petrella.jpgdi Giuseppe Genna

FIRMA LA PETIZIONE CONTRO L’ESTRADIZIONE DI MARINA PETRELLA

E’ davvero curioso e tipicamente italiano che il premier Romano Prodi, cattolicissimo, commenti così l’arresto di Marina Petrella [a sinistra in foto di repertorio], ex Br rifugiatasi in Francia con l’assicurazione che garantiva, fino al caso Battisti, la cosiddetta “dottrina Mitterrand”: “Grande soddisfazione per la brillante operazione. L’arresto – ha aggiunto il premier – dimostra l’importanza della cooperazione internazionale in tema di lotta alla criminalità e al terrorismo. Confidiamo che la richiesta di estradizione già avanzata negli anni scorsi possa essere presto soddisfatta. Con questo arresto – ha concluso Prodi – siamo certi si potrà cercare di fare luce su uno dei periodi più bui, tragici e assurdi della nostra storia repubblicana”. Cominciasse lui a fare luce su quel periodo, visto che ci sta immerso da quasi trent’anni: il cattolicissimo premier stava infatti seduto a un tavolino a fare una seduta spiritica, quando emerse il nome “Gradoli” – e si andò a cercare Moro a Gradoli, non in via Gradoli a Roma, covo delle Br. Un bell’atto di occultismo: della notizia che poteva salvare la vita al presidente Dc. In realtà, visto che non possiamo non dirci cattolici e ai medium non crediamo, una bufala: da dove Prodi seppe di “Gradoli”?
E’ soltanto un rilievo superficiale, a fronte della gravità di quanto sta accadendo in queste ore. Iniziamo da questo: Marina Petrella non è una terrorista.

Marina Petrella è stata una terrorista, piuttosto. La “brillante operazione” che soddisfa tanto Romano Prodi nasce da un casuale controllo effettuato da una pattuglia della polizia stradale. C’è una lista, inviata ai tempi del governo Berlusconi a quello francese, in cui sono indicati i nomi dei rifugiati che l’Italia desidera siano estradati. Poco è cambiato da Berlusconi a Prodi: quella lista è la pietra tombale su una promessa fatta da un Presidente di Francia, rispettata da nove primi ministri e, di colpo, inapplicata. Con quali effetti andiamo a vedere.
Prima di tutto, inquadriamo il caso di Marina Petrella. Ecco come l’approccia Repubblica.it: “La brigatista ha subito una condanna all’ergastolo al termine del cosiddetto processo Moro Ter. Il dibattimento, che riguardava le azioni delle Brigate Rosse a Roma compiute tra il 1977 e il 1982, si era concluso con 153 condanne. Di queste 26 erano ergastoli e 1.800 anni erano gli complessivi di detenzione. Solo 20 assoluzioni. All’epoca della condanna inflittale dalla Corte d’Appello di Roma, la Petrella era contumace in quanto scarcerata per decorrenza dei termini e aveva trovato da anni rifugio a Parigi, dove viveva un’esistenza irreprensibile. La sentenza venne poi confermata dalla Cassazione che annullò, con rinvio a un’altra sezione penale della Corte d’Appello di Roma, solo la sentenza nei riguardi di Eugenio Ghignoni, condannato in secondo grado a 15 anni di prigione. La ‘primula rossa’, già sposata al brigatista Luigi Novelli, si era successivamente legata a un algerino dal quale ha avuto una figlia”. Il gioco è già fatto: “brigatista”, “primula rossa”, “contumace” mentre erano scaduti i termini di custodia. L’atteggiamento del lettore medio è già plasmato.
Stare a Parigi viene evidentemente interpretato come un paradiso. Mutare l’esistenza, rifarsi da capo una famiglia, apprendere a vivere normalmente in un contesto sano. Esiti che il carcere dovrebbe iscrivere in cima alla lista dei suoi effetti primari e che invece svaniscono a fronte della realtà. Poco importa che, a trent’anni dall’affaire Moro, Petrella fosse una donna qualunque, rispettosa delle leggi e della disciplina che una nazione aveva adottato come promessa indelebile per accoglierla e cercare di porre uno stop all’impossibilità di metabolismo storico che l’Italia, a una simile distanza di tempo, sembra tuttora incapace di agire sulle proprie tragedie. Però queste sono considerazioni ancora superficiali, rispetto a una questione un poco più profonda e a un successivo problema che va eviscerato fino ad abissali artesianesimi.
Anzitutto il paravento del terrorismo. Questa dottrina di contenzione psichica collettiva, la lotta al terrorismo, che è il residuo tossico di ciò che è rimasto dopo gli entusiastici annunci di un Nuovo Ordine Mondiali lanciati dal Presidente USA che faceva guerra all’Iraq ed era ed è il papà del Presidente USA che fa guerra all’Iraq ora – questa indegnità globale usata come paravento per operazioni di ogni natura, che coprono l’intero spettro del criminogeno planetario, è proprio l’ombrello sotto cui si pone il premier italiano accomunando Petrella ai terroristi di oggi. Lo fa del tutto spontaneamente. La lotta al terrorismo è andare a perseguitare una persona che, dopo trent’anni, è distante miliardi di miglia dal terrorismo. A spingere a questa allegra equazione il nostro bonario premier è un fatto decisivo: Petrella non ha pagato, non si è pentita, non si è contrita dietro le sbarre, non ha subìto le violenze che i nostri carceri sovraffollati garantiscono come corollari impliciti alla permanenza in quei civili soggiorni. Ecco l’anima giacobina, ecco il fascismo italiano di destra e sinistra, il fascismo antropologico, uscire in tutto il suo splendore, assai simile al lucore sul dorso delle blatte soprese dall’accensione repentina della luce: l’ex terrorista deve marcire in carcere, deve piegarsi e martirizzarsi, deve chiedere perdono e stare zitto perché tanto il perdono non glielo si concederà, poiché soltanto un atto eccezionale, umanissimo e cristiano, potrebbe condurre il parente di una vittima di terrorismo a perdonare l’uccisore. Ma, nonostante non possiamo non dirci cristiani, di fatto possiamo: questo non era nei Settanta e tantomeno è adesso un Paese umano o cristiano. Sembra un Paese cattolico, ma di fatto non lo è. E’ un’accolita di spiriti legalitari secondo la legge del taglione, è una nazione in cui, all’indomani della strage impensabile di Duisburg, il quotidiano Libero titola “Finché si ammazzano fra loro”, è un termitaio dove chiunque è mosso da una sete di violenza giunta al culmine per l’incredibile assenza di sicurezza minimale a cui il cittadino è sottoposto o per le bizzarrie di un sistema legale che appare impazzito (l’altroieri un calabrese disoccupato e disperato è stato arrestato, per avere mangiato un pranzo con i prodotti di un ipermercato lombardo prima di presentarsi alle casse: rischia vent’anni – ripeto: vent’anni). Le dichiarazioni di Prodi, la sua felicità contenuta e bonacciona a carico di due tragedie (quella di Marina Petrella e quella dei familiari di Moro), sono la migliore esperienza dimostrativa che il Paese può fottersene ormai delle distinzioni tra destra e sinistra, poiché è rattrappito sui suoi minimi storici, cioè ai suoi elementi basali: guelfi contro ghibellini, riunificati dalla sete di una giustizia tutta particolare, implacabile e postuma fino al fuori tempo massimo, nella cecità più assoluta e nel disinteresse rispetto a ciò che questa supposta “giustizia” comporta per la società – cioè nulla.
Poiché Petrella in carcere non dà alcun vantaggio a nessuno in Italia. Nemmeno ai familiari di Aldo Moro, che immagino siano ben più assetati di giustizia giusta: vogliano, cioè, conoscere i responsabili e le meccaniche effettive che condannarono l’ex presidente del Consiglio a una morte devastante per il nostro Paese, per il suo sviluppo civile. E’ un caso ampio, che ha prodotto, in sede processuale e di commissione governativa migliaia di pagine, coinvolgendo tutto il momento storico vigente ai tempi del rapimento e dell’assassinio: attuale premier incluso, come abbiamo visto – oltre ad Andreotti, il Papa, la Cia, la loggia P2, la banda della Magliana e, come ultime ruote del carro, gli esecutori materiali, cioè i brigatisti.
Dopo i casi Battisti e Petrella non c’è nemmeno più da preoccuparsi: la deriva antiterroristica che Francia e Italia hanno intrapreso è ben chiara. La Francia, che ha vergognosamente mancato alla sua parola, è squalificata nel suo onore nazionale: castri chimicamente i pedofili e si bei del suo presidente peronista; l’Italia, che cerca vendetta per non smettere mai di chiudere una stagione che soltanto qui poteva rimanere aperta (ma c’è chi apre revisionisticamente, senza la minima ombra di un’indagine innovativa, la fase della Resistenza…), è lasciata ai suoi contorcimenti storici, presa in un’impossibilità di sfogo energetico, poiché le due lotte fondamentali, con questa politica della beatitudine codina, non riusciranno ad avere libero sfogo: e intendo la lotta di casta che ha sostituito quella di classe, e la lotta tra generazioni.