di Simone Sarasso
[Un anno fa Carmilla pubblicava la recensione di Daniela Bandini, estremamente elogiativa, del romanzo Confine di Stato di un esordiente, Simone Sarasso, pubblicato da un piccolo editore (Effequ). Pare che proprio grazie a quella recensione il romanzo esca adesso presso un editore di primo piano, Marsilio (pp. 416, € 18,00). Celebriamo l’evento proponendo le prime pagine di Confine di Stato e augurando all’autore la meritata fortuna.] (V.E.)
Sandro Arlacchi
Il 12 dicembre smisi di essere ragazzino. Mio padre quel giorno non aveva in programma di andare a Milano. Verso mezzogiorno lo chiamò invece un suo collaboratore dicendo di raggiungerlo nella piazza della banca, dove ogni venerdì si svolgeva il mercato degli allevatori. C’era un affare da concludere, gli disse.
La vendita di un terreno: doveva fare da mediatore.
Il primo a sapere cos’era successo fu il parroco, ma non ebbe il coraggio di dircelo.
Incaricò il medico, che alle 19.30 venne a casa nostra.
Ci disse del disastro e che in mezzo ai feriti c’era anche mio padre. Non aveva però notizie precise. Accendemmo la radio e la televisione.
Telefonammo a uno zio, Mario, che abitava a Milano. Fu lui a fare il giro degli ospedali.
Ne fece passare tre o quattro, finché scovò quello dove si trovava mio padre.
Era morto. Aveva 42 anni ed era morto.
Glielo fecero vedere ma non lo riconobbe subito. L’identificazione avvenne quando trovarono i documenti.
Erano le 20.30 quando ci chiamò. Ci disse di raggiungerlo.
Mia madre non aveva la patente: dovemmo cercare qualcuno.
Alle 22.00 arrivammo all’obitorio. Non ce lo fecero vedere: eravamo arrivati fuori orario.
Dovemmo attendere il giorno dopo.
Andammo ai funerali e il lunedì stesso portammo la salma di mio padre in paese per l’ultimo rito.
Quando tutto finì ci sentivamo perduti. Fino ad allora la famiglia si era appoggiata soltanto su mio padre.
Era lui a garantire la tranquillità economica.
Papà gestiva il Cinema Lux a Magherno e lì, dove vivevamo, avevamo anche le bestie. A tempo perso faceva pure il mediatore. Terreni per lo più.
Mia madre non lavorava e noi eravamo ancora troppo piccoli.
A 39 anni suonati prese la patente e trovò lavoro prima alla Galbani di Corteleona e poi al Policlinico San Matteo, nella lavanderia.
Mentre studiavo, per tre giorni alla settimana facevo funzionare il cinema.
Seguimmo tutta la storia. Andammo alle udienze a Roma e al processo di Catanzaro.
Prima alla giustizia ci credevo. Adesso non tanto.
Abbiamo sentito solo parole. Quanto è successo ci ha cambiati dentro.
Francesca Denti
Mio padre era commerciante, aveva dei terreni alla periferia di Milano. Come ogni venerdì si sarebbe incontrato alla banca con altri commercianti e agricoltori.
E infatti lì avvenne il disastro.
Lo vidi più tardi al Fatebenefratelli: era morto.
In ospedale ci ritrovai pure mia madre che, investita dall’angoscia — non sapeva ancora che papà se n’era andato, pietosamente le avevano detto che era ferito — era stata colpito da un infarto.
Quindi quella sera mi ritrovai, poco più che adolescente, con mio padre morto, ucciso tragicamente. E mia madre che era in fin di vita perché il cuore le stava cedendo.
Queste cose lasciano una traccia indelebile.
Anche se mia madre, grazie al cielo, l’abbiamo potuta salvare.
Nei primi anni non abbiamo vissuto, siamo stati come cani randagi…
Pietro *******, cronista del Corriere della Sera.
Ero in Redazione. Lavoravamo incessantemente dal pomeriggio. La notizia era circolata e le persone che avevano dei cari a Milano, non vedendoli rientrare, chiamavano noi per avere notizie.
Il telefono non smetteva mai di suonare.
Nomi e cognomi scanditi con voce rotta a noi cronisti. Si scorrevano in fretta gli elenchi delle vittime e dei feriti negli ospedali.
Un sospiro di sollievo quando nelle liste che stavano su tutte le scrivanie non c’era traccia di quella persona.
Erano le 22.45 quando mi chiamò quella donna.
Non potrò mai dimenticarlo.
“Sono la moglie di Eugenio Sarpi. Mio marito è uscito oggi per andare in centro. Non è ancora tornato a casa. È successo qualcosa? Voi sapete qualcosa?”
Mi misi a spulciare le liste.
Elenco dei feriti suddivisi per ospedali, elenco degli impiegati della Banca Nazionale. Elenco delle vittime. Eugenio Sarpi, commerciante, 49 anni, nato a Cascina de’ Pecchi ma residente a Ronchetto sul Naviglio in via Battisti 19.
Era sulla lista dei morti.
Una mano sul ricevitore. Non ce la facevo a dare la notizia così. Mi tremavano le gambe.
Finsi indifferenza: “Signora, mi dia il suo numero di telefono. Dobbiamo controllare molti elenchi. Se troviamo qualcosa che riguarda suo marito, stia sicura che la richiamiamo”.
La donna chiuse la chiamata con un sospiro, chissà se di angoscia o di sollievo.
Mi lanciai sulle Pagine Gialle sull’altro capo della scrivania. Cercai “Chiesa Cattolica”. Il numero del parroco di Ronchetto.
Scaricai su di lui il peso della notizia a una famiglia ancora ignara.
Quando attaccai la cornetta col sacerdote, mi chiusi in bagno a piangere per mezz’ora.
Felice Cardinali
Io e mio papà quel pomeriggio eravamo partiti subito dopo pranzo per andare a Milano: andavamo al mercato del venerdì. Il mercato iniziava verso le cinque, ma papà voleva arrivare per tempo, per cui alle tre eravamo già in città. Ricordo che siamo entrati in banca un po’ prima delle tre e mezzo.
Papà mi ha congedato: “Fatti un giro”. Avevamo appuntamento per le quattro, quattro e un quarto.
Ho tardato un po’ perché mi son fermato alla Rinascente. Qualche regalo, un occhiatina alle vetrine, insomma.
Davanti alla porta della banca ho visto solo una fiammata. Poi più niente.
Mi son svegliato all’ospedale. Al Fatebenefratelli.
Stavo male. Il braccio sembrava me lo mangiassero i cani.
Però mi sono alzato lo stesso. Ho chiesto di mio papà.
C’era un trambusto che non le dico.
Un medico lo conosceva. Era nostro cliente: veniva su da noi, alla Ghisolfa, a prendere il latte.
Mi disse che andava a vedere.
Dopo dieci minuti torna e mi dice che per il povero papà non c’è stato niente da fare.
Mi dice anche di mettermi a letto, che sono grave, che perdo sangue. Ma a me non interessa.
Corro al telefono a gettoni. Erano le dieci di sera.
Chissà a casa mia com’erano preoccupati …
Squilla, squilla e squilla, da noi non c’era nessuno.
Così faccio il numero di mio zio e gli dico: “Zio, zio! È successo un disastro. Il papà è morto!”
Di là non sento più niente, solo un pluf! un tonfo. E poi una voce — era mia madre — che urla.
Gli era preso un infarto al povero zio. È caduto secco e si è rotto la testa.
Io per lo spavento e il dolore son svenuto lì, in corsia.
Paolo Spampinato
All’epoca dei fatti avevo dieci anni.
Ero tifosissimo dell’Inter, la grande Inter di Mazzola e Facchetti. Avevo le loro foto nella cameretta, collezionavo le Panini, diventavo matto, insomma.
Quel pomeriggio l’unica cosa che avevo in mente era di andare a giocare a pallone, nel campetto di via Forze Armate, dietro casa mia.
Ma la mamma prende me e mia sorella – che allora aveva sedici anni – e ci fa: “Ragazzi, è una bella giornata. Fate due passi. Andate in centro. Guardate le vetrine. Magari vi viene un’idea per i regali di Natale. E tu, Eleonora, ne approfitti per pagare questa cambiale che scade”.
Eravamo in fila allo sportello quando è successo.
Io non mi ricordo quasi niente. Avevo perso conoscenza.
Mia sorella, invece, è restata vigile. Anche dopo tutto il casino.
Mi ha raccontato che ci hanno portati di volata all’ospedale. Io sono rimasto sei ore in camera operatoria.
Ho dormito per giorni, sotto sedativi. Giorni in cui la notizia ha fatto il giro di Milano.
C’era perfino una mia foto sul Corriere. Una foto di scuola, col grembiule nero e il colletto bianco, inamidato.
Io non so come l’abbiano saputo, merito dei giornalisti probabilmente. Fatto sta che quando apro gli occhi, all’alba dell’ottavo giorno dall’operazione, me li vedo lì davanti.
Erano in piedi, con l’aria di chi non sa proprio cosa dire e ha voglia di piangere.
Mia madre mi ha guardato e mi ha chiesto: “Paolo, li riconosci?”
Ho messo a fuoco con fatica.
E in un sussurro: “Mazzola… Facchetti…”
Erano venuti per me. Avevano attraversato tutta Milano ed erano lì per me.
Parlammo per ore. Io quasi svenivo dal dolore, ma non potevo mica farmi sfuggire l’occasione…
Quando se ne andarono, sembravano distrutti.
Io uscii solo allora dal mio stato di trance.
Sollevai il lenzuolo. E mi accorsi di non aver più la gamba destra.
Milano, 12 Dicembre 1969
Camera a volo d’uccello sulla città.
Sfere gassose anonime, grigio chiaro.
Nessun sonoro. Solo il sibilo del vento, tagliente.
Scende in picchiata, il cielo intorno diventa scia.
Si blocca al centro della piazza.
Inquadra la cattedrale: bianca e nera.
Un enorme albero di Natale con un minuscolo puntale dorato in cima. A forma di Madonna.
Camera ad altezza uomo, immersa nel lento serpentone di gente che scivola tra le luminarie. Ruota di 180°, riprende persone coi pacchetti, le sciarpe, i cappotti pesanti.
Allarga sulla facciata del palazzo.
Zooma sull’insegna: “Rinascente”.
Ridiscende al livello del terreno e fa un lungo piano sequenza sulle vetrine.
Inquadra biscotti: Legacci, Canestrelli di Pontedecimo, Novarini di Camporelli, Krumiri di Casale. Infine, le spalle di un uomo.
Allarga.
Piano americano sull’uomo, sempre di spalle.
Cappotto nero, cappello nero, guanti di pelle nera. Nella mano destra, una ventiquattrore.
L’immagine traballa. Il movimento non è più fluido. Qualche piccola scossa di assestamento.
Camera a mano.
L’uomo cammina lento, di tanto in tanto sbircia l’orologio.
A lato dell’inquadratura, in alto a destra, appare un quadrante digitale. I led rossi dicono 16.16.
La camera segue l’uomo, procede in linea retta. Ogni tre passi, ritmicamente, si volta sui due lati.
Duomo a sinistra, Palazzo Reale a destra.
16.18.
L’uomo arriva nella piazza. La camera si ferma.
Fish-eye: la piazza in grandangolo. Una figura nera, sottile, che entra nella banca.
L’edificio d’inizio secolo.
Tre piani, solido, sobrio.
I led lampeggiano: 16.18.
L’insegna, dorata: “Banca Nazionale dell’Agricoltura”, in cima alla facciata sul cornicione del terzo piano.
La camera zooma fino tuffarsi dentro l’insegna.
È passata.
Interno giorno. Inquadratura dall’alto.
Al centro la cupola, trasparente, di vetro.
Sotto l’ampio atrio, la “rotonda”.
Panoramica a tre e sessanta.
L’atrio è circolare, venti metri di diametro. La camera ruotando riprende l’entrata dell’uomo dall’ingresso principale. La tesa del cappello gli copre il volto.
L’inquadratura non si sofferma, continua la rotazione.
Clienti in coda agli sportelli, mediatori e agricoltori. Tutti cercano un posto a sedere all’ampio tavolo ottagonale al centro della sala.
Il tavolo è alto ottanta centimetri.
Ricoperto da strati di mogano, protetti da una spessa lastra di cristallo.
Ognuno degli otto lati del tavolo è largo poco più di un metro.
A ogni lato corrisponde una sedia, di pelle marrone.
L’uomo prende posto su una sedia vuota. 16.20
La camera è di nuovo su di lui, solo la testa fuori dall’inquadratura.
L’uomo spinge la ventiquattrore sotto al tavolo, al centro della “rotonda”. 16.21
Tira fuori una penna, compila un modulo, se lo mette in tasca. 16.24
Camera fissa sulla valigia. L’uomo si alza, esce dall’inquadratura.
La valigia rimane sotto al tavolo. 16.25
Obiettivo sulla valigia, accelerazione temporale.
Le cifre del led scandiscono i minuti in rapida sequenza: 16.25-26-27-28-29-30.
Schermo bianco.
Stacco. Sonoro.
La piazza. La gente coi pacchetti, i cappotti, le sciarpe.
Un rumore sordo. Cupo. Che viene dal ventre stesso della terra.
La valigia esplode.
Dentro la valigia, una cassetta di metallo.
Onda d’urto. Schegge incandescenti ovunque.
La fiammata vola verso l’alto, come un vulcano.
Tremano le pareti, i pavimenti, le luci accese nelle case, negli uffici, nei negozi.
Sembra il terremoto: non è il terremoto.
Le vetrine sull’esterno si gonfiano, come palloncini.
Per un intero secondo, prima di esplodere e sparare proiettili di vetro.
Due corpi volano insieme ai frammenti. Si abbattono sul marciapiede. Rantolano e respirano ancora.
Le vetrate che dividono gli uffici dalla cupola si spezzano. Calano come ghigliottine.
Maschere di sangue. Ventri squarciati, brandelli.
Il fuoco impazzito tritura il tavolo, polverizza le sedie, stritola le macchine da scrivere, schianta in mille pezzi banconi e armadi.
Le macchine da scrivere divengono magli. Investono i corpi che si parano davanti. Percuotono, sfondano, smembrano.
Lamiere roventi per la vampa diventano falci: entrano nelle persone, recidono, mozzano.
Poi, ancora, le schegge: legno, vetro, acciaio.
Quelle più grosse bucano i vestiti, si tingono di rosso e di nero.
Le più piccole si fondono alla carne, alle ossa, come denti di drago si conficcano nel cervello.
E fanno urlare.
Dentro all’edificio odore acuto d’esplosivo, quello acre del fumo, quello dolciastro e ramato del sangue.
Un uomo, all’altezza della clavicola, ha un ammasso di sangue. Il braccio non c’è più. Staccato di netto.
Sul pavimento poltiglia e detriti, vetri e cenere.
Una donna completamente carbonizzata è un tutt’uno coi suoi vestiti. Solo il viso è stato risparmiato dalla vampa. E piange mentre striscia.
L’orrore è al centro, vicino al cratere dove stava il tavolo ottagonale.
Solo carne umana tutt’intorno. Viscere e ossa. Materia cerebrale e tronchi sfondati. Una testa è quasi del tutto separata dal corpo.
Un ragazzo in divisa è il primo dei soccorritori.
Scorge una mano che si agita. Stringe quella mano. Tira forte. Stretto nel suo palmo rimane giusto un braccio.
È scoppiata la bomba in Piazza Fontana.
[Simone Sarasso, classe ’78, ha lavorato in un’agenzia di stampa e come illustratore per riviste underground. Oggi fa il maestro di sostegno in un asilo. Ha pubblicato alcuni racconti in antologie.
Confine di Stato, il suo romanzo d’esordio, è il primo volume di una trilogia noir sui misteri e le trame della Storia d’Italia dal Dopoguerra a Tangentopoli. ]