di Saverio Fattori
Michele Governatori, La città scomparsa, Barbera Editore, Siena 2006, pp. 191, € 16,00.
Il grande sogno di un paese grottesco, un imprenditore cialtrone che si fa figura commovente, schiacciato da soci più cinici e accorti.
La pianificazione ardita di una Cortina del centro Italia, facile da raggiungere da Roma, che fallisce miseramente, marcendo in un amalgama di cemento e amianto.
Una seconda casa per una borghesia piccola piccola, che del verde non ha ancora capito bene che farsene, ma che inizia a fare propri i simboli di una confusa scalata sociale.
Intorno a Candora sarebbero riemersi piatti di plastica anche dieci anni dopo l’abbandono del paese. E ossi di pollo o di coniglio e buste di plastica come reperti di un’era di finte scampagnate in macchina.
Michele Governatori, giovane scrittore che ha esordito nel 2003 nella scuderia di Fernandel, è entrato casualmente in contatto con la figura mitica della città di Candora, ha sentito l’onesta urgenza di raccontare una storia ispirata a questa vicenda vera (quale non lo è….).
Ha interrotto un progetto editoriale in fase di chiusura e si è gettato dentro le mura di questo borgo artificiale, oggi ridotto a reliquia urbana dopo la deriva di speculazioni insabbiate a morte. Come un archeologo creativo ha riesumato figure credibili, anche se un po’ stereotipate, ha ricostruito trame del malaffare classiche di questo paese di furbi, come lo sono i servi quando fanno sparire qualche posata in argento dalla cucina.
Il libro scorre come un buon film italiano degli anni ’60, la Giulia di Gilberto Timone ricorda la Lancia Aurelia guidata da Gassman. Il cronista è un infinito Trintignant, cui non rimane che registrare eventi disastrosi, schiacciato dall’impotenza e dall’inadeguatezza rispetto a chi la vita la prende a morsi, senza curarsi del sangue e dei lividi. Nella Candora semiabbandonata, senza luce e acqua, sepolta sotto metri di neve, solo un piccolo scrittore la raggiunge, rischiando di morire di freddo e fame, alla ricerca di una ispirazione perduta. Timone lo incalza:
“Si può sapere che cavolo di roba scrivi” e quello l’ha guardato senza fare nessun segno, ma senza nemmeno dare l’impressione d’essere minimamente preoccupato o scocciato di quelle domande.
Lo scrittore pare una figura votata all’onanismo, a un distacco saccente che lo rende impermeabile alla produzione, alla costruzione di beni e oggetti. Che presenta sempre aspetti piuttosto volgari.
Il costruttore edile ne rappresenta in qualche modo l’antitesi. Si occupa degli aspetti pratici, costruisce agglomerati di cubi in cemento per meste esistenze, si ciba di deroghe al piano regolatore, di morti bianche, deve gestire finanziamenti bancari, risparmiare sulle forniture, definire le gerarchie tra i soci, prendere accordi con la politica. Non si prende il tempo di analisi etiche, ti guarda severo, come a dire che certi lussi mollicci lui non se li può concedere, troppo pressanti sono le urgenze del cantiere. Non è compito suo svolgere ricerche avanzate sui danni dell’amianto ai polmoni. Egli fa, noi ogni mattina apriamo la tapparella e giorno dopo giorno vediamo impennarsi villette a schiera, condomini, centri commerciali con un ritmo impazzito per il nostro metabolismo di pensatori, sempre troppo lento e fuori sincrono rispetto al resto del mondo. Durante l’ospitata a Fahrenheit di Governatori, un radioascoltatore ha mandato una mail in diretta ricordando che i primi dati sperimentali sui danni di questo materiale risalgono al 1935… al nostro imprenditore non potrà fregar di meno. Non ha tempo di ascoltare la radio.
A noi non resta che aggirarci nella cittadella fantasma con lo sguardo opaco e languido di animali da pascolo rassegnati al peggio, come se rappresentare epiteliomi maligni fosse già un po’ come sconfiggerli.
I prati tra i palazzi sarebbero stati dimenticati pochi anni dopo averli sottratti ai boschi di faggi. Gli impianti di risalita lasciati arrugginire, gli spazi comuni subito persi nella povertà dei vandalismi tra vicini, le fogne mai costruite. Ditte di vigilanza notturna e diurna dalle pretese economiche sempre più modeste si sarebbero succedute fino a spedire in ronda ragazzetti simili ai vandali da cui avrebbero dovuto proteggere. Piccole discariche abusive, poi sempre più voluminose, avrebbero occupato i lotti rimasti liberi. Il bussolotto della bacheca sarebbe diventato una specie di ritrovo per graffiti d’insulti reciproci prima, e poi soltanto cazzi, sputi, svastiche e nomi di squadre di calcio scarabocchiati a spray.