di Giuseppe Genna
Erano due bambini. Due bambini. Stavano seduti su troni non adatti alle loro stature. Sembravano gemelli, ma non lo erano. Erano nudi. Osservavano Katje con occhi opachi, le pupille dilatate, sorrisi appena accennati. Inclinarono la testa di lato, entrambi, come se desiderassero studiare meglio Katje. Che, come le aveva sussurrato Akel, si inginocchiò. Akel Ananda era rimasto due passi indietro. Il Re Unito fece cenno a Katje di avvicinarsi. Lei giunse ai Suoi piedi. Il Re Unito sollevò la pianta del piede destro e, come aveva prescritto Akel, Katje si avvicinò, sporse la lingua, leccò la pianta del Re Unito.
“Più larga quella lingua”. Il Re Unito aveva una voce afona, quasi stupita.
Katje allargò la lingua, ripassò la pianta del piede del Re Unito. E poi ringraziò, come le aveva detto di fare Akel: “Grazie, mio Signore”, disse.
Il Re Unito e la Regina Unita la osservarono stupefatti, si guardarono, iniziarono a ridere, quasi soffocavano. Katje non capiva il perché. Allora il Re Unito disse: “Io sono la Regina Unita. Il Re Unito è lei” disse indicando la bambina a fianco.
Allora Katje avvertì lo schianto. Fu come un risucchio, violento, come se le fondamenta del Piano Psichico crollassero di colpo. Il Re Unito e la Regina Unita stavano frugandola dentro. Cercò di resistere, ma erano potenti, erano Maestri. Tentarono di impossessarsi dei suoi ricordi, ma non ne trovarono: Katje aveva ripulito tutto, restavano soltanto le immagini della memoria recente. Il Re Unito e la Regina Unita sembrarono compiaciuti. Fu il Re Unito, con la sua voce da bambina, a parlare: “Vediamo che Lei è rimasta impressionata dalle istoriazioni interne al Palazzo. Bene. Molto bene. Siamo estremamente soddisfatti”. La Regina Unita, parlando con la medesima afona tonalità, parve rubare la parola al Re Unito: “Da anni attendevamo qualche candidato degno di questo nome. Signorina Ondaatje, siamo felici di averLa conosciuta”. E il Re Unito: “Ora per Lei si avvicina il momento dell’esame presso la Commissione. Confidiamo che saprà vincere ogni resistenza. Otterrà l’Iniziazione”. Si guardarono, annuirono reciprocamente. “Adesso vada, signorina Ondaatje”.
Katje abbassò la testa, non sapeva cosa fare. Il Re Unito e la Regina Unita erano fuoriusciti dal suo Piano Psichico, lasciandola prostrata in uno stato di beatitudine impagabile. Quasi non respirava, aveva timore che il respiro spezzasse quella gioia calma e calda, la più alta che avesse mai provato. Le sembrò di rimanere così, inerte e beata, per molti minuti.
Avvertì le mani di Akel Ananda sulle spalle. Si scosse, si alzò, inchinandosi.
Si voltarono, se ne andarono. Katje era inebetita. Non si accorse quasi di avere percorso l’intero salone rosso, di uscire nell’antisterio in bronzo, di attraversare i saloni. Non sentiva alcun frastuono provenire dai bassorilievi di Antonacci, ora. Akel non le fece neanche un cenno, proseguiva veloce, rapido, sicuro. Ora Katje riuscì a osservare per intero l’aura dell’uomo: non era affatto una creatura psichica rozza. Vide alte fiammate bianche sulla sua testa, mentre attraversavano il salone d’ingresso, passando accanto ai due falsi Reali, riuscendo nel parco, in una luce cristallina tramata di colori balenanti e di lampi impercettibili e gioiosi. Un fiore, cresciuto alla base della scala che introduceva al Palazzo, sembrò irradiare musica, molti arcobaleni, un intero universo. Era qualcosa di ineffabile e Katje pensò che nessuno poteva capire.
Allora iniziò a piovere.
Il veicolo attendeva sotto la pioggia rada e gelida. Salendo sul veicolo, Katje lanciò uno sguardo al parco: ne sentì fremere filamenti di terrore, raddensati in resina tra le scorze arboree. Il parco le chiedeva aiuto.
Si muovevano velocemente, rifacevano il percorso che li aveva condotti dall’interporto al Palazzo Reale. Katje era quasi accecata dall’aura di Akel Ananda, che irradiava una luce sottile e abbagliante. Come aveva potuto confonderlo con una persona dai limitati mezzi psichici? Le sembrò possibile, con quell’aura, che Ananda fosse uno dei corridori dell’Astrale di cui aveva sentito parlare all’ESP: uno dei Corpi Scelti preposti alla mappatura dell’Astrale, il più a rischio, perché esplorava zone mai toccate prima dalla mente.
“Dove andiamo?” chiese Katje, cercando di frenare l’istinto vorace della curiosità che, primitivo e risvegliato, stava scuotendole l’intero Piano Psichico.
“Alla Commissione d’esame, signorina Ondaatje”. Una risposta imbecille. Lo sapeva benissimo che si andava lì. Ma dove si trovava la Commissione? Ancora una volta, Akel Ananda anticipò la domanda, rispondendole: “Nel distretto egiziano di Londra, signorina Ondaatje. Impiegheremo una ventina di minuti di volo”.
Un’inesplicabile, irrefrenabile scoramento prese Katje. Cercò di resistergli: era uno tsunami emotivo di noia, pura noia, rabbia e noia. Nel distretto egiziano… La prospettiva di ripetere, al contrario, il percorso dell’andata, per un interminabile quarto d’ora… No, non voleva, voleva vedere altro, voleva andare avanti, non tornare indietro. Rivide le case basse e oblunghe sulla strada verso l’interporto, sembravano enormi castagne bruciate o tronchi umani combusti. Catrame lucido sulla strada, monotono, invariabile, e bianchi fili d’erba abusiva ai lati: la noia stava stringendole la gola. Avrebbe voluto mettersi a saltare piangendo, dicendo che no, che non voleva tornare indietro, che non era giusto, come una bambina capricciosa. Era sconcertata. Non capiva, mentre quella corrente emotiva le si infiltrava in ogni fibra e in ogni recesso mentale, non capiva il perché si fosse scatenato in lei un simile alluvione di noia, frustrazione, rifiuto. Cercò il samadhi, non le riuscì, tentò di osservarsi dall’esterno, percepì che la sua aura era scura, violacea, come quella della Geisha e della Cowgirl poche ore prima, fu presa dall’angoscia di presentarsi in quelle condizioni davanti alla Commissione, di essere rifiutata. Non riusciva a ripulirsi. Il Re Unito e la Regina Unita avevano danneggiato qualche equilibrio sottile a loro noto e a lei sconosciuto? Non lo sapeva, non lo sapeva… Era disperata. Già si intuiva la forma semisferica e scura dell’interporto. Akel Ananda sembrava non accorgersi di nulla.
Il convoglio accelerò immediatamente. Akel Ananda non parlava, era accanto a lei. La situazione non sembrava migliorare. Venti minuti. Venti: un’eternità. Era frustrata, depressa, al limite del pianto. Le sembrava di essere in preda a un attacco allergico. Sperò di riuscire a riprendere il controllo in quei dieci minuti di viaggio.
Non lo riprese.
Decelerando, videro la costa mediterranea del distretto egiziano. Era in corso un terremoto, uno dei soliti. Si trovavano in piena fascia lavorativa. Vide l’ammasso ferroso e sterminato del complesso urbano del Cairo. Fumi neri salivano verso il convoglio in attesa di scendere all’interporto egizio. I terremoti schiantavano questa terra arida di impianti di riciclaggio e discariche per scorie di ogni natura. Nel cuore del distretto, bianche, luminose, perfette, vide le Piramidi, tagliate di netto, stagliarsi in direzione del convoglio. Le Piramidi… Era all’interno delle Piramidi, forse, che la Commissione aveva sede. Ma perché in piena area lavorativa? Il distretto egizio era la fogna del pianeta. Lì tutto — tutto – era nero, abbrustolito dagli scarichi, deturpato dalle incurie e dalle sommosse popolari, dagli scontri tra fazioni religiose non ufficiali che, non riconoscendo il principio fondamentale del Regno Unito (Niente Esiste, Niente Esiste…), si scontravano per sfidare il dominio del Re e della Regina e distaccarsi dal corpo di Londra. L’esercito interveniva raramente, lo si sapeva, nulla filtrava dalle zone delle operazioni, ma lo si sapeva. Come tutti i lavoratori, gli abitanti del distretto egizio erano davvero carne da macello. Cosa ci faceva la Commissione in quell’inferno? Però le Piramidi erano il luogo più sacro del pianeta. Durante la visita che l’ESP aveva organizzato per la classe di Katje, era rimasta impressionata dalle vibrazioni emanate dalle tre Piramidi. Bianche come latte, nella notte fosforescenti come segnali di rotta, le Piramidi nascondevano circa ottocento stanze rituali, che erano rimaste segrete per millenni, finché, dopo la conquista dell’avamposto del Cairo da parte di Londra, erano state pubblicamente svelate, nell’indifferenza totale. Soltanto chi accedeva all’Astrale sapeva che le Piramidi potevano costituire una straordinaria fionda per aprire i passaggi dal Piano Psichico a quello superiore: bastava visualizzarle, concentrarsi sulla patina lattiginosa di calcare e attendere.
Erano tre dee, si disse Katje. Era più calma, ora. Non oltrepassava lo Psichico e non riusciva a ripulirsi, ma era più calma. Akel Ananda sembrava addormentato, ma appena lei lo fissò aprì gli occhi, le sorrise.
Atterrarono.
L’interporto era un disastro: una rovina di sbarre arrugginite, detriti sulla pista, uomini che vagavano liberamente negli spazi interdetti. Akel Ananda prese sottobraccio Katje, indicandole la direzione. Entrarono nell’hangar centrale. Sulla soglia del portone aperto per le partenze, una donna accasciata sul pavimento lurido allattava da un seno svuotato il suo bambino: un pezzo di carne cianotica. Dentro era impossibile parlare: voci si accalcavano su voci, urla, corpi compressi, un insopportabile puzzo di sudore rancido, gruppi di lavoratori che masticavano tranci di carne ridendo, tappeti maleodoranti su cui sedevano in bivacco diseredati fasciati da bende lerce di sangue secco, alcuni capannelli di persone raccolte intorno a bambini che lottavano in incontri pugilistici, fiotti di sangue raggrumato sui muri lividi, gruppi di turisti provenienti da qualche altro distretto della fascia lavorativa e venuti a vedere le Piramidi senza capirci nulla, disgusto, puzza di piedi, un ubriaco che vomitava al centro del salone verso l’uscita. Katje avvertì un conato, Akel Ananda adesso stava sorreggendola: non l’accompagnava, la teneva in piedi.
Fuori dall’interporto: un veicolo, identico a quello che a Buckingham li aveva condotti al Palazzo Reale, li attendeva. Prima di salire a bordo, Katje intuì il caldo torrido del Cairo, il fumo fosco che rendeva difficile distinguere una sagoma a venti metri, inalò l’aria gassosa. Il veicolo si mise in moto, lentamente, schivando corpi umani che si gettavano in direzioni impensabili, scartavano di colpo, rischiavano di essere investiti, colpivano la carrozzeria con deboli pugni e calci.
Akel Ananda sorrise: “Non è mai stata in fascia lavorativa, signorina Ondaatje?”
Katje sentiva il sangue riaffluire. Era madida di sudore. “Una volta ci hanno portato a vedere le Piramidi, ma siamo atterrati direttamente sulla spianata di Giza”.
“Come si sente ora?”
“Meglio. Meglio, grazie”.
Akel Ananda si voltò, osservava fuori dal veicolo il succedersi di corpi e casupole e falansteri e stabilimenti. Rari fuochi rompevano il fumo spesso. Non stavano dirigendosi verso le Piramidi. Non andavano lì. Le avevano alle spalle, Katje si chiese dove fosse la sede della Commissione.
Impiegarono un’estenuante mezz’ora. Si fermarono in una periferia dell’agglomerato urbano, deserta, desolata: sembrava che un’operazione militare fosse da poco terminata, che la zona fosse sotto quarantena.
Uscirono. Palazzi disfatti, strade di asfalto sbrecciato. Una fabbrica di birra dismessa.
Akel Ananda iniziò a camminare proprio in quella direzione.
Katje si sentiva debole, pallida. Non riusciva davvero a controllare il suo Psichico. Non l’avrebbero selezionata. Era certa. Era terrorizzata. Cos’era successo? Akel Ananda si fermò ad attenderla all’ingresso del portone che immetteva nel corpo sfasciato della fabbrica dismessa. Non riuscì nemmeno a chiedersi perché fossero lì: faticava a raggiungere l’uomo.
Entrarono.
Buio. Fasci di luce polverosa. Miasmi. Frammenti di vetri in pezzi sul pavimento in pietra ruvida, ricoperto di terra. Lattine vuote, schiacciate. Mozziconi di sigarette. Akel Ananda la guidava, lei faceva fatica a stargli dietro, ansimava forte, le sembrava una febbre, una febbre diffusa non soltanto nel suo corpo, ma anche fuori di lei.
Akel si arrestò davanti a una porta di legno consumata dai tarli. Bussò. Aprirono.
Era una stanza bianca, abbacinante. Soldati in assetto di guerra, vestiti di uniformi bianche, presidiavano quella stanza linda, isolata dal resto, nascosta nel cuore della fabbrica. Akel Ananda ripeté il suo gesto: alzò il mento, i soldati si allinearono in due file, formarono un corridoio umano, Akel e Katje passarono sotto gli occhi dei militari, fino alla porta in metallo di un ascensore, che si spalancò al loro arrivo e si richiuse alle loro spalle.
Iniziò la discesa.
Scesero e scesero, sembrò una caduta inarrestabile, fatale.
Quando l’ascensore si riaprì, Akel Ananda uscì per primo, si volse verso Katje, la invitò a entrare in un locale buio, illuminato soltanto da un lucore verdastro che proveniva da un largo tubo sulla parete opposta a quella da cui erano arrivati.
Si avvicinarono al tubo.
Sì, era verde: un verde luminoso ma latteo, sporco.
Una sagoma scura e indefinita sembrava galleggiare all’interno del tubo, largo e alto, da cui uscivano cavi collegati a macchinari che Katje si sorprese incantata a guardare.
Poi si fermarono. Katje si avvicinò al tubo. Vetro infrangibile. I cavi erano un groviglio.
Vide la sagoma, sospesa a mezza altezza nel tubo. Era un uomo.
Galleggiava, era incredibile. Un vecchio slabbrato, massiccio, nudo. I cavi entravano dall’esterno del tubo direttamente nel suo corpo: nello stomaco, nel torace, nelle tempie, tra le cosce. I capelli fluttuavano nel denso liquido verde e luminoso. Una coppia di tubicini che si intrudevano nelle narici permettevano al vecchio di respirare. Piccole bolle d’aria emergevano lente dalle sue labbra, un frizzìo funereo e slacciato. I cavi terminavano in bubboni di pelle livida, penetravano all’interno del corpo. La pelle, inflaccidita e liscia, il membro grosso e molle legato a un catetere, tutto era sospeso nella gravità ridotta di quel bagno fosforescente. Il vecchio sembrava enorme, distorto dalla curvatura del tubo. Era immobile, vinto a ogni movimento. Incredibile: indossava un paio di occhiali. Da almeno tre millenni non si utilizzavano gli occhiali, una sorta di protesi bioculare che in tempi remoti era servita a migliorare la vista debole. Occhiali? Katje si voltò verso Akel, lo vide fiammeggiare nella sua aura potente, al buio.
“Che cos’è?” chiese Katje.
“E’ la Commissione” disse sorridendo Akel.
“La Commissione?”
“Oh, in effetti è ben più che la Commissione di esame, signorina…”
Non capiva. Katje non capiva. “Ma… chi è?”
“Si chiama Henry Kissinger. E’ il Re del Mondo”.
Il silenzio peloso della stanza le fece di colpo girare la testa. Avrebbe voluto stendersi, a terra, alla base del tubo. Le energie la lasciavano, le parole e le forme anche. Il relitto d’uomo nel tubo rimbombava nelle vibrazioni, l’esatto opposto del suo corpo, una mente potente che Katje, fuggevolmente, percepì abituata alle radure buie e numinose dell’Astrale. Quell’uomo aveva visto cose… cose che… Era un uomo quintessenziato di pericolo, di fosca immaginazione, di raccapriccio esiziale, mortuario. Un esemplare in lotta con il tempo che, per il momento, aveva vinto la sua battaglia. Oh, le radure sterminate della mente di quell’uomo… La psiche le pulsava, attratta dal magnete mentale di quel glomerulo di carne lessata e viva, inchiavardata sotto gli occhiali, spenta, ormai marina e viscida. Katje sentiva le forze venire meno… Da lontano ormai proveniva la voce di Akel Ananda, da lontananze di vista appannata, crepuscoli incendiari a un metro di distanza nello spazio buio di una stanza sepolta. E il sarcofago vivente, meccanico, chiamava, chiamava pulsando…
“Henry Kissinger,signorina. Henry Kissinger, insigne uomo di Stato americano dell’Era del Computer, l’ha richiamata, l’ha sempre conosciuta, signorina Ondaatje. E’ stato lui a scoprirla. E’ grazie a lui che lei è quel che è. Henry Kissinger è il culmine della Sua vita, signorina. Anche della mia. Di quella di tutti. Egli non è un uomo: è più che un uomo. Il fatto che sia un uomo rappresenta meno di ciò che egli è in realtà. Henry Kissinger è il rappresentante unico in Terra di una fratellanza sterminata, che governa l’andamento del nostro mondo dagli albori, e permette al nostro mondo di ritardare la sua fine e gli impedisce di svilupparsi come esso desidererebbe: in una cieca libertà che lo condannerebbe a un ultimo, rovinoso squittìo. Per questo motivo Henry Kissinger è stato scelto. I fili della nostra Storia sono soltanto sottili appendici della sua mente e tutti noi, anche io e Lei, signorina Ondaatje, altro non siamo che figli degeneri della sua immensa, sterminata conoscenza. Per inciso: quest’uomo che fu un uomo e che da molto è più che un uomo, questo che a Lei appare in forma di cadavere che respira, è colui che ha fermato il nostro tempo. Il Regno Unito è una sua invenzione. Le chiusure sul Piano Astrale, che anche Lei ha sperimentato, sono rinserrate da lui. Il principio fondamentale con cui Henry Kissinger ha istruito il Regno Unito è, come Lei giustamente ha intuito, insondabile. Soltanto se qualcosa esiste il principio può essere pronunciato. Henry Kissinger è la tutela che ciò accada: che qualcosa esista sempre, in modo da pronunciare il principio. Henry Kissinger salva il mondo dalla sua sussunzione su altri piani. Lo salva dalla sua evaporazione. Egli si è attestato sulla soglia dell’incredibile e Lei dovrebbe baciargli i piedi… E anche io…”
Le forze l’abbandonavano. La calamita Henry Kissinger era la calamità Henry Kissinger. Lui era Henry Kissinger, lui stava baciandola. Le tracce d’umore nero del suo bacio cattivo. E le parole di Akel Ananda, che puzzavano di vomito… Chi può morire non cerchi indugio… Il dio fantasma che fa vivere il metallo… Questo mondo non sarebbe mai finito, mai finito… Empietà, mia sostanza di vita e amore…
“Il Re Unito e la Regina Unita non sono che sublimi emanazioni della mente di Henry Kissinger, signorina. E’ lui che ha disposto il complesso, perfetto organismo che ricerca uomini dotati di capacità particolari: sono pochi coloro che riescono effettivamente a superare il Piano Psichico. Noi li concentriamo in un luogo unico, li perfezioniamo: essi sono la più violenta delle minacce. Sono i sussuntori del mondo. Sono gli agenti della fine. Sterminano le nostre veglie a vantaggio dei nostri sogni. La nostra guerra è una guerra con i sogni. I sogni ci chiamano, ci attirano, si appiccicano alle membrane. Chiedono che il mondo termini con un atto di coscienza. Essi interrompono i flussi: di veglia, di vita, di denaro, di sangue. Il sangue è il suolo. I sogni sono la fine. Lei è capace di condurre i sogni fino ai nostri umani confini, signorina. Henry Kissinger ha avvertito la minaccia, l’ha educata, l’ha fatta fiorire. Lei è un fiore, signorina Ondaatje”.
Vortici di parole e forme non controllate, maree distanti ma imminenti, chiasmi di profumi vicini: Katje, stordita, arretrò. Si appoggiò a un contenitore in vetro infrangibile a fianco del tubo in cui dormiva il corpo tumefatto del vecchio. Vide che il contenitore era legato a un tubo, che il tubo ruotava dietro il cilindro ed entrava in quello, entrava tra le natiche del vecchio. Il contenitore era semicolmo di merda… merda liquida… Katje tentò di parlare, ritraendo schifata la mano… “E’… è…”
“E’ merda, signorina Ondaatje. E’ la merda di Henry Kissinger. Anche il Re del Mondo caga…” Sorrideva Akel, Katje fu attratta da un porro sulla guancia di lui: un vulcano che eruttava sostanze cremose, gialle, ambigue… Peli, contorsioni, raffiche d’immagini… E parlava, Akel, parlava, sembrava non fermarsi più… “Per essere precisi, signorina Ondaatje, si tratta di una merda non comune. E’ questa merda che conferisce valore all’oro. Questo accade da sempre. Nei millenni dei millenni. L’oro assume valore in corrispondenza della quantità di escrementi espulsi dal Re del Mondo (Henry Kissinger da quattro millenni, altri prima di lui). Più merda, meno valore. Meno merda, più valore. Ha mai riflettuto, signorino, su cosa sostiene in effetti le nostre economie? Merda. Sacrosantissima merda. Venerabile merda. Che vale un pianeta. Vale più di me e di Lei, signorina. Dovrebbe baciare il culo a Henry Kissinger. E forse tra poco lo farà…”
Nelle Scritture la Carità è descritta come una Persona incapace di morire, seduta davanti a una porta sconosciuta. Diffida dei filantropi. Sostienimi con fiori, consuma per me pomi, poiché io sto languendo di amore e d’odio. Baciare il culo? Ora stava svenendo, Katje, sveniva. Si voltò verso il vecchio nel tubo. Gli occhi del vecchio s’aprirono di colpo. La osservavano. La seguivano. La invitavano. Erano azzurrissimi. Baciami il culo… E sorrise. Quell’uomo le sorrise. Era un sorriso materno, poi fu un sorriso di scherno, di potenza, poi fu un sorriso falso che ineriva a una trappola, quindi un sorriso innocente e smaliziato, quasi bambinesco, poi un sorriso di soddisfazione, beata, satolla, e poi ancora fu un sorriso di inoscienza… Quest’uomo dominava il mondo con un sorriso. Apparivano spettrali immagini radar, nella mente di Katje perduta in quel sorriso, immagini predigitali di grigie tempeste-madri, che partorivano dal fianco destro piccoli echi a forma di uncino, i quali si staccavano e crescevano… crescevano… Sentì l’imperativo mentale, potentissimo, inevitabile, di Henry Kissinger. E svenne.
Quando si risvegliò, era nuda. Le mani di Akel Ananda premevano sulle sue natiche. La testa le era stata infilata in un tubo di gomma. All’uscita del tubo vide, luminosa e fioca, una luce verdastra. Fu spinta, spinta verso quella luce. Arrivò col naso a toccare il vetro tiepido. Riuscì a osservare, vicine, le natiche flosce del vecchio. All’improvviso il vetro si aprì, il liquido invase il tubo, la testa si bagnò, fu sommersa, e le mani sulle natiche la singevano, la spingevano dentro… La faccia aderì alla spaccatura tra le natiche. Soffocava, non poteva respirare. Stava morendo. Era una pelle viscida, mortuaria. Aprì la bocca, fiotti di liquido verde le invasero i polmoni, riuscì a infilare la lingua tra le natiche, tutto sapeva di zolfo, anche il culo del vecchio, la lingua dritta e dura penetrò le carni disfacendole, trovò l’anello dell’ano, leccò la pelle che sembrava una viscera cotta a lungo, a lungo… Svenne nuovamente.
Si risvegliò nuovamente. Era morta? Sentiva caldo alle gambe. Le gambe erano larghe. Sentiva le ginocchia bagnarsi, le cosce immergersi, sentì il liquido tiepido a contatto della vagina, lo sentì sul bacino, tra le mani legate dietro la schiena, e allora riuscì ad aprire gli occhi.
Stava scivolando dentro il cilindro di conservazione di Henry Kissinger.
Guardò in basso. Vide il volto di Henry Kissinger scrutarla tra le gambe, attraverso il liquido che lo distorceva. Sembrava uno spettro d’acqua tremula e verdognola. Lei si inabissava dalla sommità del cilindro. Sollevò la testa. Alle sue spalle, Akel Ananda le diede il saluto finale: “Lei è un fiore. Il fiore va còlto. Niente esiste. Se lei esiste, davvero niente esiste. Sia onorata, signorina”. E già sentiva la testa di Henry Kissinger scivolarle tra le gambe.
Era destinata a morire poiché era in grado di giungere al Supremo, all’Inqualificato, al Bene che di Sé tutto permea. Avrebbe fatto sprofondare il sogno in una fantasia, avrebbe aperto varchi superiori, avrebbe messo a repentaglio i flussi di carne e di solido mondo. Il suo destino venne interrotto, riassorbito: era questo il suo destino.
Henry Kissinger si insinuava tra le sue cosce, mentre lei slittava verso di lui. Era completamente immersa. Cercò di trattenere il fiato, ma presto il liquido vinse la barriera d’aria nelle narici, discese per la gola, le fece esplodere le bolle di ossigeno nei polmoni. Lei tossiva, tossiva nel liquido e iniziava ad asfissiare. Ma vide la bocca di Kissinger ugualmente spalancarsi, vide i denti taglienti, d’oro, che si avvicinavano, sentì l’osso pelvico spezzarsi, vide il fiotto del suo stesso sangue allargarsi fumoso nel liquido verde, sentì divorata l’intera sua vagina, vide la merda fuoriuscire dall’intestino rotto al secondo morso dei denti d’oro di Henry Kissinger, sentì la sua bocca nella pancia, poi sentì la mente di Kissinger, cercava di pensare “Sono Katje”, ma già pensava “Sono Henry Kissinger”, finché fu del tutto divorata e serrando le mascelle del vecchio partecipò lei stessa all’ultimo morso sul suo corpo, quello che spezzò l’osso del cranio, totalmente imbevuta nella larghissima mente di Henry Kissinger, schiacciata sotto il peso pulsante, avvolgente, esorbitante del grido psichico che dominava quello spazio: Tutto E’, Tutto E’, Tutto E’.
Non fu più, fu un semplice “io sono”, fu addormentata nella caverna, a volte si risvegliava da quel sonno opaco, da sveglia era Henry Kissinger, osservava sagome luminose di là dal vetro, oltre il liquido fluorescente, partecipava delle decisioni prese da Henry Kissinger, con lui serrava le aperture del Piano Astrale.
Da lì, molto tempo dopo essere stata sussunta nella mente del vecchio, vide spalancarsi la porta, quando entrarono i Maestri ed Henry Kissinger cessò di esistere.