di Valerio Evangelisti
[E’ uscito pochi mesi fa un romanzo horror molto particolare: Francesco Dimitri, La ragazza dei miei sogni, ed. Gargoyle, 2007, pp. 195, € 10,50. Questa è la mia introduzione al volume. I lettori potranno trovare qui la recensione dell’autorevole L’Indice dei libri del mese, firmata da Franco Pezzini, autore tra l’altro di ben due libri dedicati alla nostra prediletta vampira Carmilla.] (V.E.)
Non è ormai un evento che esca un romanzo horror italiano. Abbiamo nella penisola decine di autori validissimi: Tiziano Sclavi, Eraldo Baldini, Alda Teodorani, Danilo Arona, Gianfranco Manfredi, Gianfranco Nerozzi e moltissimi altri. Semmai è insolito che esca un romanzo che non somiglia a ciò che è già stato fatto, in Italia e, in parte, persino all’estero.
Ciò che colpisce, in questa storia di Francesco Dimitri, è il sapore della novità. A parte un riferimento a Lovecraft, nel nome di uno dei suoi personaggi (“Dagon”), non c’è nulla, ne La ragazza dei miei sogni, che si riallacci a precedenti, italiani o stranieri. Niente atmosfere gotiche, niente situazioni splatter (appena accennate). Mancano vampiri, fantasmi, mostri, leggende terrificanti e imperiture. La paura nasce invece in un contesto di discoteche e di vita universitaria, scapestrata il giusto ma non necessariamente trasgressiva. Nasce, insomma, dalla “normalità”.
E’ un passo importante, tra i mille approcci possibili, verso la creazione di un filone. O, per meglio dire, verso l’emersione di un genere negletto quale l’horror italiano. Che trionfò al cinema negli anni ’60-’70, ma che deve ancora lottare con le unghie e con i denti per emergere in letteratura.
In Italia si sono affermati pienamente, con una fatica durata decenni, i generi “giallo” e noir (anche se spesso il noir, nel lessico domestico, non è che una variante del giallo, senza i fattori perturbanti che altrove lo caratterizzano). Si è in qualche modo imposta, ma solo negli anni ’90, la fantascienza nostrana. Persino il fantasy ha conosciuto variabili fortune, e così il “fantastico” nella sua più larga accezione.
Rimane (o rimaneva) fuori della porta il genere horror. Quando Eraldo Baldini ha successo con storie di spettri e incubi della sua terra, la Romagna, si preferisce catalogarlo come autore di noir. Quando Alda Teodorani scrive allucinanti storie splatter, la si trasforma, seguendo la moda letteraria, in “cannibale”. Lo stesso vale per decine di scrittori. La parola horror (che non metto in corsivo perché latina, non solo inglese) resta impronunciabile. Non hanno forse detto Croce e Prezzolini, un secolo fa, che le emozioni troppo violente appartengono alla cultura anglosassone, e non alla solare cultura italiana? Quel giudizio ha pesato come un macigno su tutta la nostra accademia, almeno fino a tempi recenti. Poi ci si è messa la critica di ispirazione togliattiana (ma di derivazione sovietica), secondo la quale solo il realismo era rivoluzionario.
Chissà che il romanzo di Francesco Dimitri non faccia riconsiderare alcuni di questi pregiudizi. Realistico lo è. Usa un linguaggio che è quello di ogni giorno, giovanile ma non solo. Non si distanzia dalla quotidianità italiana: al contrario, vi si immerge fino al collo. Eppure pone allo scoperto, tra scenari apparentemente comuni, inquietudini progressive che li incrinano, fino a sfociare nel terrore puro, o in qualcosa che gli somiglia.
E’ molto bene che Dimitri esca in una collezione di autori anglosassoni consacrati. Va sfatata la leggenda che solo loro sappiano spaventare. I meccanismi del subconscio hanno avuto esploratori continentali: Freud, Jung e molti altri. Non strappateci l’horror: ci appartiene, anche linguisticamente. E poco importa che sorga in una discoteca: ogni epoca edifica le proprie cattedrali, e le proprie gargoyles.