di Gioacchino Toni
Jürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00
Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un trentennio cruciale della sua storia, periodo in cui il paese si trova a fare i conti con tante contraddizioni interne, tra queste il suo doversi confrontare tanto con quel passato nazista difficile da metabolizzare, quanto con una nuova Germania che, restia a cambiare davvero nel profondo, viene attraversata da una cruenta stagione di conflittualità. L’intrecciarsi di tutti questi fattori rendono questa biografia di Fassbinder una storia che, pur nella sua parzialità, racconta un trentennio cruciale della vita della Repubblica federale tedesca prima che questa si indirizzi, nel decennio successivo, verso la riunificazione.
Il rapporto tra Fassbinder ed il cinema ha un inizio tormentato, visto che gli viene rifiutato l’accesso ai corsi cinematografici sia per le carenze tecniche dimostrate nell’uso della macchina da presa che, secondo l’autore della biografia, per la scarsa politicizzazione delle prove presentate, “premessa indispensabile per tutti i candidati e all’epoca, in un’istituzione come quella, l’orientamento doveva essere dichiaratamente di sinistra e ostile all’establishment della Repubblica Federale Tedesca”. La politica in senso stretto e diretto non è tra gli interessi del giovane regista, tanto che, a differenza di diversi coetanei, quando finisce nei guai con la giustizia non è a causa della militanza. Il testo riporta un aneddoto emblematico di come il cineasta tedesco e le vicende politiche di piazza si intreccino: nel 1968, in pieno Maggio francese, proprio a Parigi, il regista viene arrestato e rinchiuso in carcere per cinque settimane. In Germania il fatto desta scalpore e tende ad essere ricondotto ad una sua supposta presenza sulle barricate mentre, in realtà, l’arresto è dovuto ad una retata in una sauna gay irregolare. L’omosessualità di Fassbinder, come quella di tanti altri, è costretta a fare i conti con un clima culturale ed una legislazione che in Germania, come in altri paesi europei, appare estremamente retrograda. Soltanto nel 1969, in Germania, si danno alcune modifiche di legge che cancellano l’onta dell’illegalità per gli omosessuali consentendo così, in tutto il paese, la proliferazione di locali aperti alla comunità gay.
L’impressione di un artista egocentrico e disinteressato ad interagire con le vicende che gli stanno attorno, si sviluppa anche a causa di un atteggiamento che il regista, all’inizio della carriera, manifesta negli incontri con la stampa, quando ama mostrarsi del tutto indifferente all’opinione pubblica. Per certi versi il suo presentarsi come giovane ribelle anticonformista diviene una sorta di maschera indossata al fine di celare una certa timidezza. Soltanto negli anni in cui il successo gli conferisce maggior sicurezza, il regista inizia a mostrarsi più disponibile nei confronti dei media, evitando di mettere in scena sempre e comunque il ruolo del ribelle indifferente.
Trimborn ricostruisce egregiamente come l’idea di Fassbinder di dar vita ad una sorta di comune creativa, un luogo in cui vivere e lavorare con persone di idee affini, si scontri con una personalità che appare sì smaniosa di vivere in maniera comunitaria ma, come sul lavoro, si dimostra poco propensa ad interagire realmente con gli altri. Per certi versi emerge il ritratto di un uomo che, sfruttando la sua forte personalità ed il fascino esercitato sugli altri, sembra più ambire a circondarsi di una corte adorante da plasmare a piacimento che non a confrontarsi realmente con gli altri. A tal proposito, nella biografia si trovano diversi aneddoti che narrano, ad esempio, del piacere provato dal regista nel dimostrare ad amici e collaboratori il potere incondizionato esercitato nei confronti di alcuni di essi, atteggiamenti che mal si confanno proprio a colui che ama sottolineare come il tema centrale dei suoi film abbia a che fare con lo “sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo”. Nel corso della lettura del libro, appare evidente come non ci si trovi di fronte ad una biografia di santificazione dell’uomo Fassbinder; occorre rendere merito all’autore di aver ricostruito un personaggio a tutto tondo, decisamente contraddittorio, in cui convivono spinte estremamente libertarie ed anticonvenzionali e condotte a tratti ciniche, egocentriche ed autoritarie. Nel testo viene testimoniato anche uno spiccato interesse per il denaro ed il lusso ostentato del quale, dopo i primi successi cinematografici, pare non riuscire a fare a meno. Per certi versi si può dire che il “nemico numero uno” della mentalità borghese si rivela così spietato nell’attaccare il nemico perché, tutto sommato, lo conosce bene, proviene dalle sue fila e, di certi suoi aspetti, probabilmente, non è risuscito, non ha potuto, o non ha voluto, liberarsi del tutto.
Gli insuccessi nei corsi di cinema spingono Fassbinder verso il teatro anche se l’approccio con cui lo affronta è decisamente cinematografico; è lì che vuole arrivare ed il teatro rappresenta una sorta di prova generale. Il rapporto tra l’iniziale produzione teatrale e quella, successiva, cinematografica risulta fecondo, tanto che lo stesso regista, dopo aver operato in entrambi gli ambiti, ha modo di affermare di aver messo in scena il teatro come se si trattasse di cinema e di aver girato film come se si fosse trattato di teatro. Nel testo viene passata in rassegna, nel dettaglio, l’intera produzione teatrale di Fassbinder a partire dal 1967, anno in cui avviene l’importante incontro con il gruppo dell’Action-Theater di Monaco, collettivo fortemente influenzato dall’esperienza del Living Theatre americano. Ad interessare Fassbinder è più la modalità innovativa di fare teatro che non l’intervento politico esplicito dell’Action-Theater. Le tematiche affrontate dal regista, una volta ottenuta la direzione, si concentrano sulle questioni della diversità, sulla difficoltà di comunicare, di intrecciare rapporti sinceri e sulla mentalità retrograda piccolo borghese. Anche quando decide di attuare un teatro più politico, il regista opta per farlo attraverso la messa in discussione della cultura dominante.
Katzelmacher (tr. appros. Terrone), la sua prima opera teatrale, è la storia dell’ostilità di un gruppo di giovani di un villaggio bavarese nei confronti di un lavoratore straniero greco da poco arrivato. L’opera è contraddistinta da una narrazione asciutta, uno stile minimalista e dialoghi brevi e concisi.
Le vicende di Fassbinder narrate dalla biografia, si intrecciano con gli eventi che scuotono il paese alla fine degli anni ’60, quando si susseguono azioni di protesta da parte degli attivisti contro il gruppo editoriale Springer, i cui giornali sono visti come i principali responsabili del clima repressivo. Anche l’Action-Theater, con i suoi spettacoli, partecipa alla campagna contro la stampa di Springer. Fassbinder, però, tende a prestare poco credito alle possibilità del teatro di influire sulla vita politica del paese. In ogni modo, l’obiettivo da perseguire, secondo Fassbinder, diviene quello di “creare disagio nelle strutture della borghesia”. Questo è il modo con cui il regista intende far politica.
Le discrepanze con alcuni dei fondatori dell’Action-Theater, portano la compagnia a trasformarsi adottando il nome di “antiteater”, scritto con lettere minuscole e senza la “h”. Gli scandali iniziano ad accompagnare ad ogni passo l’attività del gruppo teatrale. Ad esempio, quando viene messa in scena, nel 1968, la pièce Orgia Ubu, in cui si narra di una festa in un ambiente piccolo borghese che termina con un’orgia di gruppo, nel momento in cui gli attori iniziano a denudarsi sul coro dei prigionieri del Nabucco di Verdi, il direttore del locale interrompe lo spettacolo.
Nel 1971, è la volta della messa in scena di Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto), ove un personaggio proveniente da qualche lontano pianeta, viene inviato sulla terra per indagare le modalità con cui gli esseri umani comunicano tra loro. Così Fassbinder presenta lo spettacolo: “La pièce ci mostra che in questo sistema, per come la vedo io, tutto porta all’oppressione. Questo meccanismo s’innesca subito, non appena le persone cercano di comunicare tra loro”. Durante il breve periodo, nei primi anni ’70, in cui ha la direzione del Theater am Turm di Francoforte, Fassbinder scrive una pièce intitolata Der Müll, die Stadt und der Tod (I rifiuti, la città e la morte) in cui vengono messi in scena degli antisemiti ed un imprenditore edile ebreo provvisto di tutti i classici cliché. Tale opera suscita una marea di proteste e la pesante accusa di antisemitismo.
Intrecciandosi con le vicende di Fassbinder, nel testo viene anche ricostruito il rinnovamento del cinema tedesco a partire dai primi anni ’60, quando la produzione tradizionale viene messa sotto accusa da diversi giovani registi. Nel 1962, ventisei registi, capitanati da Alexander Kluge, firmano il Manifesto di Oberhausen: l’obiettivo è contrastare tanto il cinema tedesco del dopoguerra, giudicato superato e reazionario, quanto lo strapotere dell’industria cinematografica hollywoodiana che, dal 1945, opprime le cinematografie nazionali dei paesi europei. I riferimenti propositivi guardano al Free Cinema inglese ed alla Nouvelle Vague francese. Il nuovo cinema tedesco intendere nascere libero dai condizionamenti culturali del mercato e dai finanziamenti dei tradizionali studios tedeschi. L’ambizione è quella di evitare il film d’evasione in favore, piuttosto, di opere in grado di confrontarsi con la realtà e con il tragico passato nazionalsocialista. Nel testo è sottolineato come, con la fine della guerra, in Germania, così come in altri ambiti della vita del paese, anche a livello cinematografico, non si ha una vera e propria rottura con il periodo nazionalsocialista: persone, strutture e contenuti restano i medesimi e buona parte del mondo del cinema ha lavorato nella macchina propagandistica di Goebbels. Nemmeno dal punto di vista formale c’è una vera e propria rottura, “l’estetica di Goebbels”, ancora negli anni ’50, resta alla base del cinema tedesco occidentale, così come contenuti, personaggi, divi e filoni restano saldamente permeati dal retaggio nazionalsocialista. Nata nel 1965, la Commissione del giovane cinema tedesco, grazie al sostegno economico statale, finanzia diversi film di giovani autori della seconda generazione del movimento. Nonostante i riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali, questi film non riescono a conseguire successo nelle sale tedesche, restano un fenomeno di nicchia, per una cerchia ristretta di intellettuali. Nel corso degli anni ’60 le sale cinematografiche tedesche sono in grave crisi anche a causa della televisione e, ben presto, le collaborazioni del cinema con le emittenti televisive, in grado di garantire finanziamenti, diventano indispensabili. La terza generazione del Nuovo cinema tedesco comprende autori come Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders. La capacità di realizzare film low budget, mostrata da Fassbinder col suo primo lungometraggio, diviene una delle strade percorribili al fine di produrre film senza sottostare all’industria cinematografica ed alle imposizioni statali.
Nuovamente la politica torna ad intrecciarsi, prepotentemente, con la vita di Fassbinder. Nel 1977 il clima che si respira in Germania diviene sempre più pesante; mentre è in corso il processo alla prima generazione della Raf nel carcere di Stuttgart-Stammheim, il gruppo armato dispiega una serie di azioni volte alla liberazione dei propri compagni prigionieri che culmina con l’uccisione del direttore della Dresdner Bank ed il sequestro del presidente degli industriali. A tali episodi eclatanti segue il dirottamento di un aereo diretto a Francoforte, da parte di un commando palestinese, che si risolve con l’irruzione di un’unità antiterrorismo della polizia federale tedesca che libera gli ostaggi ed uccide i dirottatori. Lo stesso giorno Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, rinchiusi nel carcere di Stammheim, vengono trovati morti. Poco dopo viene fatto rinvenire il cadavere di Hanns Martin Schleyer, ufficiale delle SS durante la guerra, membro dell’Unione Cristiano Democratica e presidente della confindustria tedesca. In seguito a questi fatti, alcuni registi del Nuovo cinema tedesco decidono di realizzare, autofinanziandolo, il film collettivo Deutschland im Herbst (Germania in autunno) al fine di riflettere sul clima che si vive nel paese lacerato dall’interminabile scia di sangue. Dopo le immagini d’apertura sui funerali di Schleyer, il film inizia con l’episodio di Fassbinder che lo vede confrontarsi direttamente sulle questioni di attualità politica in un colloquio con la madre ove si discute dello stato di diritto, del passato nazista e della svolta autoritaria. Il regista, con ragionamenti alquanto contraddittori, nel deplorare l’uso della violenza della Raf, auspica un non meglio precisato intervento energico da parte dello stato ed, al tempo stesso, si dice comprendere le ragioni profonde che hanno portato il gruppo armato ad attaccare il “fascismo latente” presente nella Germania occidentale.
L’anno successivo Fassbinder torna ad occuparsi direttamente della Raf con il film Die dritte Generation (La terza generazione). Relativamente alla terza generazione di militanti della formazione armata, il regista attacca il loro agire perché lo vede privo della benché minima prospettiva. L’intento profondo dell’opera è forse quello di contestualizzare l’uso sconsiderato della violenza da parte dei militanti evidenziando come, secondo il regista, ciò sia determinato dalla società tedesca dell’epoca. Il film viene accolto negativamente tanto dalle istituzioni statali quanto dai militanti di sinistra che, in diverse occasioni, contestano la proiezione dell’opera.
Nel libro viene, ovviamente, passata in rassegna puntualmente anche l’intera produzione audiovisiva del regista individuando nello “sfruttamento dei sentimenti” il filo conduttore di buona parte delle opere. Nella prima parte della produzione cinematografica i personaggi, pur avendo la possibilità di reagire alle situazioni umilianti in cui si trovano a vivere, tendono a non farlo, a restare inerti. Dal punto di vista della scelta poetica, Fassbinder dichiara la propria contrarietà ai film che imitano eccessivamente, soprattutto nei dialoghi, la realtà ed, a tal proposito, nel corso di un’intravista, afferma: “Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa (…) l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria”.
L’itinerario che porta Fassbinder a realizzare audiovisivi inizia, come per molti della sua generazione, dall’interesse per le opere della Nouvelle Vague francese e per le riviste cinematografiche più innovative come “Cahiers du Cinéma” e “Sight and Sound”. Ne 1966 il giovane regista passa finalmente all’azione e gira, a Monaco, il suo primo cortometraggio in Super 8 raccogliendo in maniera avventurosa i fondi necessari a coprire le spese. Preclusa la strada dell’imparare il mestiere facendo assistenza ad un regista esperto, visto che in Germania, all’epoca, non vi sono grandi personalità, e scartata, per ragioni economiche, l’ipotesi di trasferirsi in Francia, paese di maggiori prospettive per un giovane cineasta, a Fassbinder non resta che visionare film a ripetizione. Nel 1966 il regista gira il cortometraggio, Der Stadtstreicher, (t.l. Il vagabondo) opera di una decina di minuti concepita come omaggio a Le signe du lion (Il segno del leone, 1959) di Éric Rohmer. Il secondo cortometraggio arriva poco dopo, nel 1967 gira Das Kleine Chaos (t.l. Il piccolo caos), opera in 35 mm, in cui rende omaggio a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) di Godard. In questo caso inizia a palesarsi la passione per i gangster movies hollywoodiani di cui ama soprattutto White Heat (La furia umana, 1949) di Raoul Walsh. Proprio tale cinematografia americana è alla base della storia poliziesca su cui Fassbinder costruisce il suo primo lungometraggio del 1969, Liebe ist kälter als der Tod (t.l. L’amore è più freddo della morte). L’intenzione è quella di mettere in scena un poliziesco non convenzionale, in grado di mostrare il ruolo delle strutture sociali nella trasformazione delle persone in criminali. Sin da questo primo lungometraggio è presente il tema dell’attrazione omoerotica tra due personaggi. Dal punto di vista narrativo, la mancanza di mezzi tecnici e finanziari, costringe a lunghi piani sequenza, spesso privi di dialogo. Diverse scene, ad inquadratura fissa, si svolgono in ambienti minimali in modo da concentrare l’attenzione sulla mimica e la gestualità degli attori. Le inquadrature sovraesposte, quasi senza ombre, contribuiscono a creare un’atmosfera irreale e claustrofobica. Per la recitazione Fassbinder evita di dare istruzioni precise agli attori, non ama provare a lungo prima di girare e si mostra poco incline alla rielaborazione collegiale delle parti. Molto viene lasciato alla capacità istintiva dell’attore. Tale metodo ha il vantaggio di risultare economico e ben si accorda con le ristrettezze finanziare degli esordi. Le reazioni sia di pubblico che critica sono generalmente negative.
Il secondo film, Katzelmacher, (tr. appros. Terrone) del 1969, riprende l’omonima opera teatrale scritta per l’Action-Theater l’anno precedente. Se il testo teatrale si concentra sulla figura dell’immigrato greco, il film, invece, si sofferma sulle condizioni di vita dei bavaresi che gli sono ostili. La questione delle costrizioni sociali ed i principi morali insisti nella società, la noia e l’immobilità piccolo borghese, il perbenismo, insieme alla questione dell’incomunicabilità contemporanea, sono al centro dell’interesse del regista. Anche in questo caso i dialoghi risultano molto scarni e volutamente artefatti. L’opera ottiene un’ottima accoglienza da parte della critica e, da parte dalla prestigiosa rivista anglosassone “Sight and Sound”, viene celebrato il ricorso ad un linguaggio nuovo. Anche nel film Götter der Pest (t.l. Dei della peste) del 1969, ricompare un rapporto tra i due protagonisti improntato all’omoerotismo. Se i due primi film hanno un’evidente derivazione teatrale, qua l’impianto è, finalmente, cinematografico.
Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa), è un film del 1970 che affronta i problemi di una troupe cinematografica che deve iniziare le riprese di un film. I diversi personaggi sono ritratti in modo davvero poco lusinghiero, “Fassbinder lascia chiaramente intendere di considerare il cinema una forma di prostituzione nella quale sono tutti coinvolti, attori e registi, come pure tecnici del suono e truccatori: tutti in balia della ‘puttana santa’. Al tempo stesso il film è una riflessione sulle ragioni per cui nel loro caso la condivisione di vita e lavoro in una comunità non può funzionare”.
Der Händler der vier Jahreszeiten (t.l. Il mercante delle quattro stagioni) del 1971 è il primo film in cui decide di sperimentare le modalità narrative sirkiane che impongono che la storia sia raccontata in maniera semplice e sobria ma con empatia per le vicende umane messe in scena. Il film ottiene un buon successo di pubblico e critica.
Nel 1972 Fassbinder riprende una sua precedente realizzazione teatrale, Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant), per trasformarla nell’omonimo film. La storia mostra la difficoltà di una donna, che pur si pensa emancipata, nel liberarsi dalle strutture culturali tradizionali. Il film viene accusato dagli ambienti femministi di essere una critica rivolta alle donne emancipate. Altre interpretazioni vedono nell’opera un tentativo di dimostrare come, anche nei rapporti omosessuali, la protagonista ha infatti una relazione con un’altra donna, tutto si riduca ad una questione di possesso e dipendenza. Nella lettura proposta dal Trimborn, Fassbinder, ancora una volta, intende affrontare piuttosto l’isolamento dell’individuo nella società contemporanea e la sua incapacità di apprendere a comunicare.
Dopo essere riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo piano come regista d’avanguardia con i primi film influenzati dai gangster movies americani e dalla Nouvelle Vague francese, Fassbinder decide che è giunto il momento di provare a conquistare anche “il grande pubblico”. Il riferimento diviene a questo punto il cinema del maestro del melodramma: Douglas Sirk. Del grande autore hollywoodiano, di origini tedesche, ammira la perfezione artigianale con cui realizza i film e l’impianto narrativo. Nelle sue opere vede un’incredibile capacità di scandagliare la sfera privata e gli stati d’animo senza trascurare il ruolo del contesto sociale. “Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola, e perché sia costretta a farlo”, afferma Fassbinder, riferendosi alle opere del vecchio maestro del melodramma.
Una parte della biografica è dedicata alla produzione televisiva del regista. Nella televisione Fassbinder vede le possibilità di realizzare produzioni veloci ed a basso costo, su questioni legate all’attualità, pensate appositamente per le specificità del mezzo e non derivate dal teatro, come invece è consuetudine nel cosiddetto “teledramma” tedesco degli anni ’50 e ’60. Le prime produzioni ottengono scarso entusiasmo e non mancano di suscitare scandalo a causa delle tematiche affrontate.
Con la serie Acht Stunden sind kein Tag (t.l. Otto ore non sono un giorno), del 1972, la classe operaia fa la sua comparsa sul piccolo schermo attraverso un melodramma socio-romantico. I tradizionali sceneggiati televisivi tedeschi a sfondo familiare, sempre di tono leggero, risultano ambientati in contesti borghesi o piccolo borghesi ma sull’onda del clima post ’68, anche la televisione inizia a dare spazio alle questioni sociali che attraversano la società. Per rendere la serie più realistica, l’equipe di Fassbinder realizza, per quasi un anno, ricerche tra i lavoratori delle fabbriche e le sceneggiature vengono fatte leggere ad operai della Ford di Colonia. La realizzazione fassbinderiana, oltre a rappresentare la realtà sociale di una famiglia operaia in maniera autentica, dando spazio, ad esempio, a questioni come l’emergenza abitativa e la mancanza di posti negli asili, intende suggerire chiaramente allo spettatore che ribellandosi le cose si possono cambiare. Nonostante il buon successo di pubblico, ma non di critica, la serie non prosegue a lungo anche a causa di una feroce polemica scatenata dal regista nei confronti dei sindacati accusati, nella serie televisiva, di non avere più nulla da dire alle persone e di dover piuttosto tornare ad ascoltare la base operaia. A tale produzione televisiva segue, nel 1973, Welt am Draht (Il mondo sul filo), un visionario film di fantascienza diviso in due parti basato su Simulacron 3, un romanzo utopico dell’americano Daniel F. Galouye. L’opera, oltre a riflettere sul ruolo del progresso tecnologico, approfondisce soprattutto le possibilità di autodeterminazione dell’uomo in un contesto in cui viene costantemente controllato e manipolato dal potere.
Nel 1979 è la volta della serie per la tv Berlin Alexanderplatz, la produzione probabilmente più impegnativa realizzata dal regista. Si tratta di una trasposizione televisiva del romanzo omonimo di Alfred Döblin, seppure riletto in maniera del tutto personale da Fassbinder che, anche in questo caso, si sofferma nuovamente sul tema dell’amore impossibile tra due uomini a causa delle convenzioni sociali. Il progetto Berlin Alexanderplatz, all’epoca la produzione televisiva tedesca più costosa mai realizzata, prevede tredici episodi ed un epilogo trasmessi con cadenza settimanale in prima serata. Nonostante il successo di critica ottenuto alla proiezione in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia del 1980, in Germania le polemiche non tardano ad arrivare soprattutto a causa del, solito, gruppo editoriale Springer che parla, a proposito dell’opera, di “orgia di violenza, perversione e blasfemia”, “atmosfera da orinatoio”, “sesso sporcaccione”, “sottofondo sadomaso” ecc. Trasmessa, dopo tante pressioni, ad orario più tardo, la serie risulta essere troppo complessa per il pubblico televisivo .
Tornando alla produzione cinematografica, l’opera Angst essen seele auf (La paura mangia l’anima), ottiene un grande successo internazionale ed una vera e propria acclamazione al Festival di Cannes del 1974. La tematica, come in Katzelmacher, riguarda i rancori della società nei confronti dei lavoratori stranieri. Nel film, ispirato ad All That Heaven Allows (Secondo amore) di Douglas Sirk, ad essere trattato da Fassbinder è il tema dei pregiudizi a cui si espone una donna di modeste condizioni sociali nel legarsi ad un uomo, per di più straniero, molto più giovane di lei. In tale opera la crisi tra i due inizia a manifestarsi proprio quando a livello sociale cresce la tolleranza nei confronti della loro unione; in quel momento iniziano a palesarsi i veri conflitti tra i due. Ancora una volta un’opera che manifesta l’impossibilità di una relazione amorosa felice.
Nel testo viene evidenziato come, nei opere di Fassbinder, le donne siano spesso innamorate senza speranza, figure che che crollano al cospetto del loro amore non corrisposto. Nel film Martha si insiste sul fatto che le donne sono condizionate tanto quanto gli uomini dalla società patriarcale in cui si trovano a vivere. Anche in Effi Briest, tratto dal romanzo di Fontane, si affrontano i rapporti di dipendenza all’interno di una coppia: contro la sua volontà una ragazza viene data in moglie ad un barone di vent’anni più vecchio di lei in passato innamorato di sua madre. L’infelicità matrimoniale porta la giovane a legarsi clandestinamente con un giovane amico del marito. Scoperto casualmente il tradimento della moglie, quando ormai da parecchi anni i due si sono trasferiti in un’altra città, il barone decide di seguire le convenzioni sociali e, sfidandolo a duello, uccide il giovane rivale e ripudia la moglie che, respinta anche dai genitori, muore di tubercolosi. Girato in bianco e nero, il film nelle intenzioni del regista deve presentare la realtà della vita alla fine del diciannovesimo secolo così come la ritrae il romanzo di Fontane.
Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) del 1974, è invece il primo film ambientato esclusivamente nel mondo omosessuale ove si racconta di un giovane che vive mestamente lavorando in un parco divertimenti e prostituendosi, grazie ad una vincita alla lotteria, il ragazzo diviene improvvisamente ricco e, finalmente, accolto da quell’ambiente omosessuale piccolo borghese che fino a questo momento lo ha sostanzialmente escluso per la sua provenienza proletaria. Nasce così una relazione tra il giovane ed il figlio di un imprenditore che poi finisce per derubarlo di tutta la sua vincita. La disillusione porta il ragazzo a suicidarsi, solo come un cane, in una stazione della metropolitana non soccorso dai vecchi amici che preferiscono far finta di nulla e, persino, derubato, ormai cadavere, da due ragazzini che gli svuotano tasche. Nuovamente Fassbinder sceglie una storia utile a ribadire l’impossibilità di un amore corrisposto e di un rapporto paritario tra due individui. Diverse associazioni omosessuali contestano il film che, nelle intenzioni dell’autore, denuncia come anche in ambito omosessuale, esattamente come avviene nella società eterosessuale, i sentimenti sono oggetto di sfruttamento.
Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, (t.l. Il viaggio in cielo di mamma Küsters) del 1975, è un atto di accusa nei confronti della sinistra tedesca sia istituzionale che radicale. La storia narra di un operaio che, temendo di essere licenziato, dopo aver sparato al capo del personale, si toglie la vita. La vedova viene emarginata dai famigliari, dai conoscenti ed anche dai comunisti del Dkp che preferiscono non avere a che fare con la vicenda del marito. La donna, che intende riabilitare la figura del marito, finisce col dare credito ad un giovane estremista che la coinvolge in un’azione armata sconsiderata dal tragico epilogo. In occasione della proiezione del film alla Berlinale scoppiano disordini.
Nell’opera del 1975 Angst vor der Angst (t.l. Paura della paura), si narra di come, in una donna, nel corso della gravidanza, si generi un’inspiegabile inquietudine che le provoca un’inguaribile stato di depressione. Pian piano emarginata dal marito e dai conoscenti, la donna finisce sempre più isolata senza che il film suggerisca alcuna ipotesi come causa dell’improvvisa deriva emotiva della donna.
Le accuse di antisemitismo ricevute in occasione della sua attività teatrale francofortese, si ripetono anche nei confronti della sceneggiatura tratta dal romanzo Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond di Gerhard Zwerenz scritta per un nuovo film. Il sostegno economico promesso dalla Filmförderungsanstalt salta in quanto la commissione giudicatrice inizia a temere che il film possa confermare i “pregiudizi antisemiti o addirittura di suscitarne altri della stessa natura”, tanto da esprimersi in questo modo nella lettera di rifiuto: “Il protagonista del film, l’ebreo Abraham, corrisponde esattamente in tutte le sue caratteristiche a quel cliché del nemico che Hitler ha descritto nell’undicesimo capitolo del Mein Kampf”. A tali accuse il regista reagisce scompostamente, tanto che, seppure da ubriaco, arriva, in alcune circostanze, a vaneggiare di congiura ebraica, ad intonare canzoni naziste od a dichiarare, provocatoriamente, di essere la reincarnazione di Hitler.
Successivamente, nel 1976, Fassbinder gira Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana), opera incentrata nuovamente sulla denuncia di come tutti i rapporti umani siano segnati dallo sfruttamento reciproco. Nel film è presente anche una riflessione sull’industria culturale ed una satira sulla sensibilità culturale dei tedeschi. Dopo il grande successo di pubblico di Effi Briest, i film successivi segnano, da questo punto di vista, una crisi profonda tanto di botteghino che di critica. La stampa inizia a vedere nei suoi nuovi film, sempre più autobiografici, un eccesso di autocommiserazione. Nel film del 1976 Ich will doch nur, dass ihr micht liebt (In fondo voglio soltanto che mi amiate), Fassbinder riflette, seppure indirettamente, sulla propria infanzia infelice priva di affetto.
A metà anni ’70, di pari passo alle critiche piovute in patria sulle ultime opere ed a un consumo di alcol, medicinali e droghe sempre più smodato, Fassbinder inizia ad essere celebrato in America come la figura più importante del nuovo cinema tedesco e come il maggior talento europeo dopo il mostro sacro Godard. Nel 1977 il regista gira per il mercato internazionale, direttamente in lingua inglese, il film Despair – Eine Reise ins Licht (Despair), presentato a Cannes si rivela un insuccesso mentre in patria ottiene miglior accoglienza.
Die Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun), uscito nel 1978, realizzato col fine di ottenere un “film tedesco in stile hollywoodiano”, ottiene un successo internazionale sia di critica che di pubblico. Il film è ambientato negli anni immediatamente successivi al crollo del regime nazionalsocialista, “quando tra le macerie delle città prendeva forma l’edificio dei valori morali e sociali su cui si basava la Repubblica Federale nata nel 1949”. La storia racconta delle vicissitudini di Maria Braun, interpretata da Hanna Schygulla, donna che, dopo un periodo di miseria nera, credendo il marito morto in guerra, se lo vede ricomparire quando ormai ha tentato di ricostruirsi una vita insieme ad un militare americano di colore. Ucciso il nuovo amante per dimostrare il perdurare dell’amore nei confronti del marito, la donna si trova nuovamente sola quando, quest’ultimo, autoaccusandosi dell’accaduto, viene incarcerato. Si viene successivamente a creare un complesso triangolo di rapporti tra la donna, il suo nuovo e facoltoso amante ed il marito. La vicenda, in cui si intrecciano patti segreti tra i vari protagonisti, ha un epilogo tragico che, stavolta definitivamente, impedisce ai due sposi di vivere assieme. Attraverso la figura della protagonista, Fassbinder mette in scena la forza e la caparbietà di tante donne tedesche che, nel corso della guerra e negli anni immediatamente successivi, sono riuscite ad abbandonare quel ruolo passivo imposto loro dalla tradizione e sopravvivere con autodeterminazione. Il film termina con l’eco della vittoria tedesca dei mondiali di calcio del 1954, quando nella società tedesca non solo si conclude la prima fase del dopoguerra, ma, sottolinea Trimborn, si tornano a relegare le donne alla storica sudditanza nei confronti dei mariti. Il ruolo attivo femminile, sviluppatosi tra le macerie, vine soffocato dalla ricostruzione che sembra, per certi versi, voler riportare tutto entro i ruoli tradizionali.
Concepito non certo per essere un film di cassetta, nel film del 1978, In einem jahr mit 13 monden (Un anno con 13 lune), di cui Fassbinder firma soggetto, sceneggiatura, produzione, scenografia, montaggio, fotografia e regia, si raccontano gli ultimi giorni di vita della transessuale Elvira, suicida a causa della solitudine e dell’indifferenza da cui è attorniata.
Lili Marleen è un film, ad alto budget, realizzato nel 1980, sulla vita dell’attrice e cantante tedesca Lale Andersen, diva del Terzo Reich. Fassbinder trasforma la vita della cantante tedesca, interpretata, ancora una volta, da Hanna Schygulla, nella storia di un amore contrastato negli anni della guerra. Una volta uscito il film ottiene giudizi contrastanti, perlopiù negativi. L’opera viene accusata di essere superficiale, piena di cliché, e troppo comprensiva nei confronti di chi ha fatto carriera negli anni nazionalsocialisti. Fassbinder viene accusato di aver reso omaggio all’estetica nazista mentre egli afferma di voler “far capire il Terzo Reich attraverso i dettagli affascinanti del suo modo di rappresentarsi”.
Lola, del 1981, racconta la storia di come un funzionario all’edilizia, giunto a fine anni ’50 in una cittadina del nord della Baviera, finisca per tradire i suoi propositi di contrastare il malaffare e la corruzione a causa di Lola, una cantante e prostituta che lavora nel bordello di uno squallido personaggio che controlla buona parte della cittadina. L’amore per questa ragazza finisce col renderlo parte di quel sistema corruttivo che inizialmente intende combattere. “Anche in questo film Fassbinder rappresenta l’amore come il più efficace strumento di repressione sociale”, scrive Trimborn. Lola, nelle intenzioni di Fassbinder, sottolinea anche come nella Germania del miracolo economico, lo sfruttamento della donna non sia affatto cambiato rispetto al passato.
La protagonista di Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss), film in bianco e nero girato nel 1981, cerca di cavarsela nella Germania del miracolo economico ma è destinata al fallimento. La protagonista, un’attrice divenuta morfinomane per continuare a sognare l’epoca del Terzo Reich in cui è stata una stella, è totalmente succube di una dottoressa che approfitta del suo stato di dipendenza. Temendo che le indagini di un giornalista, che nel frattempo ha conosciuto l’attrice, possano crearle problemi, la dottoressa decide di eliminarla. Presentato alla Berlinale del 1982 il film è un successo, viene visto come una sorta di risposta tedesca a Sunset Boulevard (Viale del tramonto), capolavoro di Billy Wilder.
Nell’ultimo film di Fassbinder, uscito nel 1982, Querelle, tratto dal romanzo Querelle de Brest di Jean Genet, tornano le tematiche a lui più care: amore, tradimento, dipendenza, violenza, solitudine, ricerca di una propria identità e di condivisione con un altro essere umano. Il film viene realizzato da un autore ormai fortemente condizionato dall’uso di droghe che, per non smentire il gusto della provocazione, per quanto concerne le foto di scena, contatta addirittura Leni Riefenstahl, che, ammalata, non è in grado di accettare l’offerta. Lo stato di alterazione con cui gira il film è pari soltanto al ritmo forsennato che decide di dare alle riprese, quasi una gara con la morte che sembra avvicinarsi sempre più velocemente.
Nel giugno del 1982, dopo aver assunto una dose eccessiva di cocaina pura, insieme a medicinali vari in grande quantità, nel corso della notte, il cuore di Fassbinder cessa di battere. Con lui se ne va un uomo contrastato, inquieto, contraddittorio ma capace, con il suo lavoro, di sferzare le coscienze di quel mondo piccolo borghese tedesco che forse non è riuscito, o non ha voluto, debellare fino in fondo quelle strutture sociali e culturali non sparite per incanto con la fine della guerra. In Germania e nel resto dei paesi in cui sono stati proiettati i suoi film, certamente Fassbinder è riuscito nel suo scopo: “creare disagio nelle strutture della borghesia” e le sue riflessioni sull’incomunicabilità e sull’esercizio del potere sui, ed attraverso i, sentimenti restano del tutto attuali.