di Tito Pulsinelli
[Torniamo sulla vicenda della supposta “chiusura” di RCTV in Venezuela perché è la cartina di tornasole dell’ignoranza, del pregiudizio ideologico, della faziosità di tanti giornalisti italiani ed europei. Un esempio. Ieri, 11 giugno, sul canale satellitare Rai Educational 2, il programma Tv Talk si è occupato del caso. Il conduttore, senza accorgersi della involontaria comicità, ha dichiarato di avere scoperto che RCTV è un “canale di prim’ordine”, tanto è vero che trasmetteva (e trasmette, solo che non più in analogico) una propria versione di Chi vuol essere milionario? Non sto scherzando, lo giuro. Presente e riverito, l’ineffabile Toni Capuozzo, richiesto del perché ciò possa avvenire in Venezuela, rispondeva che là la borghesia di laggiù non è “abbastanza aggressiva”. Si vede che due tentativi di colpo di Stato non gli sono bastati. Inutile dire che definiva Chávez “caudillo rosso” e simili. Per conoscere cosa fosse RCTV basta guardare il suo sito. Vi dominano le tre T: Tette, Telenovelas, Telepromozioni. Inoltre un imperativo: che ogni attore / attrice abbia la pelle rigorosamente bianca (in un paese in cui la maggioranza degli abitanti ha la pelle scura). Merda che farebbe apparire i canali Mediaset un cenacolo di intellettuali.] (V.E.]
Nelle ultime due settimane ho ricevuto varie lettere di amici spagnoli e italiani, allarmati dall’informazione a elevato contenuto tossico spacciata dalla megamacchina della comunicazione, dopo che il governo venezuelano non ha rinnovato la concessione della frequenza televisiva a RCTV.
Sorprende che nei Paesi dove il mercato delle immagini è relativamente diversificato ed è attivo un importante settore pubblico, si siano levate grida di condanna, anatemi e censure contro un governo colpevole di ridimensionare un monopolio privato. La sostanza: controllava il 90% della rete di radio e televisioni, adesso è sceso al 76%.
I falsari della comunicazione globalizzata hanno raccontato una storia a uso e consumo degli interessi dei loro proprietari. Parlano di chiusura di un canale e selvaggia repressione poliziesca contro studenti e cittadini, accorsi a difendere una residuale libertà di espressione minacciata da un tiranno tropicale.
Insomma, hanno creato negli studi la fiction “Caracas brucia!”, e la catena di montaggio mediatica ne rilancia l’eco distorta, ma la sostanza è questa: il canale RCTV passa a trasmettere via cavo (digitale terrestre) e satellite, tra proteste di gruppi minoritari, fronteggiati dalla polizia schierata a difesa degli edifici pubblici.
La CNN ha cercato di rendere più credibile o verosimile la fiction, facendo ricorso ai trucchi dozzinali dell’avanspettacolo mediatico. Ha dovuto fare autocritica pubblica per aver accompagnato le cronache del loro inviato a Caracas con immagini di manifestanti repressi con ferocia dalla polizia, solo che erano state registrate in… Messico (sic). Il quotidiano spagnolo El Paìs ha dovuto smentire l’iniziale versione dell’omicidio di una studentessa, strumentalmente e frettolosamente — ma non casualmente – attribuito a sicari al soldo di Chavez (ri-sic).
Nel Paese in cui un comico viene bollato come “terrorista” dal bollettino del Vaticano, subito dopo aver espresso opinioni sgradite, le redazioni avrebbero liquidato la questione in questo modo: “Gruppi estremisti dell’opposizione sono stati dispersi dalle forze dell’ordine, che erano state bersagliate con lancio di pietre e altri oggetti contundenti, sotto lo sguardo compiaciuto e la protezione di operatori televisivi-fiancheggiatori dei facinorosi. Agivano con il volto coperto”.
Eppure, nel mese di dicembre, il governo di sinistra moderata dell’Uruguay ha revocato la licenza a due radio, 94,5 FM e Concierto FM Montevideo. Ad aprile, il governo filo-USA di Alan García ha chiuso due canali di televisione e tre circuiti radiofonici peruviani, per non rispettare la legge che regolamenta le trasmissioni o per usare illecitamente tecnologie non autorizzate. Mentre scrivo, sono state chiuse sette stazioni radio in Brasile: secondo le autorità interferivano con i radar dell’aeroporto di Sao Paulo
Che cosa dissero — o fecero – quegli organismi intenazionali che si sono sgolati per denunciare i pericoli a cui sarebbe esposta la libertà d’espressione in Venezuela? Assolutamente nulla. Silenzio sepolcrale anche da parte del senato degli Stati Uniti, del Brasile, Cile e dei notabili che parlano a nome dell’Unione Europea. Scena muta anche delle agenzie stampa, delle assortite commissioni dei diritti umani, conferenze episcopali, Reporters sans frontières, ecc.
Due pesi e due misure caratterizzano il relativismo morale di questo variegato fronte schizofrenico. In un caso, sfoggia una estrema ipersensibilità e bara goffamente, nell’altro fa come le tre scimmiette che si tappano occhi, bocca ed orecchie.
E’ raccappriciante, però, il cinismo di Fox News e CNN che hanno rilanciato ai quattro angoli del mondo la sceneggiata di Alan García mentre “eleva una vibrante protesta contro l’atto liberticida del governo venezuelano, che sta seppellendo la libertà di informazione”. Il bue dà del cornuto alla renna.
Evidentemente siamo arrivati alla “libertà d’espressione” a estensione variabile, in ultima istanza subordinata agli equilibri geopolitici o all’orientamento dei governi graditi alla cupola dei G8.
C’è l’arroganza di ritenere che la concessione governativa di una frequenza si trasformi in acquisizione definitiva, con annesso diritto a tramandarla in eredità ai discendenti. Il nuovo diritto neoliberista confonde la nozione della proprietà con quella di uso in concessione di un bene pubblico: tutto è mio. Lo Stato dovrebbe rinunciare definitivamente alla sovranità nel settore delle comunicazioni, solo così otterrebbe il brevetto democratico a denominazione d’origine controllata.
Il ricatto della “libertà d’espressione” nasconde male l’intenzione di rendere impossibile ogni regolamentazione degli indirizzi e dei contenuti imposti dai proprietari della comunicazione al pubblico. Il diritto privato è illimitato, in ogni caso superiore a quello sociale. La libertà d’espressione, se viene disgiunta dal diritto all’informazione diversificata e plurale, diventa un alibi per la concentrazione monopolista della comunicazione, e per la sua intangibilità.
Attualmente, nulla può impedire a Rupert Murdoch, e altri quattro compari del racket globale, di mettersi d’accordo e imporre le emergenze, le tematiche, persino l’ordine del giorno alle screditate e omologate classi politiche. Oppure l’argomento spettacolarizzato che deve polarizzare l’attenzione internazionale. Forniscono un prodotto multimediale venduto “chiavi in mano”, a cui attingono e si adeguano i forgiatori seriali di “opinione pubblica”, i nuovi sacerdoti del mondo secolarizzato.
La politica, divenuta a tutti gli effetti uno spettacolo, è una tossicopendente dei proprietari della comunicazione e dello spettacolo. I politici — dopo la disintegrazione dei partiti – hanno bisogno della televisione come gli zoppi delle stampelle. Li lega un cordone ombelicale che ne suggella la dipendenza reciproca e inconfessabili connivenze.
Il monopolio televisivo venezuelano arrivò a mettere al bando un Presidente della repubblica reo di aver firmato una legge che proibiva la pubblicità degli alcolici. Lo fecero scomparire dagli schermi. Allo stesso modo, oggi sono possibili operazioni del tipo “Caracas brucia!” — o Belgrado, Kiev, Tblisi, Mosca, Kirghizistan – se sono minacciati gli interessi della dittatura mediatica o quelli delle loro pedine disseminate alla testa dei vari feudi nazionali.
Il “quarto potere” non esiste più perchè è stato assorbito dal potere economico. E’ privo di autonomia perchè è incorporato alle banche, alle multinazionali o alla Borsa, che lo gestiscono direttamente come una propria diramazione. Applicano con disinvoltura i dettami della guerra psicologica previsti nei manuali militari. Attualmente li si usa contro la società civile, anche quando la belligeranza armata non è alle porte.
Non c’è dubbio che sottrarre una quota del mercato televisivo a un monopolio privato è un pericoloso “messaggio sbagliato”, intollerabile, diseducativo, poiché resuscita l’urgenza della comunicazione diversificata e plurale. La necessità della sua proprietà sociale è prematuramente sotterrata come arcaismo velleitario. L’impatto sociale delle corporazioni monopoliste ha un triplice aspetto: economico, politico ed etico.
La RCTV raggranellava 250 milioni di euro di gettito publicitario. L’influenza nella vita politica, però, era sicuramente l’aspetto più considerevole e ne faceva il nucleo duro e golpista di quel “partito mediatico” che in Venezuela ha cercato di rimpiazzare il sistema dei partiti. Questo esplose il 27 di febbraio del 1984, quando Caracas fu teatro di sacheggi di massa, frenati con il coprifuoco e innumerevoli vittime.
E’ stata la prima sollevazione di massa contro un “pacchetto” di restrizioni economiche “made in FMI”.
L’aspetto culturale, invece, va oltre la fabbricazione di orientamenti meramente politici o l’induzione del consumismo. Sconfina verso la diffusione di identikit comportamentali, scampoli di tratti caratteriali leciti o compatibili con la nuova moralità sociale neoliberista.
Il livello della manipolazione mediatica è talmente elevato che ingenera una alterazione che in Venezuela è stata definita “dissociazione psicotica”. Nell’epoca in cui il cartaceo vidimato in Borsa tiranneggia, e il capitale finanziario fa inginocchiare quello produttivo, la comunicazione monopolizzata prefabbrica i nuovi valori del nichilismo economico.
Regis Debray sostiene che la dittatura mediatica “amministra quotidianamente i sacri valori della comunità, che attualmente non derivano più dalle Sacre Scritture o dal Dogma ma dall’Etica e dal Diritto” (1). Nel clima morale predominante nelle latitudini ad alta densità industriale, accentuatamente atee, agnostiche o laicizzate, diventate importatrici nette di sacerdoti, l’istituzione mediatica ha preso il sopravvento anche su quelle religiose.
Il Vaticano ha rinunciato alla scomunica, ma questa si è modernizata nella forma del linciaggio mediatico o anatema umanitario scagliato dalle antenne dai difensori della democrazia di mercato. Gli operatori dell’informazione assomigliano sempre più ai telepredicatori protestanti o a funzionari moralisti visibilmente devoti al mercato della democrazia.
Editorialisti, opinionisti, ancore e salvagenti, censori avventizi o tanto-al-pezzo, ospiti abituali e saltuari dei salotti televisivi, divulgatori e banalizzatori radiofonici, compongono la catena di montaggio della mistificazione e dell’inganno.
Il loro alibi è: “l’ha scritto il Financial Times”, oppure “è un abbaglio ottico di CNN”, o “l’ha detto Ferrara”. Questo corporativismo autoreferenziale è quanto basta per trasformarsi in falsari e far parte del giro che conta.
E’ un’amalgama indifferenziato che agisce all’unisono, dai livelli più alti (Times, Le Monde, La Repubblica) fino all’indotto periferico come il quotidiano “Liberazione”; da Luttwack a Vespa, da Riotta fino alla Nocioni. La sintonia omologata risplende con solare evidenza sui temi internazionali o nel lavorìo di preparazione delle guerre di aggressione, in gergo “operazioni umanitarie”.
L’operato di questa “Brigata Intellettuale di Rapido Intervento” (R. Debray) è stato esemplare prima e durante la guerra “umanitaria” contro la Jugoslavia. Ha continuato a essere definita tale, nonostante che nell’ultimatum di Rambouillet, imposto dalla NATO, si faccia menzione esplicita di privatizzare la sua economia e aprire le porte agli investimenti occidentali. La privatizzazione è un diritto umanitario?
Il nuovo minimalismo etico che si è cristallizzato intorno al dogma della “democrazia-diritti umani”, consente di tollerare Parvez Musharraf e la dittatura pakistana, non i governanti sudamericani che hanno sì trionfato nelle elezioni, ma si sono poi macchiati di orrendo “populismo”. La democrazia e i diritti umani è imperativo esportali a Teheran, non in Arabia Saudita o negli Emirati del Golfo. La libertà d’espressione è in bilico in Venezuela, non in Messico come segnala Amnesty International.
Questo è l’orizzonte in cui si muovono le due correnti del neoliberismo, entrambe irriducibilmente nemiche della sovranità nazionale, dell’autoderminazione e della non-interferenza nei problemi interni di altri Paesi. Il neoliberismo di sinistra si è altresì mostrato incapace di impedire che le privatizzazioni delle economie statali dessero vita a monopoli privati. Per questo partecipano al coro stonato degli esecratori professionali, contro l’inizio del settore pubblico nella televisione venezuelana.
(1) Ignacio Ramonet, La post-television, Icaria-Antrazyt, 2002.