Ci sono molte prospettive che permettono di scrutare, dall’esterno e dall’interno, la formidabile pièce di Valeria Parrella recentemente uscita per i tipi Bompiani, Il verdetto (€ 11). La più sbagliata delle prospettive, e al tempo stesso – come cercherò di spiegare – anche la più corretta, è ravvisarne un interludio tra una pregressa e molto celebrata produzione di racconti e il romanzo breve che sta per uscire da Einaudi, Lo spazio bianco. La prospettiva centrale, invece, è quella che permette di restare dentro il testo, in sé e per sé, sacavando in esso e osservando le potenzialità della scrittura di Parrella, che qui esce dalla semplice letteratura per aggredire l’azione extratestuale, con un lavoro che va recitato. La prospettiva centrale è quella che vede Il verdetto semplicemente per quanto è: una tragedia. In tempi di volatilizzazione della percezione del tragico, Parrella allestisce una tragedia aggiornando alcuni nuclei fondanti dell’Orestea. E’ un lavoro che va a braccetto col tentativo, ormai collettivo, di ripristinare moduli epici nella narrativa di casa nostra. Però fare la tragedia, oggi, appare ancora più complesso che scrivere epica, utilizzando il genere storico e compiendo su di esso un lavoro di necessaria trasformazione.
Come detto, quella di Parrella è una pièce teatrale. Ciò significa che una parte di quanto è scritto esorbita dal libro, deve farsi recitazione, azione, parola detta e gestuale e cantata. Lungi dall’essere una dichiarazione di impotenza testuale, Il verdetto è invece un testo che, messo in scena, schiaccia letteralmente l’interpretazione, non prevede la possibilità di evadere dalla severissima programmazione tragica che Parrella ha conferito, con un impulso potente e del tutto naturale, al suo monologo intervallato da dialoghi fantasmagorici. Gli attori e il regista non vivono sotto la spada di Damocle del testo: la spada di Damocle cala e taglia loro le teste. La regia, organizzata da Martone, e le pur splendide interpretazioni non resistono alla forza centrifuga di una scrittura che non corrisponderebbe alle attese di chi ha letto i racconti di Parrella come non andavano letti: essi stessi erano tragedie ed erano monologhi. La voce di Valeria Parrella dà prova di una onnipotenza tendente all’assolutismo testuale, di una versatilità che è destinata a segnare il suo futuro di scrittrice, di una capacità di elaborazione teorica che è complessa e profonda, capace di sfidare lo spazio della parola orale con lo strumento veritativo della parola scritta (con i suoi ritmi varianti, con le sue contrazioni, con la sua capacità aforismatica, gnomica, quasi miracolosamente orfica nel contesto laico in cui la tragedia è rivisitata).
L’aggiornamento di questa tragica Clitemnestra è tutto napoletano, ed è camorristico: la protagonista è la moglie del boss Agamennone, perde nella guerra tra clan la figlia Ifigenia, viene tradita dal marito e lo tradisce per automatismo, fino all’inevitabile conclusione, che non è il nucleo del tragico: l’uccisione di Agamennone, al ritorno dall’esilio, la Troia calabrese che lo ha protetto e dove ha messo incinta la figlia di chi lo proteggeva, Cassandra.
Tutto ciò potrebbe apparire sociologico, ma non è così: la stessa Wolfe, nei suoi rifacimenti tragici è capace di attualizzare (rispetto, per esempio, alla minaccia atomica) senza sociologizzare – e così Parrella riesce a fare di Napoli un luogo mitico e reale al tempo stesso, sfondo via via malinconico e violento, ma comunque vissuto e perciò vivibile. A salvare dalla tentazione di sociologizzare è da un lato la lingua della scrittrice, che fa emergere l’implicito che già correva, neppure tanto carsicamente, nei suoi racconti; e dall’altro lo spostamento del nucleo tragico: consapevolissima della difficoltà di posizionare il tragico in epoca contemporanea, Parrella lo sposta nell’apparizione del fantasma di Agamennone, che continua ad amare e a essere amato. Il tragico non ha nulla a che vedere con l’emotivo e chi, leggendosi la Poetica di Aristotele, ha pensato che le “passioni” avessero in quel contesto una valenza emotiva è fuori strada.
Il tragico è il vuoto inesplicabile.
L’emotivo è finzionale nella contemporaneità.
L’amore è Perugina.
La rappresentazione dell’amore è impedita da un rumore di fondo che ad arte crea confusione condizionante e alienativa, causando una prassi finzionale, creduta per vera, di un dramma e di una gioia della cui espressione autentica non si dispone più. Il tragico è impedito dalla Nervenleben, la “vita dei nervi sotto continua sollecitazione” teorizzata da Simmel nella sua meditazione sull’esistenza nelle metropoli. Profezia avverata: amore ormai è in letteratura Moccia, al cinema è Muccino, nelle pubblicità è quel che è, al Grande Fratello pure. La strategia di Parrella, se non sovrainterpreto, è invece quella di rendere tragico proprio l’amore, inscenandolo oltre la morte ma ancora dentro la vita, con una capacità di variazione che lascia allibiti: dall’uso dell’ultima fase della tradizione della canzone napoletana, fino all’enunciazione – tutta da interpretare alla luce di una metafisica personalissima di Parrella – con cui Clitemnestra apre e chiude fulmineamente la tragedia:
“Io amavo Agamennone e se non era mio non poteva Essere.”
Ecco: il tragico è fatto. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di storia, esattamente come nella tragedia classica, dove in effetti non c’era bisogno di plot – chiunque conosceva la storia del mito.
L’amore diviene il tragico. Poiché è inesprimibile, oggi, questa appartenenza assoluta tra due umani, essa diviene il tragico. Mi pare un’acquisizione fondamentale, di cui il romanzo deve ancora dimostrare di essere capace (il tentativo di Scurati, in Una storia romantica, va nella medesima direzione). Questo amore che convoca l’Essere con la “E” maiuscola è altamente ambiguo: di quale amore e di quale Essere si tratta? Questo tragico che coincide con l’amore provoca struggimento, vendetta, impazzimento delle arterie e delle sinapsi, lacerazioni ventrali, scorrimento di sangue. E’ un amore che travalica la vita (qui è, senza tanti dubbi, davvero geniale l’uso del genere gotico, alla James, che Parrella impiega per creare l’interruzione e l’interazione nel monologo, attraverso la comparsa sorprendente di Agamennone in scena).
Ciò che non è di questo mondo è di questo mondo: il protocollo tragico viene ristabilito.
L’ineffabilità dell’amore richiede un verdetto, il giudizio per una colpa che non può essere una colpa: e infatti Clitemnestra chiude così, davanti alla corte che dovrebbe emettere questa decisiva ma impossibile sentenza:
In qualunque vita si aprono e chiudono porte continuamente. Gli uomini hanno trovato molti modi per chiamare quelle che restano socchiuse: memoria, rimpianto, nostalgia. Ma hanno potuto nominarle e quindi, ecco: hanno trovato un luogo, una sistemazione. Il “ricordo”, signori della corte, nelle vite normali appartiene al passato. Nessuno soffre il ricordo del presente e del futuro, come questo, questo che mi si agita intorno, per cui nessun nome va bene perché continua ad esistere almeno quanto me, Clitemnestra. E ora che vi ho chiarito l’equivoco aspetto il verdetto.
I tempi si mischiano, alla faccia di quello che i cattivi scoliasti aristotelici hanno compreso dell’unità di tempo e di luogo. Il tragico è l’annullamento del tempo, per l’intervento di una necessità tutta umana, avvertita come extraumana, che è ciò che fonda il tempo e si tramuta in destino, agli occhi miopi dell’umano.
C’è però differenza tra gli occhi miopi e il ventre: quello di Clitemnestra e quello di Parrella. Va considerata la visceralità non soltanto viscerale di quanto viene scritto: Il verdetto è un luogo del sentire e del pensiero allo stesso tempo. Le meditazioni di Clitemnestra sono sovrabbondanti e la scrittura di Parrella assume una postura spesso dittiva che più si adatterebbe alla serie delle Lamine Orfiche che a un pezzo teatrale (il che, ancora, è una verità poco vista della tragedia classica). Se prima Parrella mi ricordava la Kristof de La vendetta, qui incomincio ad avvertire che la rabbia esce, investe la metrica, si ripiega in un’autoconsapevolezza muta. Se vedo bene nella scrittura di Valeria Parrella, e se penso a una piena autointercettazione della scrittrice rispetto al proprio fondo oscuro, posso azzardare l’ipotesi che ciò che l’autrice napoletana avverte come impulso creativo, che viene mediato da una sapienza teorica altissima, non è un semplice impulso: è una rabbia violenta che sta a priori e che lascerebbe allibita la stessa scrittrice se vedesse a quali conseguenze letterarie potrebbe condurla.
In questo senso, la prospettiva iniziale che dicevo essere la più deviante è in fin dei conti la più corretta: Il verdetto è una tappa che Parrella, per impulso creativo, allinea alla sua produzione già estremamente eclettica (il contrario di quanto la critica giornalistica asseriva), indicando un destino che include variazioni ulteriori, non prevedibili, e che per personale scommessa sono portato a sostenere che costituiranno l’uscita della sua letteratura da ogni genere e l’approdo, nemmeno psichico ma più che psichico, a se stessa, prima della scaturigine di ogni desiderio, al quale del tutto gratuitamente (cioè tragicamente) il mondo si oppone, imponendo nell’umano la rabbia.
La scrittrice più tragica d’Italia è destinata a mio parere a entrare nel buco nero del tragico e a starci, in forme che ci sorprenderanno.