di Cassandra Velicogna
Vanni Santoni, Muro di casse, Laterza, Roma-Bari, 2015, 136 pagine, 14 euro
Come Hunter Thompson e il suo avvocato in Paura e delirio a Las Vegas, Santoni parte alla ricerca del segno dove si è infranta un’onda. In questo caso non si tratta dell’onda del sogno americano, ma del sogno febbrile della “raver nation”: quell’informale movimento di persone che hanno eletto a oggetto totemico il “muro di casse” del titolo. Questo è un romanzo, anzi sono tre racconti, differenti e intrecciati, tre punti di vista: Iacopo ovvero i sensi, Cleo ovvero l’intelletto e Viridiana, lo spirito. Certo ci sono alcuni materiali, in appendice, come il simpatico e bizzarro manifesto “Worldwide raver’s” che girava nei primissimi duemila anche alle nostre latitudini, ma sostanzialmente resta un libro firmato da uno che voleva raccontare e aveva abbastanza stile, abbastanza parole per farlo. Narrativa che come tutta la fiction che si rispetti parte dalla storia, dalla realtà. In questo caso dalla storia recente e dalla realtà amplificata da vari psicotropi. Santoni, cantore dell’incantato, col suo massiccio tour di presentazioni in spazi che contengono o hanno contenuto ravers e/o rave party, ma anche con specifici brani del libro, vuol dire una cosa: l’onda non si è mai infranta.
1992, Castelmorton, quattro pazzi anglosassoni, con una mentalità espansa e creativa, portano un party in mezzo al countryside. È l’inizio di un’era. Svariati gruppi contraddistinti dalla stessa pazzia, fanno tesoro dell’esperienza degli Spiral Tribe (i suddetti pazzi): questo nuovo modo di costruire una festa Do It Yourself fa adepti, nascono i primi rave party. I rave o free tekno party sono contraddistinti da alcune caratteristiche: la segretezza del luogo d’incontro, la temporaneità dell’evento, il tipo di musica (tekno), la modalità di spararla dal soundsystem e la presenza costante di massicce quantità di droghe per resistere al ritmo incalzante dei Battiti Per Minuto. La brava tribe (cioè il gruppo, la banda) che “monta” il muro di casse in uno spazio abbandonato (di solito ruderi industriali di vario genere) o in uno spazio bucolico, comunque isolato, deve curarsi di riprodurre musica abbastanza veloce e di piazzare un numero adeguato di pezzi del suddetto muro. Dal nulla, si costruiscono mostri di suono, dove prima non c’erano che scarti industriali, nasce la TAZ (Bey) ovvero la Zona temporaneamente autonoma. Ricorda un po’ Frankenstein: qualcosa che rinasce grazie all’elettricità di un generatore, qualcosa che rinasce come monstrum. Santoni descrive tutto questo per la prima volta, senza nessuna ingenuità, né sensazionalismo, né artificio, anzi sviscera approfonditamente i vari aspetti della sottocultura raver, grazie alle opinioni e alle esperienze dei suoi personaggi. Iacopo, che va alle feste perché ci sta bene, non riesce a scordare quella volta che un piccolo angelo dai capelli azzurri l’ha preso per mano e ha fatto l’amore con lui in un furgone. Oppure Cleo, che ha addirittura imbastito una tesi sui rave party, lei cerca di analizzare antropologicamente il rituale della free tekno e la sua fenomenologia dettata dal ritmo cadenzato e ripetitivo, come in tante antiche culture… E poi Viridiana, lo spirito della festa: una che non nega la difficoltà di stare all’interno della scena, ma racconta della sua prima festa, in un territorio jugoslavo devastato dalla guerra civile ancora in corso, come di una sorta di folgorazione, di chiamata a far parte di qualcosa che l’avrebbe accomunata per sempre alla nazione dei ravers sparsi per l’Europa.
Si vede che Santoni di feste ne ha fatte parecchie. Non ricordavo per esempio il mega teknival di Pratomagno Valdarno del 2004, anche se per me l’ultima festa è stata nel 2006. Si vede che l’autore racconta l’inedito senza applicare del maquillage né “postprodurre” un’idea di rave a uso e consumo dei lettori dallo stomaco debole. Però la sperticata ricerca di una spiegazione, a tutto o quasi, a volte è proprio da innamorato. Penso per esempio alla posizione di Cleo, che cerca di attribuire un senso militante alle feste free tekno. Con buonapace delle Zone Temporaneamente Autonome: l’oblio dato da giorni di droga e musica non è propriamente rivendicabile. L’esodo dalla responsabilità e dalla lotta, fuggire in spazi isolati senza scalfire la realtà quotidiana delle città in cui viviamo non ha nulla di rivoluzionario di per sé. Il rave crea una nuova contraddizione in seno a quella che mi ostino a chiamare classe, non ne fa esplodere nessuna. E quelle frasi su “come si vogliono tutti bene ai rave party”, mah insomma, penso che sia abbastanza facile smontare questo tipo di univoca esperienza. Senza contare la minimizzazione della dipendenza da ketamina in particolare: il dilagare di una droga che non aiuta nemmeno a ballare non è propriamente stato un bel vedere (dal 2001 circa) davanti ai vari muri di casse. Eppure i rave sono in buona sostanza tutto questo, prendere o lasciare. Personalmente ho lasciato e la lettura di Muro di casse mi provoca sensazioni frammiste di esaltazione (forse una punta di nostalgia) e nausea. Il personaggio più cristallino, in fondo, è Viridiana (lo spirito): con le sue mille dipendenze, quella dalle feste stesse è la più totale. Quel che mi fa pensare questa descrizione che non si limita all’analisi del fenomeno, ma lo descrive in tutte le sue parti – dalle leggi che hanno scatenato la repressione in Francia e in Inghilterra fino alla descrizione dei maggiori party italiani – è proprio che sia un dato tipo di nichilismo a far affiorare il Dioniso che c’è in noi. L’oblio dato dalla musica “ritualizzata” è forse la porta per la trasfigurazione di qualsiasi altra identità possibile. E allora non è per tutti, non tutti ne sono degni. Tanti, prima o poi, tornano ad essere o voler essere qualcuno…
P.S. Se qualcuno per caso era al teknival tra Novara e Vercelli dell’Ottobre 2002 (suonarono Metek e Ubik) ed ha “trovato” un maglione di lana nero con una banda bianca sul petto è pregato di ridarmelo: me l’ha fatto mia madre.