di Alessandro Morera
La “casta” cinematografica si è autoincensata chiedendo fondi pubblici attraverso il manifesto dei 100 autori che hanno lanciato l’appello in grandi teatri (come l’Ambra Jovinelli, messo ovviamente a disposizione dai loro amici, seppur la gestione Dandini lo stia portando al fallimento) o in sedi istituzionali come l’autopremio che si autoassegnano ogni anno: i David di Donatello (vinto quest’anno da Giuseppe Tornatore con La Sconosciuta, che, al di là del giudizio di merito sul film, non aveva bisogno di pubblicità per farsi conoscere dal grande pubblico, a differenza, tanto per fare un esempio, di Emanuele Crialese, che con il suo bellissimo film Nuovomondo, dal respiro internazionale, anche grazie a una sapiente sceneggiatura e alla sua forza narrativo-espressiva, ha dimostrato come anche giovani autori di cinema italiano possano rivolgersi a un pubblico internazionale).
Bernardo Bertolucci (di cui va ricordato che nel 1999 con i soldi del Signor B., allora Presidente del Consiglio, e la sua Medusa ha realizzato L’Assedio, pensando bene di non scagliarsi all’epoca contro il suo finanziatore; per non parlare dei numerosi film finanziati in precedenza dalla Pentavideo) segue la scia invocando più contributi dello Stato, suggerendo di seguire l’esempio della Francia, ottenendo una pagina intera de “La Repubblica” dell’11 giugno 2007 (con inizio dell’appello in prima pagina).
Non ci sarebbe nulla da eccepire se i contributi dello Stato alla cinematografia in Italia venissero elargiti secondo una meritocrazia culturale e professionale e non come invece avviene per ogni ente pubblico italiano, cioè solamente attraverso le conoscenze politiche, i nepotismi che imperversano dai registi, agli sceneggiatori, agli attori fino anche alle ultime maestranze che si aggirano sui set nostrani (un tempo fior di artigiani, oggi elettricisti, falegnami, disegnatori, tecnici del suono, delle luci ecc., molti dei quali purtroppo non sanno nemmeno svolgere il loro lavoro da un punto di vista prettamente professionale, probabilmente anche perché la competenza è l’ultima delle cose che viene loro richiesta per lavorare in tali luoghi).
Viene cosi spontaneo chiedere al Maestro Bertolucci se sappia come e in base a quali criteri vengono poi devoluti i fondi pubblici in Italia. O, con implacabile sinteticità: ma dove vive Bertolucci? Su Marte probabilmente, rispetto a tutto il resto delle persone normali (che pur non vivendo all’interno di tali caste si rendono benissimo conto di in che razza di paese viviamo e come viene gestita tutta l’amministrazione pubblica e non solo, nel bel paese). Suvvia, mica siamo in Francia o in altri paesi europei dove la gestione dei fondi pubblici avviene attraverso criteri di efficienza e di meritocrazia, cerchiamo di essere seri almeno per una volta, confrontandoci nella (misera) realtà socio-culturale nella quale viviamo.
Certo, ha risposto a Bertolucci una “critica cinematografica” nota in tutto il mondo (?) come Natalia Aspesi, che fagocita sulle pagine de “La Repubblica” del 14 giugno 2007 il cinema occupandosi del lato gossipparo-modaiolo dell’arte cinematografica. Né più né meno che una Marzullo in gonnella, tanto per essere chiari, e d’altronde se li meritano tali critici i registi del cinema italiano, visto che i loro comportamenti nella loro pratica professionale cozzano sempre contro i loro bei proclami, lanciati attraverso quell’establishment socio-culturale che fanno finta di combattere. Qui un esempio di come siano stati sperperati i soldi di noi contribuenti elargiti al cinema italiano dal 1996 al 2001, mentre per Antonio Angeli (“Il Tempo”, 22 maggio 2007) il totale dei contributi al cinema italiano nel decennio 1996-2005 ammonta a € 724 milioni.
D’altronde basta vedere l’inchiesta di Report del 2004, Ciak s’incassa, per comprendere come anche coloro che si lamentano facendo finta di essere contro questo sistema, in realtà abbiano preso finanziamenti pubblici (da Pupi Avati, il quale non ci ha risparmiato nemmeno un film incredibile nella sua bruttezza come quello di sua figlia debuttante alla regia, a Luca Barbareschi e Pasquale Squitieri, passando per Michele Placido, Marco Bellocchio, Giuseppe Piccioni ecc.)
Ecco quindi che non solo la politica è una casta a sé, ma anche il cinema si rinchiude nella propria casta, immergendosi in una bella sfera di vetro che lo fa essere solamente autoreferenziale e incapace di osservare la vera vita quotidiana di milioni di persone normali, che spesso faticano ad arrivare alla fine del mese. Una casta che esclude, nella propria autoreferenzialità stracolma di nepotismi, chiunque non abbia uguali possibilità economiche o conoscenti e/o parenti che appartengano al loro esclusivo circolo.
D’altronde se i registi continuano a credere che siano attori magistrali personaggi come Mastrandrea, Accorsi, la Buy, Santamaria, Pasotti, la Chiatti, la Capotondi, Scamarcio, la Rocca, Bisio, Silvio Orlando (che recita sempre, seppur bene, come faceva ai tempi di quando appariva in Emilio o Zanzibar per Mediaset, cioè interpretando solamente se stesso, come tutti gli attori italiani, che è per l’appunto ciò che hanno sempre fatto i caratteristi, ma non gli Attori veri e propri) le figlie di Placido, Mezzogiorno ecc. si continuerà a non andare da nessuna parte.
Il vero problema del cinema italiano è proprio questo: il 99% degli attori del bel paese che imperversano sui set italiani di oggi, fino a un quarto di secolo fa, tutt’al più avrebbero potuto essere al massimo dei caratteristi (che poi è quello che sono), invece che primattori riconosciuti tali solo dall’establishment cinematografico italiano. Non è un caso che quei pochi attori decenti nel nostro desolante panorama cinematografico provengano direttamente dal palcoscenico (comico e non) come Antonio Albanese (tra l’altro poco usato nel cinema) o come Kim Rossi Stuart. Quest’ultimo, essendo cresciuto sui set fin da piccolo, si è sempre contraddistinto dagli altri per un senso del ritmo cinematografico che nessun attore italiano ha e, nonostante ciò, si è cimentato veramente con il teatro per appropriarsi ancor di più di una tecnica recitativa a cui nessuno pensa più. Il palcoscenico come banco di prova per un attore è qualcosa che da noi non si usa. Dalle scuole apposite escono giovani attori prontissimi per la pubblicità, per le fiction e per altre amenità, salvo poi presentarsi impreparati, quando non del tutto incapaci, a recitare per il grande schermo (a differenza dell’Inghilterra, dove non è stata snaturata una tradizione attorica a vantaggio della breve strada per il successo commerciale costituita dalla tv e dalla pubblicità).
Un’ulteriore prova di tale stato di cose proviene dal fatto che non esiste più un film italiano che venga ‘salvato’ dalla recitazione di un attore, nel caso in cui non abbia una solida sceneggiatura o una scaltra regia, cosa che invece fino alla fine dei ’70 poteva capitare benissimo. Film non riusciti nel complesso potevano essere sorretti dalle ottime prove degli attori.
Perché per esempio i 100 autori, invece di riunirsi solo tra loro nelle proprie librerie commerciali, non affrontano il più grande e grave problema (purtroppo non l’unico) del cinema italiano, che è quello della completa mancanza di attori decenti nel nostro paese? E questo perchè le varie scuole di recitazione. come il Centro Sperimentale di Cinematografia (che c’entri uno come Alberoni alla direzione è ancora un mistero, come d’altronde le persone che vengono scelte per lavorare; tanto per fare un esempio, alla Sala Trevi non si sa a quale titolo e su quali criteri e curricula ottengano posti di lavoro persone prive delle basi culturali minime per lavorare in tali luoghi), e addirittura l’Accademia d’Arte Drammatica, non insegnano più a recitare se non per lavorare immediatamente negli sceneggiati raitivvù e Mediaset.
Saranno anche i produttori a imporre ciò ai registi e agli sceneggiatori, ma costoro abbiano almeno la decenza e l’onestà intellettuale e morale di essere sinceri, denunciando in pubblico una situazione palese, invece di piangere solamente miseria per le proprie tasche.
Allora il teatro cosa dovrebbe dire? Certo non ha la “critica” di famosissime saggiste cinematografiche di fama mondiale come la Dall’Oglio o la Aspesi, o dei vari Mereghetti, Crespi, Cabona, De Bernardinis e qualunquisti vari che gli diano visibilità. Eppure ancora si producono e si presentano nei teatri italiani delle grandiose messe in scena che riscuotono successo in tutto il mondo (dai classici Ronconi e Cecchi fino a Pippo del Bono, tanto per citare qualche esempio en passant).
Se non iniziano per primi gli uomini di cinema a cercare di far piazza pulita del loro sistema marcio e a combattere per costruire un sistema culturale e cinematografico meritocratico e privo di nepotismi e favoritismi, non riusciranno mai a rappresentare altri che se stessi, incapaci di guardare oltre le soglie delle proprie ville. E in grado di proporre solo un misero cinema ombelicale.
Ecco oggi a cosa si è ridotto il Cinema Italiano: a una supercasta privilegiata capace unicamente di far quadrato intorno a sé. Intanto il ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli (che con la scusa di promuovere i beni del bel paese promuove solamente la propria figura di portavoce italiano del pontefice tedesco) ha ripristinato un organismo vetusto e antistorico come quello della censura (che ha colpito anche film come la commedia di Lars Von Trier Il grande capo).