Affresco straordinario dell’Italia di oggi
di Elisabetta Mondello*
Va riletto l’ultimo romanzo di Ammaniti per apprezzarlo quanto merita. Per capire che Come Dio comanda libro attesissimo a cinque anni da Io non ho paura, risponde bene alla pesante sfida affrontata dall’autore: confrontarsi col suo stesso successo. Lo si sapeva rinchiuso, immerso nella scrittura, oppresso dal peso di chiudere il romanzo. Ma Come Dio comanda rifiuta paragoni con l’opera precedente fin dalla struttura che abbandona la misura breve, per imboccare la via più complessa di una macchina narrativa che necessita di 500 pagine per risolversi.
E’ un libro importante, denso nella sua apparente linearità, che vuole una seconda lettura per due ordini di questioni: sia per un motivo esterno al testo, cioè per ridefinire le aspettative del lettore il quale, inevitabilmente, si attende un romanzo che si collochi nella scia di Io non ho paura e si trova di fronte a tutt’altro; sia per una ragione più forte, interna alla sua struttura, ossia che il cuore di Come Dio comanda è costituito dalla seconda delle tre sezioni (più un Prologo) che lo compongono. Questa parte, l’unica con un titolo, “La notte” (emblematicamente, le altre sono definite “Prima” e “Dopo”), disvela il progetto su cui è costruita la fitta impalcatura del libro, folgora chi legge proclamando ciò che le prime pagine non dichiaravano, obbliga il lettore a ripensare ciò che ha letto.
Come Dio comanda cresce strada facendo. All’inizio sembra preso da una sorta di ritegno: è violento ma sussurra, prepara, accumula indizi. Potrebbe essere una delle tante storie “nere” che affollano le librerie, caratterizzate da un plot (talora scontato) in cui si muovono personaggi sfigati, eccessivi, border line. Invece ad un certo punto si rompe il velo e il romanzo si rivela uno straordinario affresco della contemporaneità italiana, dipinto con una scrittura che ripropone i tratti distintivi di Ammaniti ma con una corposità maggiore, sviluppando in modo magistrale l’aspetto eversivo del noir, assumendone l’elemento di critica sociale, esaltandone la funzione politica del suo essere uno strumento per decifrare il reale.
«Un padre un figlio. Una banda di poveri mascalzoni. La nostra provincia sola e malinconica»: così nel suo sito Ammaniti sintetizza la storia di Come Dio comanda, «la più difficile da realizzare». «Ho scritto e riscritto smaniando, come un malato di enfisema, ho amputato, come un malato di cancrena, un sacco di arti di questa creatura che stava diventato un millepiedi». La descrizione dell’autore rivela uno dei procedimenti narrativi del testo: l’allargamento graduale delle prospettiva, all’inizio focalizzata sulla coppia Rino-Cristiano Zena, padre-figlio legati da un rapporto di violenza, disperazione e amore, che si amplia ai due amici dell’uomo, al disadattato e strambo Corrado Rumitz, detto Quattro Formaggi, e al disperato Danilo Aprea, segnato dalla morte della figlia e dall’abbandono della moglie. L’improbabile terzetto progetta un colpo facile, svaligiare un bancomat, per realizzare il sogno di esistenze migliori. Nuovo ampliamento: dai quattro protagonisti originari si passa ad una miriade di figurine e storie – è davvero un millepiedi questo romanzo – che si muovono in una pianura dell’Italia contemporanea (il Nord-Est?), ricca, sorda alle sue contraddizioni, desolatamente fatta di uomini e donne omologati nei consumi culturali, nelle emozioni e nei comportamenti. Interviene un evento che è un topos narrativo: una notte di pioggia devastante modifica il corso degli avvenimenti, sconvolge la natura e obbliga i personaggi a ridefinire la propria identità. La tragedia, lo stupro e l’omicidio di una ragazza, è per tutti un punto di non ritorno.
Si è parlato di una ripresa di Ammaniti degli stilemi di Fango, il secondo libro del 1996, ossia di una cifra nera che esalta gli aspetti pulp o splatter della scrittura. Alcuni sottintendendo: una sorta di regresso. Certo la parte centrale di Come Dio comanda ricorda il primo racconto (ma anche altri testi degli anni’90) di quella raccolta, L’ultimo capodanno dell’umanità, fin dalla struttura: un susseguirsi di brevissimi brani enumerati in sequenza; il continuo volger lo sguardo dell’autore a seguire, in ogni flash, una delle diverse storie; la crudeltà esplicita dei dettagli; la costruzione di una rete orrorifica in cui, in un crescendo, resta impigliato il lettore che rimane attonito, mosca prigioniera di un ragno che ha tessuto con abilità la sua tela narrativa. C’è anche questo e chi si attendeva il realismo tranquillo di Io non ho paura, il cui la suspance è affidata alla crescita di un ansia infermabile e al dato di un orrore mai esplicitato trova tutt’altro tono. Ma Ammaniti non abbandona la carta del realismo, la assume in alcune parti del romanzo, mentre in altre la contamina con registri diversi, con il comico, il grottesco, la deformazione espressionistica. Propone all’interno di una forma-romanzo del tutto nuova alcuni tratti già presenti in Branchie o in Fango, in primis il racconto della realtà attraverso i consumi, assunti come un elemento che definisce il self dei personaggi: le merci puntigliosamente citate secondo le marche (il vecchio piumino Cesse, la cassettiera Ikea, le strisce per denti AZ White Strips, i tanti modelli di auto e motorini), le musiche, le modalità comunicazionali (cellulari e sms), l’ossessiva presenza della tv, davanti alla quale si addormentano e si svegliano i personaggi, e dei suoi programmi (non manca una lunga invettiva di Rino contro il trash della neotelevisione che odia, ma di cui non sa fare a meno). La descrizione della pianura come un conglomerato di una modernità fatta più di non-luoghi che di luoghi, cinema Multiplex, negozi, ipermarket, centri commerciali in cui c’è tutto «fuorché una libreria», e di una disperata, conformista e banale umanità, tutti pupazzetti di un presepe reale come quello costruito dal delirante Quattro Formaggi che assembla una Natività in cui i pastorelli sono sostituiti da Pokémon, Puffi, King Kong, Barbapapà, nuovi simboli della mitologia infantile. Il tutto sostenuto dalla lingua tipica di Ammaniti, la cui struttura sintattica e il cui lessico sono ascrivibili ad un “italiano dell’uso medio” (talora “alto”) con il ricorso insistito, ripetuto, ossessivo, al tessuto figurale e soprattutto alla similitudine, espediente letterario di antica tradizione, qui piegata e deformata in chiave grottesca, parodistica, caricaturale (Rino odia il suo ex datore di lavoro «con la stessa devota intensità con cui un monaco cistercense ama il suo Signore», una zuppiera si disintegra «come se fosse stata colpita da un Cruise»).
L’Italia attuale viene sezionata ferocemente e messa in scena impietosamente, esattamente come l’universo emotivo e cognitivo dei personaggi i quali, non avendo alcuna saldezza personale, scomodano il Padre eterno per giustificare nefandezze, atti gratuiti o banalità. Tutti si rivolgono a Dio in cerca di giustificazione o di messaggi di conferma, re-interpretando così il proprio destino.
Quel modo di dire assunto a titolo, “come Dio comanda”, definisce un’assenza di razionalità che non sta in un disegno divino ma nella grammatica del vivere contemporaneo. E Ammaniti non ha il divertito sguardo degli anni ’90.
(*) Questa recensione è stata pubblicata il 24 ottobre 2006 su “Liberazione”. Una silloge non conclusiva né esaustiva di pareri su Come dio comanda qui (La Porta), qui (Lipperatura), qui (Cortellessa), qui (Giorgio Tesen) e qui (Stefano Jorio) [g.d.m.].