di Mauro Gervasini
Una dozzina di anni fa, Massimo Carlotto scoprì la nuova frontiera del noir italiano: il nordest. Fino ad allora la criminalità italiana – quella famigerata in tutto il mondo – si pensava fenomeno siciliano, calabrese o campano. Invece le indagini dell’Alligatore, detective blues con un passato galeotto, fecero capire che il ventre molle del malaffare si trovava (anche, a volte soprattutto) tra gli interstizi della “locomotiva economica” d’Italia, quella macroregione che va da Brescia a Trieste. Parliamo di libri, non di film. E nei romanzi di Carlotto i riferimenti sono tutti veri, documentati. Traffico di droga, clamorose speculazioni edilizie, smaltimento di rifiuti tossici, mafia del Brenta, con aggiunta di razzismo strisciante e sfruttamenti vari (dalla prostituzione alla manodopera in nero degli immigrati). Un’epopea culminata con un libro nero, scritto a quattro mani con Marco Videtta (sceneggiatore per il cinema) il cui titolo è tutto un programma: Nordest.
Carlotto, che da quella terra è fuggito (è di Padova e abita in Sardegna), viene in mente pensando a un suo concittadino, che invece a Padova è appena tornato. Carlo Mazzacurati. Regista gentile di film che non riescono mai a essere cattivi (tranne nel caso di Un’altra vita) anche quando affrontano di petto quella realtà lì, disumana e disumanizzante: Il toro, Vesna va veloce, La lingua del santo… Le cose cambiano. Dopo averci girato intorno per tanti anni, il regista questa volta sceglie un registro preciso, e radicale, per il suo nuovo lavoro. È un noir, La giusta distanza, e racconta una storia che sembra banale. In una cittadina della provincia padovana un migrante tunisino (interpretato da Ahmed Hefiane), bravissimo meccanico, si convince di essersi finalmente integrato in un tessuto sociale troppo spesso ingeneroso, quando una sua amica, maestra giovane e carina, italiana, viene barbaramente massacrata. E lui naturalmente è il primo sospettato. In quel “naturalmente” sta la chiave del film: perché, poi? Il titolo allude all’insegnamento che il navigato capocronaca Fabrizio Bentivoglio dà alla “spina” incaricata di seguire il delitto, Giovanni Capovilla: un bravo giornalista mantiene sempre la giusta distanza dai fatti, né troppo distaccato né troppo coinvolto. L’impressione è che Mazzacurati abbia invece deciso di sporcarsi con la materia tragica del racconto, perché è chiaro che il delitto della ragazza ci parla di altro, della sua terra e forse di noi.
Che si rifletta sull’anima nera della provincia, della piccola borghesia, sui contraccolpi letali del rapido passaggio da una civiltà contadina a un contesto postindustriale, e che tutto questo non avvenga solo attraverso le nobili pagine di Sergio Saviane o le sciacallate di Porta a porta quando insegue la cronaca, ma appunto attraverso il cinema, è un fatto positivo. Di cui il pubblico ha bisogno, e lo dimostra il successo piuttosto sorprendente di La ragazza del lago di Andrea Molaioli, un giallo forse più tradizionale dal punto di vista dello schema, con un poliziotto dall’evidente spessore letterario, ma che ancora una volta ci parla della banalità del male, che è poi alla base dello sfilacciarsi dei rapporti sociali, umani, e della possibilità che il crimine ordinario, qualunque, si trasformi facilmente in eccezionale, “organizzato”.
In questo autunno noir del cinema italiano non possiamo evitare il confronto con Cemento armato di Marco Martani, opera prima irrisolta ma sincera che sceglie uno sguardo metropolitano ma periferico. Un film segnato dal più clamoroso “miscasting” della storia recente, con un protagonista, Nicolas Vaporidis, adatto forse a una canzonetta di Baglioni, non certo a una ballata del Califfo, coatto da fotoromanzo quando dopo il Libanese e il Freddo non si può più credere che sia, quella, un’antropologia possibile. E un cattivo, Giorgio Faletti, che insieme a (quasi) tutti gli altri attori pare essere finito lì per mere esigenze contrattuali, senza un vero perché. Peccato: c’era bisogno di un “altro” Cemento armato, fedele alle intenzioni, coraggioso fino in fondo, per ribadire che i racconti criminali non sono quelli della fiction televisiva, dove gli sbirri sono belli e possibili e i banditi deviati per caso.
Il cambio di prospettiva, però, c’è, esiste. Forse è anche merito del successo dei noir letterari. Sarà davvero una tendenza? Vedremo, speriamo.