di Giovanni De Matteo e Fernando Fazzari
Bologna, necrosi di tessuto sociale e sogni distillati fuori orario. Raptus giovanile votato all’inseguimento di un fantasma urbano oltre la barriera generazionale. Insofferenza senile e soddisfazione borghese per ogni sbocco occluso alle nuove leve. Il continuum dei sensi si strappa. Il disagio s’infiltra sottopelle, pronto a evacuare per le strade, come da copione. Come da contratto.
Rossa democrazia da aperitivo in via Clavature che delibera sull’ansia da accerchiamento del Pilastro. Minaccia mussulmana che funge da meccanismo di innesco per nuove soluzioni amministrative, tra visioni altrove geneticamente incompatibili. E tutto si risolve in una mostra delle atrocità da esibire sotto i riflettori mediatici: sdegno popolare, appagamento borghese, nevrosi cittadina da sindrome da convivenza forzata.
Schizofrenia di una città sospesa nel limbo tra provincia e metropoli. Lontana dal mare, ma irta di scogli. Su questi scogli, il sogno s’infrange.
Cazzo, Bologna!
L’8 maggio 1975 Pier Paolo Pasolini scriveva:
“[…] Bologna non è una città “tipica” dell’Italia. Essa è un caso unico. […] La sua anomalia è dovuta al fatto che essa si è “sviluppata” in questi ultimi anni secondo le norme ormai sacramentali dello sviluppo consumistico: ma, insieme, essa è una città comunista. Dunque gli amministratori comunisti hanno dovuto affrontare i problemi che imponeva loro lo sviluppo capitalistico della città…”
Lo sviluppo, qui, si è insinuato sotterraneamente, operando cambiamenti radicali più che altrove. Covando il paradosso, per anni. Attirando generazioni di migranti; come se un faro sugli Asinelli irradiasse il suo richiamo per giovani falene. Nelle sue vene è fluito il movimento delle idee, finché il coraggio della creatività non si è scontrato con l’embolo della disillusione.
Gli anni passano, il ricordo diventa polvere sotto i portici.
Ma che ci sto a fare qui… Già! Ma che ci sto a fare qui?
Bologna risponde con le parole di Pasolini:
“Io sono una opulenta città del Nord che lo sviluppo ha reso ancora più opulenta. […] Se tu dovessi emigrare qui, la tua coscienza non potrebbe non essere ininterrottamente ammirata di questo fatto. Inoltre, qui siamo comunisti, e quindi puliti e onesti. Anche questo è un privilegio, rispetto al mondo da cui tu provieni. […] Ma so anche che qualcosa di me ti delude e ti divide. Non è il rimpianto per quella città di trent’anni fa che ormai non c’è più, pur conservando intatta la sua forma: ciò che ti delude e ti divide è la constatazione di ciò che io sono nel presente. […] La mia oggettiva realtà non avrebbe parole per te. La prima e unica proposizione del mio silenzio sarebbe: ‘Io ti sono estranea e incomprensibile.’ Se, attraverso il tuo carattere e la tua cultura, posso ancora parlarti, ciò è merito della funzione conservativa che qui ha avuto il partito comunista.”
Funzione conservativa di una forza progressista. Un paradosso? O una realtà fattasi carne nella speranza di oltre tre milioni di cittadini… Bologna assimilata in un’eucarestia politica, la sua essenza che si dissolve sul palato della Nazione. Al culmine di un processo partito molti anni prima, colto nella metà degli anni Settanta da Pasolini in parole che ora colpiscono come un messaggio chiuso in una bottiglia e abbandonato alle correnti del tempo.
Bologna, Anno di Grazia 2007. Rosso sulle case del centro, canali insospettati che scorrono sotto i piedi della città; via Indipendenza è due lunghi portici come arterie sature di passanti; nei pressi di via Righi il barbuto Garibaldi è sempre là, sul suo cavallo, pronto a cogliere il primo istante per lanciarsi al galoppo. Una fuga che, attraverso la Bolognina, lo porti a profferire, in una nuova svolta, il suo Obbedisco al cospetto del sindaco della Capitale.
Un disorientamento che solo Bologna, ancora una volta, può aiutarci a capire:
“[…] io so che ciò che più di ogni altra cosa ti rende ansioso e quasi angosciato per quanto riguarda il mio fenomeno, è il fatto che io ponga problemi riguardanti lo sviluppo consumistico transnazionale a una giunta comunista regionale. E accettando quei problemi — nella pratica, che è sempre una teoria ancora non detta — essa accetta anche l’universo che li pone: cioè l’universo della seconda e definitiva rivoluzione borghese”.
Bologna, ansia di cambiamento e timore di mutazioni. Dove nulla cambia mai sul serio. Dove tutto forse è già cambiato prima che nel resto d’Italia, prima che ce ne accorgessimo. Un laboratorio di stili di vita e abitudini globalizzate prima ancora che di nuove esperienze politiche o di speranze di riscatto e rinnovamento a sinistra.
“Prefiguro […] l’eventuale Italia del compromesso storico: in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di piccoli borghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla borghesia gli operai”.
Bologna, 2007. Piccoli borghesi occupati a coltivare i loro orticelli. Idee geneticamente addomesticate per non recare troppo disturbo ai vicini. E voci ignare del fremito sotterraneo della controcultura si levano per reclamare spazio e attenzione, in un gioco delle parti senza fine.
Oltre a una citazione implicita di Andrea Pazienza (Penthotal), i brani sono estratti da Bologna, città consumista e comunista (Pier Paolo Pasolini, in Lettere Luterane, Einaudi, 1976).
[Giovanni de Matteo e Fernando Fazzari sono due giovani scrittori di fantascienza, appartenenti alla tendenza detta connettivista] (V.E.)