Francamente ne ho piene le palle della martirizzazione di un soldato del controllo sociale quale fu Aldo Moro. Più passa il tempo, più misuro la crescita del maritriologio di cui questo democristiano, protagonista dei peggiori crimini sottaciuti dell’età repubblicana, viene fatto oggetto. Che i suoi crimini non siano ritenuti tali, è una contingenza che fa molto comodo alla classe regnante. Che i suoi supposti meriti vengano esaltati, altrettanto. Il suo merito è una passività totale e fortunosa di fronte alla morte che non si procurò eroicamente e davanti alla quale evocò il peggio del repertorio assicurativo del bagaglio borghese (la famiglia, lo struggimento, l’astio tremolante verso i compagni di colpa). Il suo catatonico contributo alla coscienza civile non fu certo versato durante gli ingloriosi anni di una carriera che avrà devastanti conseguenze karmiche sul suo futuro destino, bensì fu architettato a conferma dell’ovvio: l’esistenza del sistema imperialista, che faceva perno su multinazionali e intelligence. Nulla di sconvolgente nel suo memoriale, a parte qualche ovvia chiamata in correo. Il coraggio gli mancò anche all’ultimo. Ebbe il pregio di essere vittima di Kissinger. Nessun italiano privo di senno borghese desidererebbe per sé l’equivalente nazionale del JFK americano: invece no, cercano di appiccicarci addosso questo che è un relitto antropico, non un mito collettivo. E’ un simbolo inerte: dello schifo a cui hanno tentato di confinarci personaggi ambigui, tra cui Moro in primis.
Può apparire sgradevolmente violenta questa posizione (che è del tutto personale), però non si tratta di un’evocazione storiograficamente scorretta. Perché nella celebrazione si cancella questo: la storia. Così come gli Stati Uniti hanno imbambolato il mondo con l’icona fluorescente e la messa in piega positiva di un figlio di puttana come John Fitzgerald Kennedy: uno stronzo che rischiò lo scatenamento della terza guerra mondiale (andatevi a leggere le cronache reali di quei favolosi thirteen days), che ammazzò concittadini e cubani nell’incredibile approssimazione dell’operazione dell’invasione Cia (leggetevi Ellroy, per questo), che studiò il programma spaziale come mossa di spettacolarizzazione militare, che diede impulso alla sperimentazione bellica nucleare, che diede l’abbrivio al Viet Nam (leggetevi Alla corte di re Artù. Il mito Kennedy di Noam Chomsky). Scatta la lacrima per il lacerto di cranio bianco che, fulmineo, lubrifica il cofano della Cadillac presidenziale, nel momento più patinato della leadership, con l’allucinante consorte vestita marionettistica e borotalcata a cui viene in mente di ricomporre il puzzle cerebrale in diretta video? Non importa. Essere tiranni, essere protagonisti della tirannia verso cui scivola il “sistema democratico” occidentale (deriva non inevitabile: misureremo nei prossimi anni la nostra risposta a questo colpo di stato planetario) comporta dei rischi, come gli stessi americani ci hanno comunicato nel caso di Saddam Hussein, durante l’upload a 2.0 della loro guerra nel Golfo.
Moro dista miliardi di miglia spirituali dalle efferatezze non tanto segrete di JFK. Non ha determinato un impatto così disastroso sul Paese. Era semplicemente uno dei commilitoni del controllo di massa che uno Stato reazionario, a sua volta controllato proprio da JFK e dai suoi scherani, tentava di imporre su una collettività. La specchiata modestia di quest’iguana umana appare intatta nei suoi appunti dal carcere: carcere a cui costrinse gran parte dei suoi connazionali, i quali non erano d’accordo circa le politiche di controllo che lo scetticismo cautissimo di Moro, insieme all’isteria tenuta a freno di Cossiga, perseguiva con ambiguità dialettica devastante. La sua, come già Pier Paolo Pasolini notò, era la lingua della cattiva ambiguità: quella nebula semantica con cui il Potere ammanta i suoi atti di controllo, le sue violente scelleratezze, le sue burocrazie sanguinarie. Quanti morti per ogni tratto delle “convergenze parallele” invocate da Moro? Quanta demolizione della comunità nazionale, a ogni cerebrale perforazione compiuta sui territori del nonsenso?
Non basterebbe questo a formulare una condanna morale, evidentemente. Dobbiamo disporre di atti giudiziari, a quanto pare, per esprimere una censura della memoria rispetto a questo scadente Corpo di Stato. Beh, gli atti giudiziari ci sono: basta andarli a leggere. Anzi, la situazione è un po’ peggiore: bisogna ricordarsi di certi fatti e andare a leggere certe carte. E’ chiaro che non è opera cognitivamente plausibile ricordare qualcosa che non si sa esistere: è precisamente questa l’ambiguità che sprigiona la “lingua ambigua” in cui parlava la bambola del potere Aldo Moro. E bisognerebbe proprio andare a spulciare le carte del processo Rovelli (Imi-Sir è d’attualità anche oggi) e dello scandalo Italcasse, per comprendere fino a che punto fosse Moro compartecipe di una scandalosa operazione politico-finanziaria. Oppure risalire ai fatti del ’64, quando Moro è Presidente del Consiglio e viene alla luce il complotto SIFAR-De Lorenzo: per citare filologicamente il secondo comunicato BR, “Moro affosserà il tutto e ricompenserà con una valanga di omissis” gli autori del tentato colpo di Stato. Altre chicche su cui tornare a indagare: lo scandalo dell’importazione delle banane dallo Zambia, altra ondata criminogena e tangentara di cui fu indicato, quale unico responsabile, l’allora giovane sottosegretario Mino Martinazzoli, moroteo. E poi: sicuri che tutto sia stato scoperto e/o detto del caso Lockeed?
Non si tratta, ovviamente, di giustificare quanto gli acutissimi “compagni” bierrini combinarono: atto che è tacciabile di disumanità e cecità strategica, a seconda dei gradi di cinismo di cui si è dotati. La morte di Moro è un delitto: e bisogna condannare il delitto. La morte di Moro non è un caso: sappiamo bene chi, come e perché agì in maniera tanto efferata. Ciò che qui si sostiene è altro: la morte di Moro non assurge a tragedia classica piombata nella contemporaneità. Questa è una manovrina spettacolare da censurare: è il solito utilizzo che la fiction di potere fa della retorica letteraria. La tragedia pone uomo e collettività nello spazio assoluto della mortalità. Moro non evoca il male e non irradia il bene che, nell’assolutismo della storia umana, determinano il riconoscimento della tragedia. L’affare Moro ha più a che fare con la cronaca che con la storia. Moro fu una mezza tacca del potere: un potere depotenziato, un regime notarile che si limitava a eseguire le indicazioni e gli ordini del potere autentico – potere che non stava in Italia.
Che la Democrazia Cristiana fosse invisa agli Stati Uniti e pur tuttavia scelta quale sodale geopolitico – beh, questa è una banalità di base che non scandalizza nessuno. Comprendere la storia dell’attacco anglosassone al Vaticano (e viceversa) costituirà in futuro una chiave fondamentale per una lettura storiografica del Novecento occidentale. Detto questo, stiamo lontani dall’icona costruita sul sangue, a tavolino. Che è esattamente ciò che si sta facendo, da venticinque anni, a scapito delle spoglie di una persona: Aldo Moro. La cui dignità umana è molto inferiore a quella di me, dei miei parenti, dei miei amici e dei miei concittadini – tutta gente che, come lo stesso Moro per altri motivi, non merita l’affonto di una memoria falsa, condizionante ed eretta con malizia incivile.
Tutto ciò che possiamo indurre dall’affaire Moro è una vicenda di ordinaria e novecentesca ambiguità: l’ambiguità banale che amministra la vita, l’immaginario e l’opera degli impiegati del Potere.
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