di Mauro Gervasini
Un giorno, David Lewelyn Wark Griffith, inventò il cinema americano. Non sapeva neanche lui perché. Voleva infatti fare lo scrittore, e amava il Sud come solo i suoi figli sanno amarlo. Il babbo, Jacob “Roaring Jake”, era stato un eroe della Confederazione, in casa si portava rispetto a Dio e a Jesse James, the Last Rebel, e i racconti di guerra con i quali il ragazzo era cresciuto avrebbe tanto voluto scriverli, e pubblicarli. Ci provò, e gli andò male. Allora cominciò a pensare alla recitazione, anche perché le sue storie le scriveva per il teatro. Nonostante un certo fisico del ruolo, niente, fallimento completo. Qualcuno gli disse che si guadagnava bene con “l’ultima meraviglia del mondo moderno”, il cinematografo, per il quale i magnati come Edison investivano una fortuna. Griffith decise di accettare i primi lavoretti, che diventarono ben presto una specie di inarrestabile catena di montaggio, un’ossessione per un mezzo tecnico appena conosciuto e subito infiltratosi sottopelle.
Dodici ore al giorno di set, per arrivare anche alla realizzazione di un cortometraggio a settimana. Tanto era modesto con la penna e la retorica verbale, tanto l’apprendista cineasta era fenomenale con la macchina da presa. La muoveva come nessun altro prima, e inventava angolazioni oblique, ardite, quasi a voler spaccare gli argini dell’inquadratura. E poi, dopo. Perché considerare il montaggio come un semplice assemblaggio di immagini? Via di tagli e cuciture strane, “analogiche”, fino a improvvisare, per esempio, il montaggio parallelo, senza il quale, per dire, Coppola non sarebbe mai stato Coppola. L’approssimativo calcolo delle opere di Griffith realizzate in gioventù ha dell’incredibile. Oltre 400 corti in sette anni, molti dei quali perduti, altri ritrovati e sistemati, altri ancora visti, in ottime condizioni, a Sacile e Pordenone, templi internazionali del cinema muto, da qualche anno impegnati in una certosina, filologica riscoperta del lavoro di questo mai abbastanza studiato maestro.
Ma entriamo nel vivo, seguiamo David Wark nelle sue pensose peregrinazioni. Lo sapeva che il cortometraggio ha il fiato corto, e infatti cominciò prestissimo a sforare. The Massacre – per chi scrive e per i fortunati che l’hanno visto in Friuli, il suo indubitabile capolavoro – del 1912, dura tra i trenta e i trentacinque minuti. Ed è una esplosione di forme, un western crepuscolare (ebbene sì, da quel genio che era cominciò dalla fine, raccontando una storia di indiani dalla loro parte, e con la civiltà Usa già rapace e boccheggiante!) con cavalcate, assedi, totali mozzafiato e tutto quello che ha fatto grande John Ford. Ma prima di John Ford (che d’altro canto ha sempre ammesso di essere un diretto discepolo di Griffith).
Da un punto di vista critico, sul regista pesa da sempre un macigno ideologico. Il suo più celebre film, Nascita di una nazione (1915), con il quale si codifica per la prima volta il linguaggio cinematografico, è la celebrazione della sua idea di Sud come culla di una arcaica civiltà, fatta di uomini e donne nobili, rigorosamente bianchi. La tesi del film è agghiacciante: dopo la vittoria del Nord, nella Confederazione vige l’anarchia, con bande di negri che violentano le donne e fanno razzie nelle ormai depredate “proprietà”. Solo la nascita del Klan (inteso come Ku Klux) riporterà un po’ d’ordine.
Nonostante i sedici milioni di dollari d’incasso, record assoluto dell’epoca, imbattuto per anni, il film diventa bersaglio dei nascenti movimenti liberal, che attuano nei confronti di Griffith un pesante boicottaggio. Le sue contraddizioni sono lampanti (ma come, in The Massacre sta dalla parte degli indiani, e poi…?) e nel 1916, con il suo secondo kolossal, Intolerance, il Nostro cercherà di porre rimedio alla campagna di denigrazione. Un film pacifista e antirazzista, ma anche farraginoso e poco credibile (si racconta “l’intolleranza” dalla passione di Cristo alla notte di San Bartolomeo) seppur gestito con una padronanza del mezzo cinematografico che ancora fa impressione. Però fu un flop che travolse l’autore e la casa di produzione fondata con Mack Sennett, la Triangle (che andò in bancarotta l’anno successivo).
Non è azzardato (per lo meno per noi) vedere nella vicenda dei Cancelli del cielo una specie di nemesi di Nascita di una nazione e (soprattutto) Intolerance. Michael Cimino, per enormità di vedute e spirito di sperimentazione, è certamente il più griffithiano tra i registi americani (più di Ford, che era meno magniloquente e per nulla megalomane). Ebbene, dopo le sue disavventure, nel 1920 Griffith accettò di partecipare alla fondazione della United Artists insieme a Charles Chaplin, Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Proprio l’insuccesso di I cancelli del cielo sarà preso a pretesto per far fallire la major. Ma il finale della carriera del maestro non può essere che glorioso, “alla Griffith”, come si dice in gergo. Montaggio alternato tra l’imminenza della catastrofe definitiva e l’arrivano i nostri. Resteranno, di lui, i primi film-film della storia, quelli fondativi di un immaginario e di una passione che ha più di cent’anni, e non li dimostra affatto.