di Dario Voltolini
In volo aereo sul Mediterraneo, sulle sue isole brune, le sue coste, le scie bianche dei natanti, alzandosi dalla pista nella foschia, guadagnando lo strato superiore di aria limpida. Si viaggia su un secondo mare d’acqua, vaporizzato e cristallizzato, le nuvole compatte. Il cielo limpido, sopra, diventa blu cupo, tende al nero dello spazio interplanetario che appare così ai nostri occhi, mentre agli strumenti di osservazione che viaggiano su altre frequenze offre spettacoli spaventosi di forza e distruzione, di nascita e capovolgimento.
La compattezza planare delle nuvole si frastaglia ai margini, mentre l’aereo sorvola perturbazioni, vibra. Sul percorso si incontrano improvvisi torrioni di nubi bianche che si fronteggiano separati da vallate curve di cui si vede l’ingresso ma non l’uscita, misteriosa e nascosta dietro il vapore. I torrioni giganteggiano, vorremmo volare su apparecchi piccoli e lenti, come insetti attorno alle pareti bianche, per vedere dove e quando si sfaglia la loro consistenza cremosa, marmorea. Per vedere se davvero si sfaglia, se la vicinanza contraddice l’immagine da lontano, solida, corporea.
La valle curva si perde nella festa sconfinata dei giganti e dei piani infiniti che si rimescolano lenti al vento, che si cristallizzano e verso il basso piovono, verso l’alto si dissolvono. Come nei ghiacciai che stritolano la pietra, si aprono sentieri e crepe. Ma sappiamo che, sotto, c’è ancora altro cielo. L’idea di un cielo che vive oltre le nuvole, sotto il loro ventre, tra loro e il mare, rende irrisolta la visione delle nubi come materia solida. Dal suolo fino a due chilometri nel cielo è la fascia dei nembostrati, degli stratocumuli, degli strati e dei cumuli: nuvole basse. Da due a sette chilometri di cielo è la fascia degli altostrati e degli altocumuli: nuvole medie. Parzialmente sovrapposta a quest’ultima, da cinque chilometri fino al confine esterno della troposfera, è la fascia delle nuvole alte: cirrocumuli, cirrostrati e cirri. La troposfera è lo strato di atmosfera più vicino alla superficie del pianeta, il primo lembo di cielo, quello in cui viviamo noi. Il suo spessore è variabile dai nove chilometri dei poli ai diciotto dell’equatore. Contiene quasi tutta l’aria dell’atmosfera, circa l’ottanta percento.
Quando l’aereo perde quota per l’atterraggio e trapassa la coltre di nubi, folate grigiastre passano veloci fuori dai finestrini e ritorna una cosa che in cielo, nella festa inumana dei colossi candidi, era come scomparsa: il suono.
Da La Stampa – Torino Sette, che si ringrazia.