[E’ in libreria il formidabile saggio Scrittori e potere nell’antica Roma, una serie di incursioni folgoranti di Luca Canali nella tradizione classica latina. Pubblico di seguito la prefazione al libro, che il grande latinista mi ha concesso l’onore di scrivere pr il suo testo. gg]
Il panopticon di Luca Canali
“Gran parte delle storie letterarie o non sono letterarie o non sono storie”. E’ l’incipit che prepara la salita di tono orchestrata da René Wellek nell’introdurre la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, che raggiunge l’acme dell’entusiasmo poche righe più avanti: “Quando dichiarai che [quella di De Sanctis] è ‘la più bella storia letteraria che sia stata mai scritta”, volevo esprimere tutta la gioia che avevo provato nel constatare che De Sanctis era riuscito a scrivere una storia letteraria che era al tempo stesso storia e letteratura”.
La prefazione a Scrittori e potere nell’antica Roma potrebbe arrestarsi qui, non nel parallelo, ma nella perfetta coincidenza che si stabilisce tra la panoplia allestita da De Sanctis e quella offerta da Canali.
In questa coincidenza, tuttavia, si gioca moltissimo: il ruolo della critica e il suo esito effettivo, le modalità con cui la critica si conduce al sommo della maturità — oltre che, e non va da sé, il deposito aureo che essa costituisce per il presente e il futuro di quella torma bizzarra di addetti ai lavori che fanno da soggetti attivi di ogni critica letteraria: cioè gli scrittori.
Alcuni uomini giungono, intridendosi di sapienza e di erudizione e di esercizi di cortocircuitazione tra testi e storia, a una sorta di facilità espositiva, di brevità allusiva che mantiene tuttavia i caratteri della sentenza definitiva. Càpita a rari pandit occidentali e Luca Canali va annoverato in questa schiera. Esempi sono a portata di chiunque: due pagine sul “tragico” secondo Szondi, e tutto è detto; dell’effetto-Spitzer, noi che ancora siamo sotto la sua governance mercé il Novecento italiano col suo peso morto che ci grava sulle spalle, è stato detto tutto, moltiplicando per milioni le brevi pagine del critico stilistico. Lo stesso De Sanctis agisce in questo modo; apro a caso, in tempi di Arcadia: “La letteratura era a quell’immagine, vuota d’idee e di sentimenti, un gioco di forme, una semplice esteriorità”, col che si allude ai rapporti tra interiorità ed esteriorità secondo una ben precisa teoria della letteratura che costringerà Croce a una crociata hegelo-italiana, oltre che a una sotterranea e implicita sistematica dei rapporti tra cognitivo, emotivo e canone formale; il tutto, connesso a una visione storica dell’Italia di quel periodo, è detto in tre righe.
E’ ciò che accade qui: Canali raggiunge questa capacità che non possiamo definire concinnitas critica, anche se si tratta di un’armonia senza sprechi, senza sottintendere una complessa consapevolezza degli universali che sono in gioco: il rapporto tra ideologia e stile, tra esistenza e scrittura, l’essenza del potere e la sua esteriorizzazione, le dinamiche storiche delle forme e quelle metastoriche delle “potenze” che fanno da sempre la letteratura (il “tragico” e l’“epico” e il “lirico” sono per Canali archetipi mobili e radianti che generano forme via via storicamente condizionate). Se mi avessero annunciato un libro su tutta la letteratura dell’antica Roma nei suoi rapporti col potere in un volume di pagine così contenute, avrei reagito con la sensazione di approcciarmi a un bigino, non certo a un testo che, nella sua didattica e piana comprensibilità di ritratti e descrizioni dei processi storici, occultasse una sapienza così articolata di quanto viene prima e viene dopo l’età classica latina, dal suo insorgere al suo decadere. Invece il grande critico fa così: Henri Meschonnic si appoggia a Hugo e in poche righe ecco che il Novecento viene superato nuovamente dall’Ottocento: “Hugo non poteva strapparsi poeticamente alla schizofrenia ideologica che fonda l’occidente cristiano. Il teologico-poetico, il teologico-politico sono potenze non esauritesi. Stanno dalla parte che Breton definisce col segno meno. Hugo, al di là di se stesso, presenta il segno più” (Henri Meschonnic, Hugo, la poésie contre le maintien de l’ordre, 2002).
Ho citato passi che sono in nitida consequenzialità con l’andamento ottico e stilistico che Luca Canali impegna in questa titanica opera di sussunzione che ha i tempi brevi di un Big Bang (per la nostra contemporaneità, ma questo verrà chiarito di seguito). Se c’è un problema riguardante la valutazione della storiografia romana antica (e c’è: da un punto di vista sociologico, ideologico, di metodo), Canali recide ogni dubbio e al tempo stesso ogni dubbio include: “D’altra parte, è da tempo ben noto che la tradizione biografica e storiografica latina – tutta di parte aristocratica e senatoria – eccettuato il solo Velleio Patercolo – fu rigidamente avversa agli imperatori che si spinsero molto avanti nella tutela di interessi “borghesi” e persino “popolari”, anche in materia monetaria, quali furono Caligola e Nerone”. E qui siamo a livelli in cui la visione del critico, appoggiandosi ben oltre la valutazione personale, ovvero facendo ricorso a elementi storici ed economici oltre che alle testimonianze individuali, può apparire un esercizio comprensibile. Ma è quando l’accumulo di auctoritas si fa insostenibile che la brevità dittoria di Canali appare come una guida indiscutibile, una boa a cui aggrapparci, parole che trapassano millenni e giungono a compiere il proprio compito, che è l’aumento delle capacità di immaginario dello scrittore a contatto con la critica. Uno di questi memorabili passaggi, di cui il libro è il risultato di una mirabolante compressione, riguarda Petronio e riguarda noi tutti: “Petronio è una sorta di Balzac antico, capace di narrare — senza intenzione di censura, con il disprezzo assorbito dall’oggettività — la vicenda sordida e trionfale dei ceti che avevano distrutto i ‘moscardini’ o le mummie dell’ancien régime”. Col che, en passant, si afferma che Petronio fonda, col Satyricon, il romanzo moderno. Di più: addentrandoci nella splendida metopa (che ricorda certi màndala orientali) che Canali dedica a Petronio, ci si convince irreversibilmente che Petronio fonda non solo il romanzo moderno, ma anche quello contemporaneo e quello che preme dal nostro futuro — e anche questo sarà chiarito di seguito. Il caso di Petronio è probabilmente la controprova più evidente del gigantismo valutativo di Canali e per questo va affrontato a parte.
Intanto ho estratto un termine, “metopa”, che è il più adatto a descrivere l’operazione di costruzione di cattedrale operata dall’eminente antichista, critico e scrittore in proprio Luca Canali: siamo infatti di fronte all’edificazione di un tempio. Ogni capitolo è una metopa, un bassorilievo in sé conchiuso eppure in continuità coi precedenti e i seguenti. Ogni metopa è una metopa, quindi non si distanzia materialmente da quella che le succede, e tuttavia al suo interno non solo la storia narrata è diversa, ma lo stile adottato è sensibilmente eterogeneo quanto a tono o volume. Ci sono metope apicali: i capitoli dedicati a Sallustio e Tacito e Giovenale, soprattutto, colpiscono per espressionismo stilistico e visionario. E ci sono chapitre-répos: a sorpresa, quello dedicato a Virgilio, a Seneca e quello in cui emerge un Orazio alternativo, che defrauda i contemporanei dell’olimpica perfezione sotto cui tutti pensavamo agisse una sorta di distacco illuminato, di sguardo cristallino su un mondo definito classicamente nella sua perfetta stabilità. L’apice della cattedrale è il ritratto, a intensità teoretica impressionante, che Canali fa di Petronio. Ma un tempio non è fatto di metope soltanto e nemmeno di architetture: è fatto anche di funzioni, simboliche o apotropaiche o pronte a spingere l’umano verso il noli foras ire, redi in te ipsum: in interiore homine habitat veritas (è l’Agostino platoneggiante, e quindi pagano, delle Confessiones). E tali potenze sono esplicitamente dichiarate dal titolo del libro: sono la scrittura e il potere, che si snodano secondo un programma strategico che l’autore delinea con un tratto di una brevità sconcertante: “Non di problemi politici tout court stiamo parlando, bensì di politica in quanto ‘concezione del mondo’ o, più modestamente, di atteggiamento verso se stessi e verso la vita”. Metodo su cui Canali varia, metodo che via via occulta e rivela, senza tuttavia venire meno alla fedeltà verso questa direttiva autoimposta.
Ne deriva una storia che compila ascesa e caduta non solo di una civiltà e di un impero (si arriva alle soglie della vittoria a tutto campo della prospettiva cristiana), ma di un intero immaginario che ha forgiato, appoggiandosi sul precedente classico greco, nuove forme e nuove visioni, fino all’esito conclusivo, che adombra sospetti di riferimento alla nostra età attuale, laddove l’impero vada sostituito con “Novecento” o “Cattolicesimo”, a piacimento del lettore: “Ci si avviava ormai ad un periodo di rassegnazione alla realtà delle cose, comunque queste fossero, di carenza ideale, di strane miscele religiose, fra le quali sarebbe riemersa martirizzata, ma infine vittoriosa, la religione cristiana. Cominciava una sorta di palude, non tanto e non solo politica, ma anche letteraria e filosofica”. Considerando il dinamismo di quella palude (la riforma di una globalizzazione dell’occidente sotto ben altro segno: in hoc signo vinces), le analogie col contemporaneo si fanno inquietanti e, probabilmente, calcolate dall’onnivisione che Canali rende carsica ed emersiva nel suo testo.
Spinte sulla contemporaneità: potere e scrittura
Un dato storico che, a ogni capitolo, Canali enuncia con distacco proporzionale alla nostra sorpresa, è la facilità con cui il grande scrittore latino avvicina — o addirittura incarna — il potere. Anche da questo dato, praticando un metodo di lettura sintomale che il Novecento ha superfetato e che però non è privo di intrinseca validità, possiamo osservare una fenditura nel testo, che apre un autentico abisso: lo scrittore, oggi, avvicina il potere? Dov’è il potere, storicamente? E, spingendo ai massimi il sospetto: dov’è lo scrittore? O meglio: dato per scontato che gli scrittori esistono anche oggi, a quale rapporto col potere fanno riferimento?
La questione è spinosa a causa dell’immensa distanza di tempo che ci separa da ciò che Canali analizza, ma non va ignorata, se il metodo di Canali è per l’appunto quello di fare risaltare anche, ex implicito, le potenze metastoriche che creano la letteratura — e il nesso potere-letteratura è una delle questioni metastoriche valide in ogni tempo e in ogni luogo. Se ammettessimo che al giorno d’oggi l’equivalente dell’Impero sono gli Stati Uniti, c’è un unico scrittore che potrebbe finire a buon titolo nella casistica di cui qui si tratta: sarebbe il Tom Wolfe che produce l’orrenda e finta epica di Io sono Charlotte Simmons, librone pensato durante i tè alla Casa Bianca, consumati grazie ai ripetuti inviti della famiglia Bush. Sarebbe semplicistico, tuttavia, immaginare che il potere abbia oggi un luogo, e per decostruire l’immaginetta non tanto sacra degli Stati Uniti quali topica imperiale sarebbe sufficiente leggersi con attenzione la prefazione del generale Fabio Mini al suo saggio La guerra dopo la guerra (Einaudi, 2003).
Si tratta però di una discussione vacua, per mancanza di omogeneità storica rispetto all’Antica Roma, all’incredibile cerchio magnetico in cui l’urbe e il suo centro imperiale venivano costituendo un archetipo immarcescibile dell’immaginario collettivo di ogni tempo, sia sul piano politico sia sul piano letterario. Una via di uscita, però, sembra offrirla lo stesso Canali: ed è Seneca. Va detto che il libro pullula di archi voltaici sorprendenti, che connettono la stretta fascia temporale degli analitici di Canali alla storia della letteratura e della filosofia postuma a quel periodo. Si è già visto, con Petronio, evocare Balzac, ma ci sono evenienze ancor più sconcertanti: “In Catullo v’è una straordinaria novità; il micidiale contrasto racchiuso nel binomio odi et amo (cioè la scissione fra la passione dell’eros fisico e il voler bene, e più ancora tra il bene velle minus e l’amare magis), che dopo secoli potrà essere considerato la radice sodomitica in nuce dell’ ‘erotismo del disprezzo’, in De Sade”; “Catullo è il più ‘romantico’ dei poeti ‘classici’: l’esatto contrario di Leopardi, il più ‘classico’ dei ‘romantici’”; “L’opera scritta augustea viene cancellata dall’epistolario sacro di Paolo di Tarso”; su Virgilio, “quelle armi saranno più neoclassiche che classiche”; “Completamente errato appare dunque il giudizio del critico e saggista Saint-Beuve, che ritiene Orazio il più sereno dei poeti latini”; e, su Seneca appunto, “può essere considerato un precursore della concezione di una moralità ‘caso per caso’ – quella che sarà denominata la ‘casistica gesuitica’, in contrasto con l’inflessibile moralista – il male, piccolo o grande che sia, in qualsiasi tempo, luogo, circostanza lo si commetta, è sempre male – che sarà Giansenio”.
Di Seneca, Canali mette in luce l’ambiguità: del resto, il capitolo che lo riguarda si intitola Seneca, un uomo in prestito, con maliziosa allusione al distacco rispetto al mondo di matrice stoica e contemporaneamente al pendolarismo machiavellico che fa di Seneca il consulente di un matricidio e il suicida per ordine imperiale. Il centro del personaggio è dunque l’ambiguità. Un’ambiguità che prosegue quella che si annunciava attraverso i delicati e perfezionistici nicodemismi che Canali evidenziava a proposito di Virgilio.
Questa ambiguità è moderna e, di più, è contemporanea.
L’ambiguità interna alla scrittura è il rapporto con il potere ed è il suo valore d’immaginario, di forza trainante germinale e creatrice in una realtà che, a prima vista, proprio per la vaporizzazione del potere e dell’io, sembrerebbe rendere esausta la capacita veritativa e incantatoria di ogni immaginario. Del resto, se c’è una vocazione forte nel romanzo contemporaneo (dal sogno del “grande romanzo americano” a quanto accade in Europa, e penso allo Houellebecq de La possibilità di un’isola tanto quanto a un romanzo come Harmonia Coelestis di Esterházy) è quella all’epica: un’epica in epoca di massa, un’epica non riconosciuta come epica, il che del resto è quanto accadde all’Eneide rispetto all’ambizione virgiliana di avvicinarsi a Omero, che non aveva alcun committente, tantomeno un imperatore ambiguo come Augusto. E’ la storia della letteratura (e Dante all’apice) a definire come fattuale l’epica augustea di Virgilio, non certo la comunità che ne esprimerebbe il fantastico e, di fatto, non lo esprimeva.
Tutto ciò è estremamente contemporaneo, proprio perché è classico. La nostra situazione, che segue un secolo che, ai suoi vertici, fa i conti con la centralizzazione dell’io e la prospettiva messianica (e penso tanto a Proust quanto a Kafka), è una situazione postuma rispetto a questo alambiccarsi baudeleriano: “Vaporizzazione e centralizzazione dell’io”, che apre le porte al Novecento, sotto il segno di quella precisa ambiguità di cui Virgilio e Seneca sono coadiutori e patriarchi. Ma il pantheon, nella contemporaneità, crolla, e siamo certi che una percentuale infima di scrittori oggi si va a leggere l’Ercole furioso di Seneca. L’ambiguità, la medesima ambiguità, si sposta a un livello secondo e, nella prospettiva attuale, più profondo: è il rapporto stesso con la tradizione. La tradizione è il potere e la scrittura sembra oggi, nel tempo del crollo non solo delle forme ma anche dei saperi, e al tempo stesso dell’abbondanza irrecepibile di forme e saperi, fare i conti soprattutto con questo imperatore, che non si capisce se sta perdendo sangue al suolo o è sopravvissuto ed è pronto a rispondere alla congiura: la tradizione. Lo spazio non concede qui un adeguato sviluppo di questa tesi, da compiersi eventualmente in altra sede, ma alcuni corollari vanno enunciati, anche e soprattutto per comprendere quale sia l’altissimo valore dello scritto (che da solo meriterebbe pubblicazione e sarebbe memorabile) che Canali dedica alla funzione-Petronio.
A differenza dell’età imperiale (non importa l’approdo, non importano le dinastie), la contemporaneità pullula di forme che risultano instabili perché non esiste un potere che le elegga a propria legittimazione o delegittimazione. Una prospettiva che colpisce, nei salti descrittivi (o decrittatori) che Canali compie circa l’esercizio del potere da parte dei princeps, è che, incluse le azioni più turpi e cruente, la gestione del potere presenta due caratteristiche fondamentali in epoca romana: da un lato, si tratta dell’umano, è azione umana e rispecchia in toto l’umano (è impressionante osservare, a fronte delle azioni degli imperatori, i comportamenti speculari della turba delle classi minori, questa folla berciante che Canali stesso avvicina all’etereo dominio dell’audience, onnipresente con il suo disdegno verso l’“alto”, la sua lubrica statura, la sua inafferrabile capacità di scordare e cambiare bandiera con facilità oleosa); d’altro canto, il potere politico convoca l’azione umanistica come legittimazione o la ignora in quanto delegittimante. E’ un potere che elegge le forme, anche quando finge di non vederle (il caso di Cesare rispetto a Catullo è emblematico). L’ambiguità è il precetto che Seneca riuscirà a formalizzare, a fronte di una simile situazione, che è anzitutto una situazione umanistica: “o si rifiuta il potere, o lo si esercita”. Ciò vale sia nella vita pubblica sia dall’interno dell’attività di scrittura.
Se saltiamo a oggi, con irriverente e ingiustificabile atto d’arbitrio, detto che ogni interpretazione ha diritto d’asilo, la prospettiva che qui mi pare ovvio enunciare è che non esiste alcun potere che rappresenti l’umano: il potere è antiumano. Questo potere, che è una funzione del politico fattasi ineffabilmente aerea e purtuttavia molto storicizzata e concreta nelle sue prese di decisione e nelle sue tragiche azioni, è totalmente disinteressata a convocare l’umanesimo quale potenza di legittimazione. Perdura, d’altro canto, l’ignorare la letteratura che assale, attacca e delegittima il potere stesso. Ciò vale per ogni genere di letteratura, dalla spy story (si pensi agli attacchi di Ludlum a Kissinger o di LeCarré alle multinazionali del farmaco) al romanzo “alto” (per esempio, Ellroy sui Kennedy come allegoria di ogni presidente americano, o di Grass rispetto agli eredi della cultura del Vecchio Continente): il potere politico è la materia dell’attacco letterario, la sua sostanza. La mimesi romanzesca è di per sé, anche quando non giudicante, una rappresentazione del mondo devastato dall’antiumanesimo al potere (Houellebecq, il DeLillo de I nomi o di Cosmpolis). Lo stato dell’arte, letteralmente, è univoco: un assalto al potere che non riconosce la legittimità delle forme. Per questo la critica reagisce elaborando un’assai fragile poetica dei generi: assume su di sé una funzione che, nell’analisi di Canali, è prerogativa del potere. E dove sta, quindi, l’ambiguità?
Siamo all’ultimo passo, quello che conduce nei fantasmagorici ma iperrealistici territori del Satyricon. Che cos’è il potere assoluto? E’ l’extra-legem (impegno qui una tradizione filosofica che, a parte gli antesignani, ha nella lettura contemporanea di Carl Schmitt, soprattutto per opera di Alain Badiou e Giorgio Agamben, il suo appoggio), che può applicare la legge solo in quanto non ne è soggetto. La modalità potenziale che viene implicitamente adottata ai fini della persuasione a comportarsi secondo legge, è il bando. Il bandito è fuori dalla comunità, è il contrappeso all’altra figura fuorilegge, che è il potere assoluto. Questa situazione, che finora ha sortito essenzialmente esiti antimetafisici e oggetto della filosofia politica, è un buon modello per descrivere cosa accade alla scrittura in epoca contemporanea: c’è il problema che la scrittura non è messa al bando quando essa non riconosce l’extra-legem (la conferma in negativo è sotto gli occhi di tutti: è quanto accade a Dan Brown rispetto alla Chiesa, ultimo vestigio incerto e tremulo a modello imperiale arcaico). E’ avvenuta nel frattempo una frattura, che potremmo porre all’altezza di Blake per il mondo anglosassone, laddove era ancora possibile drammatizzare la rottura tra lo scrittore e un movimento esoterico con agganci al potere rivoluzionario, “con una critica satirica e polemica” (in Thompson, Witness against the Beast, 1993), consentendo all’autore comportamenti che oggi non hanno pari, mentre ne avevano ai tempi imperiali romani: “Fino ai suoi ultimi giorni Blake si dichiarò un Liberty Boy, un fedele ‘figlio della Libertà’. Era solito mettersi coraggiosamente in capo il famoso simbolo della libertà e dell’uguaglianza — il berretto frigio — in pieno giorno, camminando filosoficamente per le strade tenendoselo in testa” (Gilchrist, The Life of William Blake, 1907). Una sfida dello scrittore all’esposizione al bando, all’extra-legem, totalmente inattuale oggidì.
Nella contemporaneità, il bando infatti non è comminato perché chi rispetta la legge esclude a priori la letteratura quale partecipante alla comunità soggetta alla legge. Ambiguità massima: la lettura può fare tutto, anche ciò che sta facendo in linea di massima da trent’anni: lamentarsi di non essere riconosciuta come partecipante corale. Il potere è interessato ad altre cose: al condizionamento psichico, per esempio, quindi alle neuroscienze, che è il campo in cui si sta legittimando la visione del mondo a venire. Questo ruolo sembra non toccare la letteratura, che d’altro canto, come sappiamo, anticipa e di gran lunga ogni possibile risultato delle neuroscienze. Il vero bando dovrebbe essere comminato da un altro extra-legem: è la tradizione, la tradizione letteraria. Questo extra-legem tuttavia, come accade negli ambigui frangenti che preparano l’emersione di una letteratura popolare di nuova ma antica forma, cioè tragica ed epica, non lo è più: lo scrittore ha comminato il bando a questo extra-legem che è la tradizione.
Il risultato che sortisce da tutto ciò non è affatto la contaminazione dei generi, che è il risultato più ovvio della critica attuale, la quale sulla poetica dei generi ha fondato financo la sua stessa esistenza. Il risultato è piuttosto, da un lato, l’aumento del rumore di fondo (la narrazione Rumore bianco di De Lillo è interpretabile anzitutto in questo senso metaletterario e metacomunicativo, allo stesso modo di Mason & Dixon di Pynchon), cioè un fiorire di prodotti che si dicono letterari senza che essi abbiano alcuna connessione immaginativa non tanto col mondo, che tendono a imitare, ma con la tradizione, che è la letteratura tutta; d’altro canto, si osserva un movimento di progressivo slittamento tra prosa e poesia (e il già citato Meschonnic, con la sua teoria del ritmo, giunge a saldare proprio prosa e poesia) che corrisponde a una mimesi fantasmagorica: che è l’allegoria.
La mimesi fantasmagorica che è l’allegoria – una definizione plausibile per quel capolavoro che è il Satyricon di Petronio.
La funzione-Petronio: Canali dall’antica Roma alla Babele contemporanea
Per sgomberare il campo dalle incertezze, mi affido a un’ulteriore pratica che il Novecento ha utilizzato quantitativamente a sproposito, ponendola sotto l’egida di una supposta scuola letteraria, del resto inesistente, che sarebbe il postmodernismo di ascendenza angloamericana: ed è il montaggio. Accosto passi dal capitolo che Canali intitola Petronio, genio d’una classe sconfitta (e qui, per me, la classe non è socioeconomica: sono gli scrittori moderni e contemporanei):
“Petronio (?-65 a.C.), genio della lingua, inventor di incredibili mimetismi stilistici, instancabili affabulazioni, e dunque padre del romanzo moderno.
[…] Certo, il testo petroniano è una satura menippea (un misto di prosa e di versi) e contiene un mondo che al moralista sembra reo senza possibilità di appello, perciò imputabile a un intento satirico: ma non c’è satira nel Satyricon, non c’è contrapposizione di ideali positivi, non c’è sdegno né condanna, forse non c’è neanche disgusto, perché tutto è immerso nella stessa luce di baccanale e di cerimonia mortuaria, nella stessa viscosità, nella stessa limbica assenza di giudizio.
[…] Nell’opera compiuta non serve a niente sperimentare i paralleli: essa è semplicemente la storia di una disfatta e di un trionfo, così totali e intercambiabili da escludere persino il risentimento o la speranza. Al di sopra delle alterne vicende dell’economia, della società, della politica in età giulio-claudia — la consueta rissa tra senatori e cavalieri per l’adeguamento del potere agli averi —, la vittoria incontrastata era quella del danaro, i trionfatori erano i ricchi d’ogni estrazione sociale, soprattutto i “nuovi ricchi” e i liberti.
[…] Il Satyricon è l’epicedio di una struttura sociale e di una ideologia reincarnate e deformate nello strapotere dei signori della produzione e della finanza, più vicini, nel traboccare della loro energia e rozzezza, agli antichi villani che ai contemporanei aristocratici scampati alle guerre civili e ai processi di lesa maestà: quella che si definisce corruzione, l’eros anomalo, lo sfarzo di vesti, l’ebbrezza luttuosa, era semmai il retaggio d’una nobiltà decaduta che lasciava ai necrofori soltanto gli umori della propria decomposizione.
[…] Petronio è una sorta di Balzac antico, capace di narrare — senza intenzione di censura, con il disprezzo assorbito dall’oggettività — la vicenda sordida e trionfale dei ceti che avevano distrutto i “moscardini” o le mummie dell’ancien régime.
[…] L’intonazione ha l’incrinatura dell’ironia senza perdere la compattezza dell’epica. Essa è falsa e autentica nell’ingiudicabilità di un mondo estraneo alle norme tradizionali.
[…] Anch’essa (la lingua) è invece il calcolato, millimetrico strumento d’espressione di un inventore di lingua, che certo presuppone un’ascesa e un dilagare di elementi volgari e subpopolari, un incrocio di semantemi e di nessi sintattici come di popoli e di razze, un “volgare” che diventa lingua di classe economicamente influente, un “aulico” che sprofonda per sapiente paradosso d’arte nelle sentine…”
Petronio è uno scrittore che subisce un bando della letteratura (e il Satyricon della storia, fino alla sua riscoperta in epoca tardissima; ma addirittura della forma, frammentata: e comunque non per questo inefficace) che è il tipico bando della letteratura contemporanea, quando non è più questione di io e non è più questione di mondo: è questione di un immaginario che deve reinventare il mondo esattamente com’è, senza appoggi da parte della tradizione e senza conclamate convocazioni da parte del potere politico. La sua reincarnazione precisa, che è pronta a parlare con potenza soprattutto nell’immediato futuro, avviene in territorio romano a millenni di distanza: è Petrolio di Pasolini. Il Satyricon (il romanzo che viene) è un romanzo laico, che Canali delinea come lascito fondamentale per la contemporaneità, come del resto è tutta laica l’indagine compiuta sulla letteratura romana antica. Qui si apre un’ulteriore fenditura, che credo produca il sintomo dell’assenza dei Tristia soprattutto, e delle Metamorfosi ovidiane: la risposta metafisica, o misteriosofica per essere più in linea con quei tempi, che risentiva delle accentuazioni segrete dei ritmi misterici e orfici e neopitagorici che premevano da sotto il tessuto connettivo politico e sociale, prima e dopo dell’avvento del Cristianesimo. Del resto, è la variabile metafisica e non soltanto stilistica che convince Dante a trascegliere Virgilio come maestro dei misteri ultramondani, dando inizio alla letteratura italiana.
E’ probabile che questo sia l’orizzonte della prossima (mi sia permesso sperare imminente) ricerca di Luca Canali nel labirinto romano antico: il più complesso e ambiguo della tradizione letteraria planetaria.