a raccontare i 55 giorni del sequestro, così come li ha vissuti lui, nella Roma del 1978, attraverso una serie di micro-narrazioni. “Racconto che vado a trovare un compagno in carcere, che incontro la madre di uno che è morto nel corso di una rapina e racconto com’è successo, litigo con un bidello del Pci sul dilemma trattativa-fermezza. Alla fine racconto come ho bruciato la mia agenda, che era piena di nomi. Racconto il clima in quei giorni, la tensione e la violenza, senza nascondere quello che mi è successo. Inizio dicendo che quando ho saputo che le Brigate Rosse avevano prelevato uno come Moro, ho provato euforia: oggi non riesco neanch’io a spiegarmelo, e cerco di capire qual era la contraddizione, la lacerazione di una parte del movimento, fino alla posizione di Lotta Continua. Trattare per salvare la vita di Aldo Moro: per me un democristiano simbolo del potere era diventato un uomo da salvare”.
Che rapporto c’è tra questa memoria soggettiva e la ricostruzione storica?
Non ci sono mai riflessioni sociologiche, storiche o politiche. Parlo sempre in prima persona: nel ’78 facevo teatro da quattro anni, ero stato dentro i gruppi extraparlamentari, anche quelli più duri. Ma forse dentro le mie piccole storie c’è qualcosa: il ricordo di un’assemblea alla Garbatella, in cui si passò alla clandestinità per alzata di mano; o anche il fatto che non si andava alle manifestazioni solo per politica, ma perché avevi la donna e pensavi a come avreste scopato dopo. E mi chiedevo cosa avrei fatto se fosse venuto un compagno a chiedermi di tenere un pacco, o di ospitarlo, con il rischio di finire in galera.
Che senso ha, al di là degli anniversari, tornare a parlare di quelle vicende?
Da tempo volevo raccontare gli anni ’70, e dopo questo Corpo di Stato voglio fare un racconto un po’ più disteso. Non mi sembra che siano stati fatti dei racconti su quegli anni. A mio figlio quelle vicende non le ho mai raccontate, così come i nostri genitori non ci hanno raccontato nulla sulla Resistenza e sul fascismo. Il libro di Capanna è una truffa, non era così. C’è un nodo che non è stato ancora sciolto, una grande rimozione. Adesso ci sarà l’amnistia, e tutti i “politici” usciranno dalle galere, come è giusto. Però nessuno parla del motivo per cui una larga parte di una generazione è arrivata a un livello così forte di scontro sociale. Quelli che hanno preso le armi sono stati demonizzati, come se ci fosse stato solo quello. C’è stato anche uno scontro tra padri e figli…
Insomma, si tratta di recuperare gli anni ’70 perché non siano ridotti allo scontro tra una banda armata e gli apparati dello Stato.
Anche andando a vedere i comportamenti e le proposte di costume. Soprattutto, mi urta molto che quegli anni siano ridotti a uno scontro manicheo, una guerra tra buoni e cattivi. Una grossa parte del movimento è stata ridotta al silenzio. “Né con le Br né con lo Stato” all’inizio ci sembrò uno slogan liberatorio, dopo un mese ti accorgevi della tua impotenza, perché chi parlava erano le armi e lo Stato.
Il ritorno a quelle pagine storiche ha un effetto diverso sulle diverse fasce d’età?
I miei coetanei, quelli che hanno vissuto quel periodo, si ritrovano in molte cose. L’hanno visto alcune persone di Autonomia Operaia: non erano d’accordo su certe mie prese di posizione, ma si sono riconosciute nel clima. L’ho fatto per un gruppo di giovani ventenni, e per loro l’atmosfera di quel periodo è inimmaginabile.
Perché hai scelto i Fori romani per la messa in scena del tuo spettacolo?
Perché è il cuore della città, perché il sequestro Moro mirava al cuore dello Stato. E Corpo di Stato parla della polis, del senso della politica.
Sul caso Moro, sappiamo tutto?
Le verità sono lontane, bisogna ancora cercare. Quale nuova repubblica si può costruire se questi morti – Moro, le vittime del terrorismo, ma anche le vittime delle stragi, Rostagno… – resteranno senza verità?
In questo sforzo di memoria collettiva la narrazione offre uno strumento privilegiato.
Nel finale dico che un tempo le città venivano edificate sui corpi degli antenati, perché davano nutrimento alle mura. Ma era necessario che la storia di quelli che venivano sepolti venisse narrata per intero. Quando racconto gli ultimi istanti di Moro, l’esecuzione nel garage, monto in parallelo gli ultimi istanti di vita di Peppino Impastato, un compagno di Democrazia proletaria ucciso quello stesso giorno dalla mafia. Del primo abbiamo immagini che ci sono rimaste scolpite nella memoria, dell’altro nessuno sa nulla. Peppino era uno della mia generazione che non aveva deciso di prendere le armi ma era andato a combattere in Sicilia, come Rostagno, ed è finito così.
E’ cambiata la tua idea di Moro, nel corso dell’allestimento dello spettacolo?
Il mio giudizio sull’uomo politico non è cambiato, penso che sia responsabile di una serie di disastri politici. Ma è cambiato il mio rapporto con l’essere umano in quanto tale. E’ veramente incredibile: probabilmente se avessero ucciso Moro nel momento in cui lo prendevano, sarebbe stato uno dei tanti. E davanti a quei “tanti” uccisi in precedenza dalle Br, anche se non trovavo giustificazioni per la loro uccisione ed ero contrario a quelle esecuzioni a sangue freddo, sulle scale di casa, poi non mi mobilitavo in termini politici per fare qualcosa. Lo stillicidio di quei 55 giorni, le lettere, accorgersi che tutti facevano in modo che crepasse lì, il meccanismo della prigionia, vedere una persona di tale importanza ridotta in canottiera, mal rasato, umiliato: da figura politica Moro è diventato corpo. Si è generato un soprassalto, che ha portato a una spaccatura verticale all’interno del movimento. “Quello è un uomo come noi”. Moro è stato come un capro espiatorio che ha fatto sì che il rapporto di molti di noi con la violenza cambiasse di segno.
E’ questo soprassalto che segna l’inizio della fine delle Br, subito dopo la loro azione più spettacolare?
Ne sono convinto. Dopo Moro, le Br ammazzano il fratello di Peci, dal terrorismo si passa al terrore.