di Mauro Vanetti
Il fronte imperiale si amplia?
Mentre Chávez in Argentina guidava le proteste antimperialiste, Bush parlava in Uruguay col presidente Tabaré Vázquez e a tutti è venuto un dubbio: chi sta inseguendo chi? L’Uruguay è in fondo un piccolo Paese con uno sciatto governo di sinistra, mentre l’Argentina… è l’Argentina. Sembrava quasi che l’imperatore dovesse a tutti i costi trovare qualche Paese nella zona più meridionale del continente disposto ad accoglierlo; era anche una questione di orgoglio virile: far vedere quanto è lungo il proprio raggio di influenza.
L’Uruguay è una preda ambita per l’imperatore, anche e soprattutto perché teoricamente di sinistra: la cosa che più dà fastidio è che le posizioni dei governi più radicali (Chávez, Morales, Correa) siano riconosciute come posizioni genuinamente di sinistra, quindi è merce richiestissima un sinistrorso antichavista da esibire come un trofeo agli occhi dell’intelligentsija progressista, specie quella del Primo Mondo, per dimostrare che i “bolivariani” non sono dei veri mancini. In Europa non a caso si è avuto per anni un forte tentativo di presentare il processo rivoluzionario bolivariano addirittura come una forma di fascismo, oppure si raccattava qualche rinnegato “socialdemocratico” o qualche bonzo dei vecchi sindacati corporativi venezuelani per dire che in Venezuela destra e sinistra “democratiche” erano d’accordo nel condannare quel “populismo autoritario” che si nasconde dietro il sorridente faccione indio del presidente con più consenso democratico al mondo, espresso per quasi un decennio in elezioni libere (le uniche elezioni al mondo con diritto di revoca dal basso a metà mandato).
L’Uruguay guidato da Tabaré Vázquez è stato finora considerato quasi un satellite del Venezuela, almeno dal punto di vista dei rapporti commerciali. Dal primo marzo 2005, quando ha preso il potere, il Fronte Ampio delle sinistre ha ottenuto un quadruplicamento degli scambi commerciali con Caracas, con la firma di numerosi accordi importanti: tra questi, quelli che hanno regolato gli “aiuti canaglia” venezuelani ad alcune fabbriche autogestite dagli operai (in forma cooperativa totale o parziale), che elaborano la gomma (la FUNSAcoop), il vetro (la Envidrio), il cuoio (la Vicental) ecc. Non si tratta, insomma, del solito Risiko! in cui ognuno muove le sue pedine sul mappamondo e l’unica differenza è il colore: ci sono differenze di merito nelle mosse dei diversi giocatori; le pagine degli esteri attraversano i fogli del giornale per irrompere nella politica interna, e viceversa (e non resta peraltro indifferente neppure la terza pagina, quella della cultura). Tra l’altro anche le fabbriche autogestite e gli operai (come anche, su un altro piano, i contadini delle occupazioni dei campi) hanno una loro diplomazia e una loro politica estera, che insieme alla diplomazia pelosa e anonima del commercio e degli investimenti crea la filigrana profonda e nascosta di quel labirinto che i grandi leader percorrono sotto i riflettori.
La buona accoglienza ufficiale riservata a Bush ha quindi suscitato contrasti notevoli, anche all’interno dello stesso consiglio dei ministri: come in Brasile il Partido dos Trabalhadores di Lula ha partecipato in forze ai cortei anti-Bush, così hanno fatto a Montevideo partiti del Frente Amplio. Gli aiuti imperiali non sono certo “aiuti canaglia”: si concentrano sulla promozione del libero mercato, sull’abbattimento delle barriere commerciali e sulla penetrazione, in buona sostanza, del capitale nordamericano in Uruguay in cambio della penetrazione delle merci uruguayane negli USA. Chi comanda in Uruguay pare che sia fortemente tentato da queste sirene. Nelle piazze, invece, tanto per cambiare il clima è del tutto opposto.
Nell’Estancia Anchorena, una specie di Camp David uruguayano, ben isolato acusticamente dalle grida e dagli slogan scanditi nella capitale dai due cortei della sinistra sindacale e di quella politica, George W. Bush ha tenuto un discorso.
“Mi aspettavo di vedere un Paese bellissimo quando sono arrivato qui, ed è precisamente quel che ho visto. La vostra capitale è magnifica. L’architettura è davvero bellissima.” Ma figuriamoci, cosa ci avrà capito? “E poi, chiaramente, siamo venuti in questo posto bellissimo” — ha un po’ abusato dell’aggettivo beautiful, siamo già arrivati a tre volte in quattro frasi — “che è così pacifico e mi ricorda delle grandi risorse naturali che ha il vostro Paese.” E qui con un po’ di retorica antimperialista potremmo immaginarci gli occhietti porcini dell’imperatore (tra l’altro, straordinariamente vicini tra loro, secondo il cliché lombrosiano dell’idiota) luccicare, un filo di saliva colare dalle labbra ghignanti, le mani (che Diliberto ben descrisse come “imbrattate di sangue”) sfregate tra loro al pensiero goloso di queste ricchezze naturali altrui di cui appropriarsi facilmente.
A Montevideo, un capannello di giovani sindacalisti fumava e chiacchierava mentre migliaia di persone si raccoglievano al concentramento della manifestazione della PIT-CNT, la più importante centrale sindacale del Paese. Si stavano srolotando diversi striscioni con la medesima scritta: “La classe operaia non ti ha invitato”. Riecco la diplomazia proletaria.
“Una cosa su cui abbiamo un terreno comune è il rispetto per i diritti umani e la dignità umana, il rispetto per le regole della legge; per noi la stampa libera è la benvenuta — nella maggior parte dei casi.” Ha fatto la battuta; il pubblico si produce nelle risate d’ordinanza, ma sicuramente a qualcuno vengono in mente i giornalisti embedded, aedi prezzolati della guerra irachena, e cosa può ancora capitare ad un giornalista scomodo non solo per mano del KGB ma anche della democratica ed occidentale CIA. “No, in tutti i casi. Noi onoriamo i risultati delle elezioni. E l’Uruguay è un forte esempio della stabilità che può arrivare con la democrazia.” Eh, certo, il punto è la stabilità: in fondo anche la democrazia rappresentativa la può garantire, anche se negli anni Settanta ed Ottanata agli Stati Uniti è sembrato che la si preservasse meglio appoggiando una lunga serie di dittature militari (prima quella del cattolico integralista Bordaberry, seguito da Demicheli, poi dal fascista Méndez, infine dal generale Álvarez). “Però anche voi riconoscete quello che riconosco io, che non si può prendere la democrazia per garantita,” — si legga “capitalismo” al posto di “democrazia” — “che la gente deve vedere dei benefici tangibili.” Ecco una sfumatura di materialismo RGM: la democrazia non è un set di regole costituzionali, una neutrale tecnica di governo, ma si deve fondare su vantaggi materiali per le masse. Hic Rhodus, hic salta.
Le ventimila anime in corteo si stavano schierando, gli spezzoni di testa sarebbero già voluti partire. Spuntavano cartelli: “Bush fascista” (quasi impronunciabile per un ispanofono), “Bush terrorista”. I sindacalisti schiacciarono i mozziconi sotto le scarpe: “Tra poco si parte”.
“Mi congratulo con Lei e con il popolo dell’Uruguay per aver fornito pacificatori” — è un eufemismo per “soldati”, e poi dicono che è la sinistra ad essere fissata col linguaggio astruso del politically correct… — “ad Haiti e al Congo. È il gesto di una nazione forte che si sforza nell’aiutare gli altri a realizzare i benefici della società libera.” L’imperatore sta ricordando a Tabaré Vázquez le marachelle fatte insieme, come se volesse in qualche modo corresponsabilizzarlo, tipo pentito che vuole inguaiare il complice: “C’eri anche tu e non hai fatto niente per fermarmi, anzi, ci hai pure messo del tuo”.
Gli operai, tenendosi per le braccia, avanzavano lungo il percorso della manifestazione. Un vecchio militante aveva portato una bandiera di Cuba — venne disegnata un secolo fa per scimmiottare le stelle e strisce nordamericane (e la fantasia era così poca che Porto Rico si trovò ad avere lo stesso stendardo solo scambiando rosso e blu), ora farla sventolare è diventato l’equivalente di bruciare una bandiera statunitense. Qualcuno esibiva il tricolore venezuelano, ma doveva averlo comprato qualche anno fa perché aveva ancora sette stelle — in Venezuela quella è la bandiera dell’opposizione golpista, che non ha accettato l’aggiunta di un ottava stella nel 2006.
Cominciano le domande dei giornalisti. Uno chiede quali differenze e quali somiglianze veda il texano tra Vázquez e Chávez. L’imperatore fa finta di aver capito che la domanda riguardi le differenze e le somiglianze tra l’Uruguay e gli USA, e risponde: “Entrambi ci siamo disfatti delle potenze coloniali nel nostro passato, e penso che sia questa eredità a rendere l’Uruguay e gli Stati Uniti dei partner naturali. Parliamo della necessità di investire e di far crescere le economie attraverso gli investimenti”. Questa è una perla di Reazione geneticamente modificata. La seconda frase, che è la vera risposta (ad una domanda che nessuno aveva posto, peraltro), è la solita formula magica liberista, alquanto frusta, sugli investimenti e sulla crescita economica; la premessa, però, è da mutante: il leader del Paese più imperialista del mondo si presenta come un simbolo dell’anticolonialismo — e questo perché duecentotrenta anni fa George Washington fece la guerra agli inglesi. Forse si vuol lasciare intendere che, se ce l’hanno fatta gli USA a diventare una superpotenza mondiale, l’obiettivo è a portata di mano anche per il suo Paese gemello, l’Uruguay. Già immaginiamo la poderosa aviazione uruguayana che bombarda l’Iran e multinazionali uruguayane che aprono filiali in tutti i contenti.
Gli orientales in marcia si fermarono e si fece silenzio. Lo scrittore Ignacio Martínez lesse il proclama: “Lei, signor Bush, non è il benvenuto nella terra di Artigas. Rappresenta il peggio che sia successo all’Uruguay, alla nostra America e al mondo intero”. José Gervasio Artigas è un eroe nazionale uruguayano, Protettore della Lega dei Popoli Liberi del 1815 e figura centrale di tutta la Rivoluzione del Rio de la Plata. Come si vede, gli spiriti del periodo delle lotte per l’indipendenza aleggiano costantemente nei corridoi del labirinto, lo riempiono d’echi.
Si fa avanti un altro giornalista; ecco un esempio di stampa libera che non sempre è la benvenuta, per citare la battuta di Bush. Irrispettosamente, chiede: “Presidente Bush, Hugo Chávez ha suggerito che Lei abbia paura di pronunciare il suo nome. Dunque, è vero che ne ha? E quanto lo considera una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti nell’emisfero?”. Sarà vero oppure no che per l’imperatore le quattro sillabe “Hugo Chávez” sono impronunciabili?
I due pupazzi avanzavano goffamente sopra centinaia di teste. Un corteo dieci volte più piccolo, ma dai toni non meno accesi, stava raccogliendo le forze. Lo aveva convocato l’ala sinistra del Fronte Ampio, in particolare i comunisti, e altri gruppi più estremi, in aperta polemica con la parte moderata dell’esecutivo, specie il ministro dell’Economia, che aveva invitato a non compromettere possibili accordi commerciali con manifestazioni ostili (in casi come questi, quel dicastero finisce sempre nelle mani dei Padoa-Schioppa della situazione), e lo stesso capo del governo. Uno dei due pupazzi rappresentava proprio lui; l’altro, ovviamente, l’imperatore. Le ghignanti facce di cartapesta avevano uno sguardo malinconico: sapevano che, di loro, nel giro di pochi minuti sarebbe rimasta solo cenere.
Bush dovrebbe rispondere citando subito il nome del presidente venezuelano, magari anche ironizzandoci sopra. La risposta al giornalista impertinente prende invece un taglio inquietante: l’imperatore sta ancora una volta evitando di nominarlo, nonostante sia stato praticamente sfidato esplicitamente a farlo. Parla di investimenti, di aiuti bilaterali, della povertà e della diplomazia, dice frasi di circostanza sull’amicizia tra popoli vicini. Si può leggere la trascrizione della risposta: sembra incredibile, vista la domanda diretta, ma non viene citato neppure di striscio né Chávez né il Venezuela in generale. L’uomo più potente del mondo, per scaramanzia medioevale o più probabilmente per indicazioni imperative dei suoi responsabili del marketing (che hanno fatto il possibile, invano, perché la sua missione diplomatica non sembrasse un semplice tour anti-Venezuela), non si può permettere di dire nulla su Hugo Chávez. “Dunque, è vero che ha paura?” — in fondo, la risposta onesta è “Yes, sir”.
Tra i manifestanti, alcuni indossavano un cappuccio e portavano in mano pali di legno. Gli estremisti fogoneros (i “fuochisti”) l’avevano annunciato: avrebbero tentato di irrompere nell’Hotel Radisson, dove avrebbe alloggiato, insieme al suo enorme seguito, l’ospite gringo (una parola che nella punta meridionale del continente è usata, con una sfumatura meno dispregiativa che altrove, per indicare non solo gli americani anglosassoni ma anche gli italiani, i tedeschi, i francesi…). Il servizio d’ordine del sindacato ha fermato gli incappucciati, formando una barriera umana e scandendo l’antico El pueblo / unido / jamás será vencido. I ragazzi insultano gli operai del cordone: “Eravate dei tupamaros, ora fate i piantoni per un governo venduto ai nordamericani!”.
Lungo Avenida 18 de Julio, i pochi passanti osservavano la vetrina del McDonald’s sfondata a sassate. Le voci del corteo erano già lontane. A terra giacevano decine di volantini dei gruppi più improbabili.
Toponimi
Bandiere, eroi, simboli: solo un cinico superficiale può non capire che nel labirinto queste entità assumono una speciale concretezza; è giusto appassionarsi, dunque, delle coincidenze. Nel corso di questo infuocato 9 marzo, un ragazzo, Fernando, è stato arrestato per “sedizione”; qualche giorno dopo si è tenuta una manifestazione per la sua liberazione, in cui sono state distribuite bandierine di carta a stella e strisce. Un po’ tutti le hanno bruciate. Uno di loro, un militante di lunga data della sinistra e del sindacato uruguayani, è stato avvicinato alla fine della manifestazione da alcuni agenti in borghese, che lo hanno arrestato per “vilipendio di emblemi stranieri”. Questo secondo arrestato di cognome fa Muñiz, ma è più interessante sapere come si chiama di nome: Washington.
I “grandi uomini” segnano la geografia oltre che l’immaginario di questo emisfero. L’inseguimento tra i due presidenti ha avuto un simmetrico momento chiave nel week end del 10 e dell’11 marzo, quando entrambi hanno fatto tappa nel rispettivo alleato fondamentale in Sud America; l’uno e l’altro Paese portano il nome di qualcuno: Colombia e Bolivia.
Giustamente, il Paese più fedele all’imperialismo USA è quello che porta il nome del capostipite del colonialismo in America ed è lì che si è recato l’imperatore. Il suo antagonista non poteva che recarsi, viceversa, nella repubblica intitolata al capostipite dei liberatori sudamericani.
Fu proprio Bolívar, in onore del quale la Bolivia porta questo nome, a battezzare così la Colombia (all’epoca molto più ampia di quella attuale), ma al giorno d’oggi sono ben pochi i “bolivariani” che vedano in luce positiva anche Cristoforo Colombo. Anzi, qualche anno fa, in occasione dell’anniversario della scoperta dell’America, da una piazza in Venezuela venne divelta con un trattore una statua di Colombo; i responsabili della simbolica demolizione, che l’avevano realizzata alla luce del sole ed erano perciò stati imputati di danneggiamento della cosa pubblica, affermarono di aver agito in memoria dei milioni di indigeni sterminati nelle Americhe in conseguenza del colonialismo europeo, inaugurato dalla missione delle tre caravelle; una campagna politica di solidarietà con questo gesto liberatorio si sviluppò all’interno del movimento bolivariano chiedendo l’amnistia per i “decolombizzatori”!
Raggiunto, anche nella Colombia dei paramilitari e dei sindacalisti assassinati, da coraggiose manifestazioni di massa contro la sua presenza, l’imperatore non si è perso d’animo e ha scambiato pubbliche effusioni con il presidente Uribe, che conosce bene visto che probabilmente lo chiama ogni volta che ha bisogno di qualcuno che dia una lustratina ai suoi stivaletti texani.
Com’è noto, la Colombia è letteralmente spaccata in due, visto che circa un terzo del Paese è sotto il controllo della guerriglia di sinistra (FARC-EP, ELN e altri gruppi); questa circostanza alimenta continuamente la formazione di milizie private o parastatali a difesa degli interessi del latifondo, che sono riuscite finora a contenere l’espansione dei territori liberati dai guerriglieri, dove la terra è redistribuita e ci sono forme di organizzazione di potere popolare, per quanto costrette nell’autoritarismo implicito in ogni movimento su base fortemente militare. Abbiamo insomma una specie di Grande Marcia paralizzata a metà strada; Mao, però, riuscì a cacciare completamente il Kuomintang nazionalista dalla Cina continentale grazie alla rotta dell’imperialismo giapponese e grazie al predominio sociale dei contadini nella Cina dell’epoca; oggi, si può discutere sulle possibilità di una rotta statunitense (di fatto è quello che prima o poi accadrà in Iraq e su scala mondiale il declino USA è ormai evidente) che sicuramente metterebbe in seria difficoltà il regime colombiano che si regge in larga misura sull’appoggio militare di Washington attraverso finti piani di lotta al narcotraffico, ma di certo va escluso che i contadini, la base sociale della guerriglia, abbiano ancora una prevalenza numerica e ancor meno economica nelle società latinoamericane. Anzi, l’anno scorso è stato annunciato un fatto che nel suo simbolismo statistico ha l’importanza di una vera pietra miliare nella storia del genere umano: a livello mondiale, per la prima volta gli abitanti delle città sono più degli abitanti delle campagne; l’aprirsi di questa nuova era urbana è particolarmente evidente nella geografia politica dell’America Latina, segnata per decenni dalle insorgenze guerrigliere rurali e oggi invece investita da un nuovo protagonismo del proletariato urbano.
Sarebbe perlomeno ingeneroso definire la guerriglia un fenomeno residuale: ci sono in questo momento sul pianeta un nugolo di focolai guerriglieri (decine dei quali, misconosciuti in Occidente, nella sola India), di orientamento m-l (cioè “marxista-leninista”, espressione iniziatica che in realtà significa stalinista-maoista), che spesso determinano il quadro politico di interi Paesi; si pensi al Nepal, dove i maoisti guidati da Prachanda hanno messo in scacco la monarchia. Tuttavia, è senz’altro ingenuo ritenere che questi movimenti rappresentino il futuro della lotta tra le classi, foss’anche solo nei Paesi sottosviluppati; anche in questo caso, si può osservare il Nepal, dove il partito di Prachanda non ha saputo capitalizzare i risultati militar-insurrezionali della guerriglia in altro modo che con l’entrata al governo insieme agli ex nemici giurati — e pure stiamo parlando di un caso particolarmente fortunato, perché in Colombia, per tornare al nostro intricato labirinto, la situazione sembra completamente in stallo per l’incapacità della lotta contadina di “sfondare” nelle città (che non sono facilmente “accerchiabili”, secondo i precetti maoisti, quanto nello staterello himalayano).
Ricordo un’assemblea a favore della guerriglia colombiana in un centro sociale milanese; quando si parlò delle ultime elezioni e della vittoria schiacciante ottenuta da Uribe, l’oratore filo-FARC non sembrava minimamente preoccupato dal segnale inquietante che ciò rappresentava: ci spiegò che, tanto, il presidente “fascista” era considerato un obiettivo militare dalle forze della guerriglia; quando si crede di poter risolvere un complesso problema politico, come l’egemonia politica che la destra detiene nei 2/3 “non liberati” della Colombia, con i metodi ottocenteschi del tirannicidio, per quanta simpatia si possa avere per ogni novello Gaetano Bresci (e secondo molti le FARC non sono altrettanto limpidamente idealiste) è chiaro che manca una prospettiva convincente: si è rimasti insaccati in un vicolo morto del labirinto.
Nelle tortuosità escheriane della guerriglia si è persa più di una generazione di aspiranti Dedalo, che non hanno mai neppure intravisto l’odiato ed agognato Minotauro al centro dell’inestricabile groviglio di corridoi. Praticamente in ogni Paese a Sud del confine USA-Messico (e c’era qualcuno che ci provò, bizzarramente, anche a Nord del confine, perduto nei meandri dell’impossibile “guerriglia urbana” nei ghetti metropolitani) è esistita nei decenni scorsa una o più lotte di guerriglia. Oggi gran parte di questi fronti è stata chiusa con una vittoria del potere costituito, qualcuno resta ancora aperto ma sembra ben lungi dal poter ripetere il colpo gobbo riuscito a Fidel Castro e al Che Guevara mezzo secolo fa. Eppure, queste sconfitte, in genere dai contorni tragici e violentissimi, non hanno fatto spazio alla mera Reazione; al contrario, quasi ovunque dei forti movimenti sociali urbani, con un radicamento nelle fabbriche o negli uffici, nelle scuole o nelle università, nelle miniere o nelle compagnie petrolifere, hanno raccolto dalla polvere impastata di sangue il testimone. In Venezuela, la riscossa ha preso il volto di un ex ufficiale della controguerriglia, Hugo Chávez, che ha raccontato di aver iniziato a sviluppare la propria coscienza politica leggendo nella foresta i classici marxisti che lo Stato forniva ai quadri dell’esercito per insegnare loro a capire i pensieri del nemico: ecco un altro bell’esempio di mutazione, stupidamente indotta dalla stessa oligarchia, che ha metastatizzato non poco nell’organismo instabile delle forze armate venezuelane.
La Bolivia è il simbolo di questa storia agrodolce. In Bolivia il Che Guevara ha perso la vita nel tentativo generoso di far scoccare la scintilla che incendiasse anche il Paese dove, nella sua odissea continentale diventata mito giovanile, aveva conosciuto la Rivoluzione dalle parole aspre e sognatrici dei minatori. Se la risposta dei contadini non fu la stessa riservata a Carlo Pisacane, ci andiamo vicino e l’esito dell’impresa temeraria non fu dissimile. Migliaia di Che Guevara cadranno con uguale eroismo nei decenni successivi, disseminando l’intera America Latina dei propri corpi sotto i colpi degli eserciti di ogni borghesia compradora dell’emisfero: un’intera orchestra di vigliaccheria e di prepotenza diretta dalla bacchetta della segreteria di Stato nordamericana.
Ci entusiasma con l’aroma della giusta rivalsa, quindi, la rivoluzione boliviana. Si è parlato, talvolta, della “petrolizzazione” dell’acqua, ossia del fatto che l’acqua sia sempre più considerata una risorsa scarsa da commercializzare e privatizzare e attorno alla quale organizzare guerre e sommosse. La storia del processo rivoluzionario boliviano del XXI secolo è una storia di acqua e petrolio, di coca e gas fossili; il settore primario è di gran lunga predominante, rispetto all’industria di trasformazione e ai servizi, nell’economia di questo Paese andino. È alla vigilia del passaggio di millennio, nel 2000, che nella città boliviana di Cochabamba si sparano i primi colpi della rivoluzione, quando una rivolta popolare si oppone efficacemente alla privatizzazione delle risorse idriche. Si apre una fase socialmente molto convulsa, in cui minatori e cocaleros, modelli andini esemplari rispettivamente della classe operaia e dei contadini, mettono in piedi una lotta durissima (che costerà decine e decine di morti) con un obiettivo che non si potrebbe definire con altre parole che la conquista del potere politico e la realizzazione di una rivoluzione sociale.
Lo stesso carattere indigeno di questo fenomeno (per quanto esaltato da un subcomandante Marcos che, forse proprio in quanto guerrigliero contadino, sebbene in versione “post-moderna” e “no global”, sembra sempre meno in grado di decifrare ciò che si muove nel continente che ha eletto a sua nuova patria) è certo importante ma non merita nessuna sopravvalutazione, visto che in quel Paese come in tanti altri della regione il contrasto fra creoli e indios è in larga misura una variante etnicizzata degli antagonismi di classe. I cabildos abiertos, le assemblee di massa nei quali un’intera comunità di lavoratori discute democraticamente lo sviluppo delle lotte, per quanto avvolti nel fascino dei colori tradizionali andini non sono più indigeni di quanto non lo fossero i “soviet operai e contadini” nella Russia del ’17 o gli Arbeiter und Soldatenräte della Rivoluzione di Novembre nella Germania dell’anno successivo. L’indigenismo romantico degli europei è spesso un modo per non vedere quanto gli eventi nel labirinto riguardino anche noi, parlino una lingua in fondo universale (perché ormai omogeneo è l’assetto sociale del pianeta). D’altronde mi sembra questo lo zoccolo duro razionale dello spirito della missione malaugurata che terminò a La Higuera: l’idea per cui la lotta è una e si combatte ovunque, rispettando ma superando le particolarità nazionali.
La Higuera, dove cadde il Che Guevara, si trova nella regione orientale di Santa Cruz, altro toponimo azzeccato nel suo rievocare le missioni gesuite (di cui è stata storicamente molto infestata quella zona), visto che si tratta indubbiamente della parte più bigotta, reazionaria e razzista del Paese. In questa zona del Paese e in tutta la mezzaluna orientale, che è la più ricca di risorse fossili, facendo leva sulla dubbia particolarità regionale cruceña, si è sviluppata una mobilitazione indipendentista, attraverso organizzazioni di sapore “leghista” come il Comité Cívico de Santa Cruz o fascistoidi come l’Unión Juvenil Cruceñista, che rischia di giocare in Bolivia lo stesso ruolo dello sciopero reazionario dei camionisti contro il governo socialista cileno, che preparò la strada al golpe di Pinochet del ’73. In effetti, ci sono molte somiglianze tra Evo Morales e Salvador Allende. Come quest’ultimo si illuse di poter contare sulla lealtà costituzionale dell’esercito arrivando a nominarne ai vertici proprio il generale Augusto Pinochet, rifiutandosi al contempo di procedere ad un massiccio armamento del popolo, così il governo del MAS si è opposto al rovesciamento da parte dei movimenti sociali e delle assemblee popolari dei prefetti cospiratori e secessionisti come quel Reyes Villa che è stato deposto a gennaio a Cochabamba da un cabildo popular che ha instaurato al suo posto una giunta rivoluzionaria.
Citate Cochabamba e Santa Cruz, non si può non parlare di altri due luoghi chiave della geografia politica boliviana che ci danno le coordinate di questo complesso equilibrio precario e ci possono far capire se davvero siamo di fronte al rischio di un nuovo golpismo di destra — una via già tentata dalla cosiddetta “opposizione democratica” in Venezuela l’11 aprile 2002, ma sconfitta da una gigantesca sollevazione popolare che ha simbolicamente vendicato l’11 settembre 1973.
La Paz — ancora un nome evocativo — è la capitale amministrativa del Paese. È la capitale più alta del mondo, una grande città nelle montagne adagiata sulla valle del fiume Choqueyapu, dove il traffico e i grattacieli trovano l’accompagnamento per noi insolito dell’aria rarefatta e dei poncho degli indios. La sua gemella proletaria è El Alto, una specie di sobborgo di La Paz dove risiedevano originariamente i ferrovieri e gli operai che stendevano i binari, cresciuto a dismisura per l’inurbamento di contadini e minatori della regione, che incombe, ad un’altitudine ancora maggiore (oltre i 4000), sulla capitale, che ha ormai ragginto per dimensioni e popolazione. El Alto, citta di poveri e di assetati, è la vera capitale della Rivoluzione ed è considerata la capitale ideale dei popoli andini; furono gli alteños a dare il colpo di grazia al presidente omicida “Goni” nel 2003, ottenendo la nazionalizzazione della preziosa acqua del ghiacciaio del monte Illimani; sempre loro proseguirono questa storia di acqua e petrolio, dando l’assedio a La Paz con la richiesta della nazionalizzazione degli idrocarburi: le bandiere a quadrati variopinti dei cocaleros e i candelotti di dinamite dei minatori hanno paralizzato la capitale fino a riuscire a rovesciare il successivo presidente Carlos Mesa.
El Alto è la roccaforte di COB, COR e COD, varie sigle che indicano le articolazioni nazionali e locali del sindacato boliviano: un sindacato che controlla non solo politicamente la città, arrivando a gestirne anche, insieme alla FEJUVE (Federazione delle Giunte di Vicinato), il funzionamento quotidiano, dirigerne il traffico e lo smaltimento dei rifiuti, bloccarne ogni via d’accesso in occasione delle frequenti prove di forza politiche.
Movimenti sotterranei
La Central Obrera Boliviana, la poderosa COB, di tradizioni fortemente rivoluzionarie, costituisce, in concorrenza ma contraddittoriamente insieme al MAS di Morales, l’altra organizzazione fondamentale della rivoluzione. Non è ormai un segreto che probabilmente si presenterà anche alle elezioni dell’anno prossimo, agitando senza dubbio parole d’ordine molto radicali. Questa centrale sindacale si oppone costantemente ai tentennamenti del governo dal giorno stesso della vittoria socialista del 2005: una vittoria a cui non ha contribuito, assumendo una posizione astensionista piuttosto miope, che ha fatto vacillare, per un momento, il suo prestigio nella classe operaia andina. Un esempio tipico è la nazionalizzazione degli idrocarburi, annunciata il Primo Maggio 2006: una legge con luci ed ombre, che in larga misura si riduce in effetti ad una ridefinizione della divisione della rendita tra Stato e multinazionali, difesa strenuamente dal governo e criticata dalla COB e da altri settori che chiedono “una vera nazionalizzazione”.
Anche in questo vediamo una somiglianza con l’esperienza di Allende che non ci lascia ben sperare: la rivoluzione cauta propugnata dal socialismo cileno, se da un lato suscitò una frustrazione della base sociale di Allende, che si espresse attraverso le critiche delle organizzazioni dell’estrema sinistra, d’altro canto fu comunque sufficientemente audace da suscitare le preoccupazioni di Kissinger coi risultati che conosciamo. Il caso venezuelano, come, con tutte le differenze intuibili, quello cubano, sembra dimostrare, piuttosto, che quando un processo rivoluzionario si approfondisce questo lo garantisce simultaneamente dai possibili attacchi, mentre proprio gli inceppamenti e le ambiguità alimentano la spavalderia della Reazione.
Il belga Ilya Prigogine, premio Nobel per la Chimica, spiegava che nei sistemi complessi, specie quelli viventi, lontani dall’equilibrio termodinamico, emerge un “tempo interno” che ne scandisce l’evoluzione, ben diverso dal tempo “spazializzato”, puramente quantitativo e adirezionale, della semplice meccanica newtoniana: il filmato di un corpo che orbita attorno a un altro è altrettanto credibile qualunque sia la velocità a cui è proiettato, al limite anche all’indietro, mentre la crescita, lo sviluppo e la morte di un albero hanno un ritmo e una direzione propri. Se una rivoluzione è, come è, il fenomeno più vivo e complesso che si può immaginare, mi sembra un’idea molto moderna riconoscerle una propria tempistica e una propria dinamica che non la rende rallentabile o accelerabile o deviabile a piacimento secondo i gusti dei suoi vertici.
I ceppi artificialmente posti alle gambe della trasformazione sociale creano continui “strappi” e convulsioni, in particolare nei punti di maggior sofferenza. Uno dei luoghi di maggior attrito è la presidenza di YFPB, la compagnia petrolifera statale, in quanto zona di contatto e negoziato tra il governo — che ha intrapreso il processo di nazionalizzazione — e le multinazionali — che esercitano le proprie pressioni affinché questo processo venga castrato sul nascere. Non a caso la persona posta in quella carica è cambiata già tre volte in circa un anno! Pochi giorni dopo la visita di Chávez, è stato il turno di Manuel Morales Olivera (non è parente di Evo), costretto a dimettersi dopo el escandalo de los petrocontratos: 44 contratti firmati con 12 multinazionali straniere, di cui esistono due versioni diverse, quella firmata dalle compagnie petrolifere e quella fatta vedere al governo! Ovviamente nella versione firmata dai pescecani stranieri ci sono degli “annessi” inquietanti, svantaggiosi per la Bolivia, che di fatto compromettono l’efficacia delle nazionalizzazioni. Sembra la storia da cartone animato di quei contratti firmati col Diavolo in cui in qualche clausola, scritta con caratteri microscopici e inchiostro magico, si rinuncia ad ogni diritto sulla propria anima.
I critici da sinistra della “nazionalizzazione a metà” hanno giustamente osservato che non siamo di fronte ad un semplice caso di corruzione o di incompetenza (tanto più che molti sostengono l’assoluta integrità individuale di Evo Morales, che ha fatto calare drasticamente la mannaia sui privilegi dei politici, dimezzando il suo stipendio a 1384 euro, e che addirittura pare lavori così tanto che il medico presidenziale lo ha dovuto obbligare a prendersi qualche ora in più di sonno se vuole sopravvivere); il problema sta nell’effetto degenerativo delle ibridazioni tra un programma che si dichiara andare “al socialismo” e la ricerca del quieto vivere con le forze conservatrici: di fatto, Evo si trova con un covo di serpi in seno, capeggiate dal vicepresidente Garcia Linera, che giovano di sponda con la Reazione nel neutralizzare la riforma agraria e la difesa delle piantagioni di coca, l’Assemblea Costituente, la riapproriazione degli idrocarburi, il controllo operaio sulle miniere.
Se negli strati alti della società accadono cose come questa, ancora una volta può essere chiarificatore un tuffo negli eventi sotterranei, nei movimenti tellurici che scuotono le fondamenta del labirinto e ne ridisegnano la planimetria. In Bolivia questi sismi sociali hanno, per esempio, il volto squadrato, la pelle di un colore esotico e i cappelli di alpaca dei minatori di stagno di Huanuni. In quella zona, ci sono numerose miniere, alcune delle quali di proprietà statale e con elementi di controllo operaio, altre private o sotto il controllo di finte cooperative, che di fatto sono imprese private, camuffate da coop per attuare una completa deregulation. Mentre i lavoratori delle miniere nazionalizzate, che hanno saputo conquistarsi condizioni di lavoro e di salario molto migliori, sono organizzati nel loro sindacato (affiliato alla COB), le finte cooperative hanno invece una propria lobby, FENCOMIN, a cui Morales aveva di fatto affidato il dicastero delle Miniere nominando ministro un loro amico, un certo Walker Villaroel — Walker, come il secondo nome dell’imperatore, in un labirinto dove niente avviene per caso.
Una delle miniere statali sotto controllo operaio era stata espropriata de facto ai suoi padroni, dei biechi inglesi (con favoriti e cappelli a cilindro, immagino) proprietari di quella RGB Resources che aveva abbandonato la produzione nel 2005 in seguito a una bancarotta. I capi della FENCOMIN sono andati a Londra a incontrare chi sta seguendo il fallimento di questi furbetti e hanno acquistato un contratto sullo sfruttamento della miniera, col piccolo problema che questa miniera non era affatto sotto il controllo dei “cooperativisti”. Poco male: agendo ormai come la longa manus degli avidi creditori londinesi, facendosi forti dell’appoggio implicito del ministero, i capi delle cooperative hanno lanciato i propri sudditi-soci all’attacco, armi alla mano, della miniera statale, riuscendo a conquistare uno degli accessi ai giacimenti sotterranei. Lo so, sembra una storia di altri tempi, ma risale solo all’autunno scorso.
La battaglia di Huanuni è durata giorni e giorni; è stata una battaglia tra minatori, quindi nel caso migliore si usavano fucili, ma in genere l’arma preferita era la dinamite. Ragazzini sedicenni portavano candelotti negli zaini o attaccati alla cintura e li lanciavano dall’altro lato del monte Posokoni. Le vittime sono cadute, da entrambe le parti, a decine. Anche il paese a valle è stato coinvolto dagli scontri sanguinosi sui monti; una mattina, dei “cooperativisti” hanno gettato tre pneumatici imbottiti di esplosivo giù in vallata, provocando una gigantesca detonazione.
Nonostante l’inferiorità numerica, hanno vinto i mille operai del sindacato, sconfiggendo il crumiraggio armato non solo sul piano militare ma su quello politico, o psicologico se preferiamo. In primo luogo, potevano contare sull’appoggio delle organizzazioni contadine della zona, con cui avevano siglato un patto per la difesa della miniera, in vista di una sua espansione che condurrà a centinaia di nuovi posti di lavoro; ma soprattutto, sono riusciti a convincere una parte importante dei “cooperativisti” ad unirsi a loro, ad essere assunti come salariati statali e ad iscriversi al sindacato. Parlavamo, all’inizio di questo cumulo di digressioni, del trucco dell’ibridazione col proprio antagonista: ancora più risolutorio, tuttavia, in uno scontro, è la capacità di assimilare direttamente a sé il nemico; questa modalità ameboide di combattimento è stata possibile ad Huanuni proprio perché la forza della FENCOMIN, la disperazione dei suoi poverissimi e ingannatissimi membri, era anche la sua debolezza. Chi li aveva organizzati per tentare una campagna violenta di privatizzazione forzosa della miniera è rimasto a bocca asciutta: centinaia di loro hanno ingrossato le fila di chi lotta per l’obiettivo opposto.
Evo Morales ha affermato, direi alquanto tardivamente, che i fatti di Huanuni sono stati una tragedia. Il ministro venduto alle finte cooperative è stato rimosso e sostituito da un ex sindacalista delle miniere; la FENCOMIN, offesa, ha rotto immediatamente il patto politico che aveva stretto con l’esecutivo e sarà in futuro esclusa dalle concessioni minerarie, che saranno assegnate a compagnie statali autogestite. È una lezione importante.
La scacchiera su cui giocano la loro partita i capi dei potenti o dei derelitti dell’emisfero non è una normale tavola di legno. I pedoni si animano di vita propria, le caselle bianche e nere ci si spostano davanti agli occhi, il terreno di gioco si fa accidentato e può divorare o portare in trionfo quei pezzi maggiori che sono solo apparentemente più importanti: i percorsi lineari degli alfieri, l’ortogonale prepotenza delle torri d’assedio, lo schematico asterisco su cui la regina stende il suo potere, rimangono impercorribili via via che dai lati delle caselle e dalle intersezioni delle colonne si levano muri e si aprono abissi, via via che la planarità della plancia si distorce nelle vertiginose chiocciolarità di un labirinto.
Le masse dei pedoni del sottosuolo a Huanuni sono intervenute e hanno scompaginato la situazione, estirpando un po’ del male che minaccia la rivoluzione “india e socialista” in Bolivia: un male che si infiltra, più un cancro che una quinta colonna, anche se le altro quattro colonne già circondano Madrid e aspettano solo un segnale di titubanza dall’interno del perimetro assediato. Questa capacità di intervento dal basso, ancora vivace e poderosa, è uno dei due fattori che ci fa ben sperare sulla possibilità di scongiurare l’incubo di un nuovo Pinochet. L’altro fattore è la bancarotta politica della Casa Bianca e in modo particolare del suo attuale inquilino: senza Kissinger, non ci sarebbe mai stato Pinochet. Ma su quanto sia davvero incrinato lo scettro imperiale avrò modo di ritornare in una delle prossime divagazioni.
(…CONTINUA…)