di Luca Baiada
«Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”. / Vecchi e ragazzi, donne e bambini, / barbaramente fecen morì. / Teniamo in mente tutti / quell’accaduto atroce / ci hanno pieno di lutti / spregiando anche la croce…». Sono le parole di una ballata popolare, è vano cercarne l’autore. Un barrocciaio di Larciano, dicono, forse della Colonna di San Rocco: uno che cantava e poetava guidando il carretto, al tempo in cui brillavano le lucciole e non gli schermi elettronici. Magari stava a cassetta su uno di quei lenti carri che percorrevano la Toscana coperti da una piramide di fiaschi. Ma forse non era lui, forse la ballata è nata da sé, fra i contadini e i cacciatori del Padule di Fucecchio.
Davvero, eran tutti innocenti, il 23 agosto 1944, quando i tedeschi, accompagnati da fascisti italiani, massacrarono 174 persone, compresi bambini piccolissimi. E innocenti non vuol dire ignavi. La questione dell’innocenza tornerà, si ripresenterà ogni volta che il tema sarà affrontato, dura e aguzza come una pietra. In realtà, fra i caduti c’erano un paio di partigiani, c’era una persona in contatto con gli Alleati, ce n’erano altre che aiutavano la Resistenza. Insieme morirono anche fascisti, di quelli senza importanza nell’apparato repubblichino, presi a caso. E poi c’erano tutti quelli che avevano disertato: militari, un poliziotto, un carabiniere, persone che la guerra aveva sospinto nelle sacche del conflitto, dove le ombre rendevano oscura la differenza fra militanza non armata e attendismo, ma dove per i tedeschi che occupavano l’Italia anche la non collaborazione coi burattini di Salò significava ostacolo e sabotaggio.
Su queste categorie, col loro portato di ambiguità e con le loro conseguenze storiche, giuridiche, morali, si giocheranno distinguo che non hanno mai smesso di produrre perplessità e frizioni. Se i morti sono combattenti, si rischia di giustificare la strage, di confonderla nel ribollire del sangue e della guerra. Se invece sono spettatori di un conflitto in cui non hanno preso posizione, il loro rifiuto di impegnarsi per Hitler e Mussolini, un rifiuto che per molti fu privo di connotazione partitica, e ricco invece di senno, di onestà, di bisogno di pace e lavoro dopo anni di dittatura, viene dimenticato: così, l’arma invisibile che impugnarono in un passaggio cruciale della storia del Novecento viene strappata dalle loro mani, condannandoli a sembrare imbelli, contro la loro volontà.
Qual è dunque la lettura giusta dei fatti? Le parole di una vecchia ballata aggirano il dilemma vittima–caduto, mettono da parte la scelta angusta fra innocenti e militanti, e rovesciano l’accusa di brigantaggio sui tedeschi: i malviventi, i Banditen sono loro. I morti, dice il barrocciaio, erano innocenti, eppure quell’accusa insistente – alle Partisanen, parole che echeggiarono sin da quel terribile 23 agosto a Fucecchio, come in altre zone di rastrellamenti e massacri nell’Italia occupata – non viene né smentita né ammessa. Ci sarebbe da congratularsi, con l’anonimo compositore, per il modo intelligente in cui affronta il tema, ma appunto non sappiamo neppure il suo nome. Conosciamo quello di Liduino Tofanelli, padulino tenace e appassionato – passionista, si dice in Valdinievole – che tanti anni fa mandò a memoria la gagliarda ballata, e quello dello storico Marco Folin, che la raccolse per iscritto negli anni Novanta. Ma l’autore, vai a cercarlo: vaga è la vita di un barrocciaio, oggi qui, domani là.
Il percorso tortuoso con cui la memoria – su questa e su altre stragi – si è avvitata e imbrigliata nelle suddivisioni e nelle regole vere o immaginarie, costituisce in fondo una deviazione, torva e rassegnata, verso la pretesa di mettere ordine, e verso una caduta di autostima, quindi verso una resa morale e un’accettazione della violenza. Si comincia a perdere quando si vuole essere impeccabili, e questo è un tranello con cui ogni vittima deve fare i conti. Ed ecco le leggende sugli avvisi di sfollamento e sulle delimitazioni delle aree vicine al fronte, ecco i miti sugli antefatti, sulle cause del massacro: la disinvoltura di una donna, l’uccisione di un tedesco, il furto di armi. Ecco la regola immaginaria dieci italiani per un tedesco, ecco il fantasma della rappresaglia. Insomma, tutti gli arnesi dell’autocolpevolizzazione e del giustificazionismo, che insidiosamente, tenacemente, nel corso dei decenni hanno finito per far accettare il sangue e l’impunità degli assassini.
Eppure era tutto così chiaro. La Valdinievole occupata, Pisa ancora sotto il fronte, a Firenze il centro liberato ma la periferia ancora in mano tedesca, la Linea gotica fortificata ma gli Alleati sempre più vicini. In quel tratto del Valdarno, il lato sinistro del fiume era già liberato, mentre sul lato destro c’era la 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, col generale Peter Eduard Crasemann. Dall’alba al pomeriggio del 23 agosto 1944, i tedeschi e alcuni fascisti girarono intorno al Padule di Fucecchio, la palude interna più vasta d’Italia, uccidendo soprattutto lungo i margini settentrionali e orientali. Non entrarono negli acquitrini, per non incontrare la formazione Silvano Fedi, e in questo modo dimostrarono come la distinzione fra partigiani e italiani fosse un imbroglio morale, una carta truccata: quando si trattava di uccidere, ogni italiano era un partigiano, anche se aveva quattro mesi come Maria Malucchi, però quando si trattava di combattere la differenza era chiara.
La limpidezza dei fatti è stata intorbidata da cattiva memoria, ancor più dall’incompleta realizzazione della democrazia in Italia, e in fondo da quella crisi dell’autostima che pesa sulle conquiste italiane dal Risorgimento a tutto il Novecento. Così, mentre la strage di Fucecchio supera anche il settantesimo anniversario, la mancata giustizia si continua a sentire. Pochi processi a ufficiali tedeschi, celebrati negli anni Quaranta, ma già all’inizio degli anni Cinquanta non ce n’è più neanche uno in carcere. Poi tutto a Roma, nell’armadio della vergogna, e infine un processo nel 2010-2012, con altri due militari condannati e mai estradati dalla Germania. I danni, mai risarciti. Lo Stato tedesco in un primo momento condannato a pagare, con acconti per quasi quindici milioni di euro, poi anche quel capo della condanna è stato revocato, dopo una pronuncia della Corte internazionale dell’Aia. La Germania si era rivolta all’Aia sin dal 2008 per non risarcire, e per offrire invece parole, parole, tante parole di riconciliazione, di perdono, e limitarsi a finanziare con poca spesa qualche iniziativa memoriale.
Sul piano penale, di recente c’è stata una novità, di quelle prevedibili: ad aprile 2015 un’autorità giudiziaria, in Baviera, ha negato l’esecuzione nei confronti del condannato ancora in vita, Johann Robert Riss. Su quello civile, però, c’è una bella pagina aperta: il Tribunale di Firenze, in processi civili contro la Germania, per altri casi di uccisione e deportazione, si è rivolto alla Corte costituzionale, che a ottobre 2014 ha fatto piazza pulita della decisione della Corte dell’Aia, e ha riaperto la strada alla possibilità di condannare lo Stato tedesco: «[Si deve] escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini». Forte di questa pronuncia, a luglio 2015 lo stesso Tribunale di Firenze ha nuovamente condannato la Germania per due casi di deportazione; c’è chi si domanda se sulla base di questi principi anche i superstiti, o i familiari delle vittime di Fucecchio, potrebbero tentare nuove strade. Che la Germania faccia di tutto per non pagare è ovvio, ma perché gli italiani dovrebbero rassegnarsi?
Chissà cosa direbbe il barrocciaio, quello della ballata, di fronte a tutto questo, lui che aveva attraversato la guerra, i bombardamenti e le stragi. Possiamo immaginarlo con uno di quei visi arguti, alla Yves Montand, attore originario della Valdinievole e costretto a crescere in Francia per sfuggire alla persecuzione fascista contro la sua famiglia. Eccolo, guarda un po’! Si avvia col suo carro, rinsaccato in una giacchetta di fustagno, un berretto calcato sugli occhi e un cane smilzo, è proprio Ivo Livi cresciuto a Marsiglia, ma canta in italiano: «Popolo se mi ascolti / ti spiego la tragedia, / il 23 d’agosto / l’orribile commedia. / A raccontarla mi proverò / non so se in fondo ci arriverò…».