di Jadel Andreetto
“[…] provincia industrializzata
provincia terzializzata
provincia di gente squartata
1/4 al benessere
1/4 al piacere
1/4 all’ideologia
l’ultimo quarto se li porta tutti via”
(Rozzemilia – CCCP – Fedeli alla linea)
Il motore trasforma l’energia termica in energia meccanica, i pistoni scorrono nei cilindri, le ruote girano, il pilota è concentrato sulla pista. A ogni giro il suo team ha il cuore in gola. Sul podio assieme al vincitore ci saranno tutti. L’uomo con la bandiera sulle spalle incarna l’intera azienda con tutti i suoi dipendenti. La Ducati è una squadra e quando vince, vincono tutti. O quasi.
Sul fatto che la Ducati sia una squadra, fatta di tante squadre, Walter Garau, operaio in quel di Borgo Panigale, non ha dubbi. Sul fatto che vincano tutti, un po’ meno. In fabbrica i lavoratori vengono divisi in team con diverse mansioni e attività riconoscibili dal vestiario. L’obiettivo è quello di creare uno spirito di gara all’interno dell’azienda. «Fanno credere al lavoratore che quando passa dalla squadra x alla squadra y abbia elevato il proprio status. In realtà non c’è aumento di stipendio. Al massimo una tuta rossa stile pilota piena di sponsor.»
Il successo nel GP comporta soddisfazione anche per chi lavora in catena di montaggio, ma si tratta di una soddisfazione da tifoso, da appassionato. I media – dice Garau – stanno facendo credere che tutti siano felici, contribuiscano e ci guadagnino. Ma non è così. Per chi lavora in linea non cambia nulla, continuerà a fare il suo lavoro; anzi, commenta Salvatore Carotenuto, rappresentante sindacale e operaio, potrebbe crescere la richiesta di moto e quindi aumentare la produzione accelerando i tempi e accrescendo la mole di lavoro. «Che vantaggio c’è nel dire abbiamo vinto come operai? Soldi in tasca non ce ne vengono… Ogni volta che c’è qualche soldo in più è perché abbiamo discusso e lottato anche a suon di scioperi. L’azienda non ti da nulla anche se vince tutto, SuperBike, GP, MotoMondiale… una volta ha offerto una torta… agli operai arrivano le briciole, eppure se non ci fosse l’operaio non ci sarebbe la moto.»
La strategia dello spirito di squadra applicata a gruppi di lavoratori è un modello che rientra nella filosofia del “kaizen” che è molto diffusa a Bologna e interessa un’ottantina di aziende.
Il kaizen si basa su un sistema di modelli organizzativi che coinvolge l’intera struttura aziendale attraverso alcune pratiche tecniche, gestionali e ideologiche che comprendono varie metodologie: dallo studio dei movimenti dei lavoratore in catena di montaggio ai fini di velocizzare il processo produttivo, alla formazione manageriale attraverso i “week-end avventura”, dal dopolavoro aziendale al tabellone con la foto stile squadra sportiva del gruppo di lavoratori che ha prodotto di più da appendere in azienda, all’isitituzione della figura del team leader ecc.
Il termine Kaizen è la composizione di due kanji: Kai e Zen che accostati significano più o meno in continuo miglioramento.
Bruno Papignani, segretario della Fiom di Bologna, spiega che l’utilizzo di questi modelli organizzativi provoca conseguenze su tutta la rete produttiva perché pone un problema di potere. Nell’ ’84 il sindacato fece una campagna di contrattazione per affrontare i modelli organizzativi proponendo il lavoro in gruppi di produzione e di progettazione integrati, caratterizzati da una flessibilità professionale ottenuta dalla polivalenza. Ogni gruppo prevedeva un portavoce e aveva obiettivi di qualità e produttività, «una sorta di cooperazione gestita dal basso che toglieva però controllo alla gerarchia e metteva nelle mani dei lavoratori più conoscenze e maggiori poteri contrattuali. Naturalmente saltò tutto.»
Dieci anni dopo un modello simile, ma rovesciato in termini di potere, venne proposto per la prima volta in Italia dalla Fiat sulla base del testo La macchina che ha cambiato il mondo, di Womack, Jones e Roos (Rizzoli, 1991).
Esistono diversi tipi di “kaizen” a seconda delle tecniche e della provenienza dell’azienda che le applica. Il modello Ducati è il modello americano: molto ideologico, monoculturale e non negoziabile, nel quale i gruppi entrano in competizione tra loro e includono al loro interno anche una competizione individuale creando i team leader, i primi tra i pari. Il primo tra i pari diventa un’interfaccia con l’azienda al posto del sindacato ma per l’azienda rimane un operaio non diverso dagli altri. Non viene pagato di più, anche se ogni tanto riceve un’una tantum in base ai risultati ottenuti, la sua è una soddisfazione psicologica simile a quella di chi vince una gara, ma la vera gerarchia da scalare è da un’altra parte e non è accessibile agli operai.
Come in ogni competizione sportiva, qualcuno rimane indietro o arriva ultimo, in questo caso lavoratore in linea e precario. Questo tipo di modello organizzativo, incalza Papignani, aumenta il controllo da parte dell’impresa, è «basato su una partecipazione coatta che crea sospetto tra membri della stessa squadra», non fa in modo che alla Ducati aumenti la produttività o diminuiscano costi ma è un forte elemento di controllo che si sviluppa attraverso la frammentazione dei lavoratori che vengono messi in competizione tra loro e formati ideologicamente «stile marine»: i dirigenti vanno a fare i week-end avventurosi, attraversando ponti tibetani, si appendono a carrucole ecc., i team leader vengono formati attraverso schemi di gioco come il cerchio in cui puoi lasciarti andare di schiena e farti prendere dagli altri, vengono organizzati eventi ludici da dopolavoro, la visione di filmati ecc. ecc.
In questo sistema entra in gioco anche un altro elemento: il fascino del prodotto, che con un’abile strategia raduna immagine, ideologia e business. Molti entrano in Ducati con il miraggio di approdare in “Ducati Corse” o di fare il collaudatore, ma quando si trovano a lavorare in catena di montaggio si rendono conto che l’illusione è destinata a svanire. Carotenuto racconta infatti che in “Ducati Corse” ci si arriva solo dopo tante esperienze o con le giuste conoscenze e aggiunge: «basta essere disponibili in qualsiasi momento anche al di fuori degli orari di lavoro»
Fare il collaudatore, altra grande ambizione dei giovani che arrivano in fabbrica, non è come lavorare in catena di montaggio ma significa macinare più di 200 – 250 km al giorno in sella a una moto con tutti i pericoli (in alcuni casi letali) che ciò comporta.
Postfordismo-toyotismo-ducatismo
Alcune aziende bolognesi applicano alla loro filiera produttiva il kaizen a seconda della scelta fatta dalla multinazionale a cui fanno capo. La Cesab di Casalecchio di Reno, per esempio, ha applicato il kaizen di stampo nipponico, con personale giapponese e studi fatti nella terra del sol levante dalla società di consulenza di direzione e organizzazione aziendale “Bonfiglioli Consulting”. La stessa che ha seguito la Ducati, dopo che quest’ultima si era appoggiata alla consulenza Porsche. Attualmente l’azienda di Borgo Panigale, come già detto, basa i suoi modelli organizzativi sul prototipo di kaizen americano come avviene anche per la Efer, con la differenza che Ducati può fare leva anche sulla passione del lavoratore per il prodotto stesso. Un meccanismo che viene fatto scattare anche in Lamborghini, che però ha importato dall’Audi il modello tedesco, nel quale la partecipazione dei lavoratori al processo produttivo rende possibile un certo margine di trattativa con il sindacato e che introduce alcune novità, come il diritto di veto della RSU o il team leader a rotazione. Laddove invece non c’è passione per il prodotto la leva è quella psicologica della distinzione, accompagnata da incentivi in busta paga.
Il kaizen è arrivato in Emilia alla fine degli anni ’90 con la Magneti Marelli (FIAT), da allora molte altre aziende hanno seguito l’esempio anche se solo poche si sono potute permettere le consulenze degli specialisti o il know-how di una multinazionale. Delle quaranta aziende più grandi solo la Ducati Energia non applica il kaizen per scelta del presidente Guidalberto Guidi, un padrone vecchio stile come lo definisce Papignani. Alla GD, il tentativo di introdurre il modello all’americana è un processo delicato ancora in fase di sviluppo, mentre in Saeco si sta tentando di trovare la miscela giusta tra modello americano e tedesco.
La filosofia di base però è sempre la stessa, il sindacato può discutere e negoziare su alcune cose, ma è la cultura a non essere mediabile e i modelli organizzativi sono stati sempre messi in piedi attraverso due operazioni: l’espulsione, e così, dice il segretario della FIOM, si spiega la grande ondata di mobilità dei quarantenni, cinquantenni e l’ingresso di giovani.
Viene provocata una crisi per inserire il modello: si mandano via i sindacalizzati, “quelli che hanno fatto le lotte, quelli che in qualche modo sapevano come lavorare e come ritagliarsi degli spazi e avevano potere contrattuale”. Alcune aziende hanno provocato la crisi per mandare i lavoratori in mobilità e allontanarli.
Le statistiche bolognesi indicano che la maggior parte delle 150 – 200 aziende che nel 2004, 2005 e 2006 hanno fatto questa operazione non sono passate dai canali di crisi normali (cassa integrazione temporanea per crisi di mercato, cassa integrazione speciale per crisi vera o bisogno di ristrutturazione), ma sono passate direttamente alla mobilità volontaria non traumatica investendo dei soldi, “dando 20-30 mila euro a chi andava in mobilità. La teoria è quella di Melfi e del prato verde – http://www.che-fare.org/archivcf/cf36/melfi.html -, devi creare la crisi per cerare un nuovo lavoratore. Se poi questo è precario e debole, l’operazione è perfettamente riuscita.”
Un operaio di 40-50 anni sa lavorare e ha consolidato un suo metodo. È molto difficile che aderisca al modello, come è molto difficile che possa cambiare il suo metodo di lavoro per aderire alle tempistiche e ai movimenti corporei dettati dal modello stesso.
La maggior parte del kaizen, spiega il segretario della FIOM, passa attraverso i filmati e l’informatizzaione di tutti i movimenti, in modo tale che chi arriva non ha bisogno di sviluppare professionalità. Al lavoratore vengono date istruzioni sui movimenti da fare per adempiere a determinati compiti: “ti dicono quale braccio, quale mano, quanti passi devi fare per compere una determinata operazione e se la vuoi fare diversamente, non puoi. Hanno trovato anche il sistema di farti usare parti diverse del corpo nel corso della giornata. Per evitare le tendiniti? No, per produrre più velocemente.”
Per fortuna, prosegue Papignani, in Italia si mantengono ancora tempi ciclo decenti, “ma tutti stanno cercando di applicare la metrica Tmc2” (Tempi dei movimenti collegati-seconda versione), uno dei modelli cronotecnici preposti alla quantificazione dei tempi d’esecuzione delle mansioni operaie nella produzione di serie. N.d.R.) http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/Cos’%E8%20il%20TMC-2.htm
In Spagna e Germania, per esempio, con la metrica Tmc2, si è arrivati da mansioni di 20 – 28 secondi l’una a mansioni di 3 secondi l’una.
L’asso nella manica del lavoratore, conclude Papignani, “è la sua professionalità, in quelle aziende che ne fanno tesoro e che ne hanno bisogno. In Ducati non impari niente. Prima imparavi a fare un mestiere, oggi la precarietà non dà mestiere, la precarietà, anche per la Ducati, diventa precarietà della qualità del lavoro. Il vantaggio risiede quindi solo nel maggiore controllo che si può esercitare su lavoratore.”
Il fascino del brand
Sazia e disperata
con o senza TV
piatta monotona
moderna attrezzata
benservita consumata
(Rozzemilia – CCCP – Fedeli alla linea)
Il “Ducati Factory Shop” è stato inaugurato tre anni fa come outlet della moto nei pressi dell’azienda stessa. L’idea è nata nel ’99 dall’allora responsabile del parco moto aziendale, Leonardo Di Michelangeli, che ha creato un’officina a parte all’interno dello stabilimento per riconvertire le moto usate, per le prove, per le fiere, per gli eventi ecc. e che prima venivano svendute ai concessionari, in moto aziendali collaudate vendute direttamente dalla Ducati, trasformando così un’attività poco redditizia in un business con tanto di punto vendita.
Da allora il marchio ha ottenuto, grazie al successo nel GP, una visibilità in crescita esponenziale e lo stesso Di Michelangeli ha pensato che il prodotto principale potesse essere affiancato da qualcos’altro che facesse leva sulla passione sportiva dando così il via alla produzione di magliette e capellini firmati Ducati. Il successo è stato immediato e i gadget si sono moltiplicati, dagli orsetti ai modellini, dalle valigie alle tende da campeggio, dalla linea d’abbigliamento tecnicosportivo a quella casual. Il fascino del marchio ha fatto in modo che fossero messi in vendita come fermacarte anche contachilometri e pignoni, destinati alla rottamazione, sui quali è stato applicato lo scudetto Ducati Corse.
Il bacino d’utenza del consumatore si è allargato. Anche chi non può permettersi una moto si è mostrato interessato a vestire Ducati. Il fatturato dello Shop è una fetta notevole di quello dell’intera azienda e ha portato alla creazione della “Ducati Retail” che gestisce anche un negozio interno alla fabbrica, un punto vendita all’aeroporto e un outlet a Castel Guelfo.
I lavoratori dello stabilimento hanno il 30% di sconto su tutti i prodotti e possono noleggiare le moto per qualche tempo. Un operaio che affitta una “1098” prende 400 euro circa in meno al mese (lo stipendio medio è 1100 euro) e nello stesso tempo, andando in giro in sella, fa pubblicità all’azienda come quando indossa la tuta da lavoro, che è “griffata”. Il fascino del brand, racconta ancora Salvatore Carotenuto, fa presa anche sui giovani appena assunti a tempo determinato, che ancor prima di iniziare si presentano vestiti di tutto punto: «comprano capellini, felpe ecc. e non hanno ancora uno stipendio. Spendono allo shop prima di essere pagati.»
Questo sistema di marketing che si basa sulla passione per il prodotto, con un’abile strategia raduna immagine e business e sembra funzionare perché, come scriveva Chuck Palahniuk, “siamo consumatori. Siamo sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona. […] Quello che mi spaventa è il nome di un tizio sulle mie mutande. Le cose che possiedi alla fine ti possiedono.”
… come finiva il pezzo dei CCCP? Ah già: dammi una mano – dammi una mano a incendiare il piano padano – dammi una mano – dammi una mano a consolare il piano padano.