Angelo Orlando Meloni intervista Valerio Evangelisti
[Nel marzo di quest’anno il quindicinale letterario Stilos ha pubblicato una tavola rotonda sullo stato e il destino della fantascienza, intervistando vari specialisti: Marco Zapparoli, Sergio Fanucci, Valerio Evangelisti, Adolfo Fattori. Si trattava del montaggio di varie interviste separate, curate da Angelo Orlando Meloni. Qui pubblico solo le domande di Meloni e le mie risposte.] (V.E.)
AOM – Queste ristampe di autori fantascientifici fuori dai confini delle vecchie nicchie (con tanto di approccio filologico a testi che prima uscivano nelle collane popolari) è un fenomeno casuale, oppure siamo di fronte a un cambiamento nell’editoria e nei gusti dei lettori? (La storia della Fanucci è emblematica, basta dare una scorsa al catalogo per rendersi conto di come sia mutata e si sia allargata l’offerta.)
VE – Sergio Fanucci ha aperto la strada che poi altri hanno opportunamente seguito (è d’obbligo ricordare Marcos y Marcos). A un certo punto, la fantascienza scritta — non solo in Italia, ma in tutto il mondo — si era trovata davanti a un vicolo cieco. La sua fruizione popolare si stava spostando verso film, telefilm, videogiochi ecc.: media diversi dal libro. E i narratori del genere fs tendevano a imitare quei modelli semplificati, per ovvie ragioni commerciali. D’altro lato, la critica letteraria più matura aveva, sia pur tardivamente, “sdoganato” la fantascienza, e scrittori mainstream di tutto il mondo ne facevano propri gli stilemi, da Pynchon a De Lillo.
Diveniva d’obbligo, a quel punto, operare un’azione selettiva sulla fs presente sul mercato, e non mantenerla in una nicchia, bensì fonderne i classici e gli esempi migliori con altri generi e con la narrativa generale, in collane non specializzate.
AOM – Da un lato si è più volte avuta la sensazione che la fantascienza avesse perso mordente, in quanto i romanzi – chiamiamoli così – mainstream la stavano soppiantando, appropriandosi di temi e suggestioni che prima erano di stretta pertinenza della SF (pensiamo a un Palahniuk, a un Houellebecq). Dall’altro lato, e ci ricolleghiamo alla prima domanda, si assiste a una nuova vita del genere, o quanto meno a una nuova vita degli autori più rappresentativi. Come stanno le cose? Dobbiamo parlare di un addio alla fantascienza come la conoscevamo? Di una fantascienza che non è più fantascienza?
VE – Non vedo una contrapposizione, un mors tua vita mea. Ho conosciuto Houellebecq a un convegno di fantascienza europea che si teneva in Francia: vi partecipava con naturalezza, senza alcuna presa di distanze. Idem per un italiano, Tommaso Pincio. Quanto a Palahniuk, credo che sarebbe onoratissimo se qualcuno lo definisse scrittore di fs (anche se oggettivamente non lo è). Non si tratta di abbandonare il bastione della fantascienza: i suoi supposti nemici vi si avvicinano con la bandiera bianca in pugno! L’unico problema è far capire ai difensori che la cittadella fantascientifica non è più assediata. Hanno vinto, se ne rendano conto.
AOM – Anche in romanzi di tutto rispetto, a volte si nota una contraddizione tra la grandiosità dell’impianto generale e l’ingenuità della capacità predittiva. Fa un certo effetto leggere di clonazioni, mutazioni, viaggi extra-galattici, anticipazioni di reti di connessione globale che fanno impallidire internet eccetera eccetera, e poi i protagonisti sono alle prese con i nastri magnetici (!) che fanno girare i loro computer super evoluti. Anche per la fantascienza c’è stata un’età analogica e una svolta digitale. Il vero motivo di interesse, allora, non è (solo) nella quantità di mirabolanti predizioni…
VE – Sfatiamo una volta per tutte (ma sono certo che non sarà così) la menzogna secondo la quale la fantascienza prevedrebbe eventi futuri. Non è Verne il “padre” della fantascienza, è H.G. Wells! Che non si sognava nemmeno di descrivere come funzionavano le macchine dei marziani invasori, o la vernice che rendeva invisibili, o la tintura che portava sulla Luna, o la macchina del tempo. Trattava piuttosto delle reazioni umane e sociali di fronte a una catastrofe tecnologica o a una svolta scientifica inattesa, con un occhio sulle classi e sul potere politico (ciò che in Verne è totalmente assente).
E comunque, quando si è trattato di dare una nomenclatura a Internet o all’evoluzione dell’industria aerospaziale, è dalla fantascienza che si è pescato. Termini come “la Rete” o “astronave” sono nati lì, sebbene l’oggetto descritto dal narratore quasi mai sia coinciso con quello effettivo. Le conseguenze invece sì, spesso coincidono. La fantascienza è l’unica letteratura che abbia descritto cosa può accadere, in riferimento a un avvenire che ormai è presente, in condizioni di monopolio sull’economia e sui mezzi di comunicazione. Se poi ha dato un vocabolario al futuro, è questione accessoria. Anche l’alchimia per qualche verso fondò la chimica, pur perseguendo tutt’altri fini.
AOM – Ma fu vera gloria? Philip K. Dick, Stanislaw Lem, James G. Ballard, Theodore Sturgeon, (per tacere di Arkadi e Boris Strugatski, Samuel Delany, Jack Finney, Kurt Vonnegut, Douglas Adams con la sua Guida galattica per autostoppisti, e molti altri ancora) che ruolo occupano? È un attaccamento nostalgico che ci porta a rileggerli (e ristamparli)? Possono stare accanto ai grandi scrittori «istituzionalizzati»?
VE – Di sicuro alcuni di loro sono ormai universalmente accettati dalla critica letteraria mainstream: Ballard, Vonnegut, almeno in parte Sturgeon, i caposcuola cyberpunk. E naturalmente Dick, eletto al primo posto non per meriti stilistici, ma per le tematiche affrontate, relative alla schizofrenia dell’uomo moderno.
Se in Italia, e quasi solo in Italia (l’altro paese è la Germania), tale riconoscimento è contrastato, ciò accade per l’accademismo di un settore della nostra critica, rimasto ancorato a parametri valutativi polverosi o addirittura strapaesani, dimenticati ovunque. Ma la resistenza (di origine spesso anagrafica) è sempre più debole, e prima o poi cesserà. A quel punto, il problema si trasferirà su chi pratica il genere, perché non sono molti gli scrittori capaci di competere in qualità con quelli citati.
AOM – Se i vari Dick e Lem sono stati o stanno per essere liberati dal «recinto» nel quale hanno vissuto fino a ora, cosa rimane nel recinto? A tastarle il polso, come sta oggi la letteratura fantastica, anche in chiave italiana?
VE – Non troppo bene, direi. Il genere fantasy ha preso il sopravvento (cosa che non è affatto male se l’autore si chiama China Mieville), la fantascienza langue. In Italia esiste una nuova leva (il primo nome che mi viene in mente è quello di Lanfranco Fabriani, autore per Urania di due romanzi notevoli per brio e immaginazione), ma in linea di massima conviene guardare a scrittori che escono in collane di narrativa generale: Tommaso Pincio, Wu Ming 5 (col suo Havana Glam), la poco conosciuta, ma non per questo meno brava, Federica Vicino (Il clone), Alessandra C (Skill), Guglielmo Pispisa (Città perfetta), ecc.
Narratori che operano fuori del recinto, e dunque non costituiscono un gruppo facilmente riconoscibile. Ma l’evasione dal recinto, se certo ingenera confusione, non è di per sé un male: tutt’altro!
AOM – Quali sono i prossimi nomi da recuperare e ristampare, se ce ne sono altri? Che ne dice di Norstrilia di Cordwainwer Smith, di Guerra al grande nulla di James Blish, di Limbo di Bernard Wolfe o de Il gregge alza la testa di John Brunner, per esempio? In tutti i casi ci auguriamo che non vada a finire come per la letteratura gialla, thriller e noir. Se infatti sono stati ristampati alcuni autori di indubbio valore, a volte si è avuta la sensazione che si stesse raschiando il fondo del barile. Anche la fantascienza corre questo pericolo?
VE – Concordo su tutti i nomi, anche se faccio presente che Limbo di Wolfe, assolutamente geniale, costituisce un caso a sé e fu accolto con grande indifferenza dal milieu fantascientifico. In ogni caso, gli autori da recuperare sarebbero parecchi: i racconti di Robert Sheckley, per esempio (e un unico romanzo suo, Opzioni), o i microracconti fulminanti di Fredrik Brown.
Poi i romanzi di Fritz Leiber, uno degli scrittori più colti e completi che la fantascienza abbia mai espresso. Molte cose di Mack Reynolds, un marxista americano persino sovraesposto su Urania negli anni Settanta, per poi essere rapidamente dimenticato (penso al suo Deathwish World, credo ancora inedito in Italia). Ma la lista sarebbe lunghissima. E’ la fantascienza letteraria in sé che andrebbe riproposta, magari con un’antologia del livello de Le meraviglie del possibile di Sergio Solmi.
Con la fantascienza non è così facile raschiare il fondo del barile, se si bada alla qualità. Fino al termine degli anni Settanta è stata la regina misconosciuta della narrativa di genere. Romanzi non eccelsi erano comunque pieni di idee. Poi le idee hanno cominciato a venire meno, ma la fs si è fatta costume, cultura generalizzata. Ha invaso cinema, televisione, pubblicità, giochi per computer, fumetti, ecc. Quale altra narrativa popolare può rivendicare di essere divenuta società? Mi dispiace dirlo, ma il noir non può vantare simile gloria.
Il barile della fantascienza è ancora pieno: basta scavare.