di Valerio Evangelisti

GuardieRosse.jpg[Questo breve testo autobiografico è apparso in AA.VV., Quando suona la campanella. Racconti di scuola, Manifestolibri, 2006. Un’antologia curata dal CESP, il Centro Studi dei Cobas Scuola. Chissà, magari porta un contributo, molto dal basso, al dibattito su ’68 e dintorni.]

Le lezioni erano cominciate da pochi giorni. Era l’ottobre del 1969, e io frequentavo la prima liceo classico (oggi corrispondente, credo, alla terza) presso l’istituto Marco Minghetti di Bologna.
Un liceo particolare, il Minghetti. Vi ero giunto dopo una quarta ginnasio disastrosa presso il liceo classico rivale, il Galvani. “Disastrosa” non per gli esiti, quanto per l’ambiente. Avevo per compagni di classe ragazzi in prevalenza ricchi o ricchissimi, con cui faticavo a legare. Inoltre vi era una larga prevalenza di fascisti, forse più negli atteggiamenti che nell’ideologia (appresi poi che lo stesso istituto annoverava tra i propri allievi Gianfranco Fini, però io non lo ricordo).

La composizione sociale del Minghetti era molto diversa. Vi predominava la piccola borghesia. La politicizzazione era scarsa, però nel ’68 uno studente dell’ultimo anno, soprannominato Bifo, aveva promosso uno sciopero e un sit-in nell’atrio della presidenza, a cui avevo partecipato. Si erano tenute assemblee, sebbene su temi marginali (il cattivo stato dei gabinetti, l’esigenza di un distributore di bibite, ecc.).
Bene, quel giorno dell’ottobre 1969, arrivato al liceo, mi attendeva una sorpresa. Davanti all’ingresso era schierata una fila di giovani, disposta con ordine quasi militare. Ognuno di essi aveva al collo un fazzoletto rosso con l’effigie di Mao, e ognuno reggeva una bandiera recante una falce e martello con gli angoli smussati, sovrastante la scritta Servire il popolo. Altri distribuivano volantini e il giornale La guardia rossa.
Io non aspettavo altro. A dire la verità, fino all’estate non ero stato per nulla maoista. L’anno precedente, con altri due ragazzi, avevo costituito nel mio liceo il Circolo Anarchico Bandiera Nera. Avevamo distribuito un volantino in sei copie, fatto con la carta carbone, e appeso a una finestra una bandiera per l’appunto nera, ricavata dal grembiule (che allora per le ragazze era obbligatorio) di una compagna di classe. Nient’altro. Poi, durante le vacanze, avevo letto le Citazioni dal pensiero di Mao Tse-Tung edite da Feltrinelli. Non che mi avessero convertito, però parevano mobilitare masse di giovani in tutto il mondo. Io avevo bisogno di menare le mani, e Bakunin sembrava insufficiente (Umanità Nova era un vero strazio). La clamorosa apparizione dei maoisti davanti al Minghetti fu la manna dal cielo.
Quello stesso pomeriggio io e alcuni compagni di classe – ricordo Massimo Stagni, Cesare Vianello – ci recammo all’indirizzo indicato dal volantino. L’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti aveva sede in una sfarzosa palazzina di Viale Dante, messa a disposizione, seppi poi, da un notaio che collaborava ai Quaderni Piacentini. Quando suonammo alla porta venne ad aprirci una ragazza bellissima, che alzò il pugno. «Cosa volete, compagni?»
L’atrio era un profluvio di bandiere rosse, e un grammofono suonava le note de L’oriente è rosso e di altri inni cinesi. Fummo fatti entrare in una sala che già accoglieva altri studenti del Minghetti: Libero Fontana, Pietro Poggi, Francesco Cifiello, più una ragazza ancor più incantevole di quella che ci aveva aperto, dai lunghi capelli rossi (il nome non me lo ricordo). Un dirigente dell’Unione, tale Briganti, stava illustrando un opuscolo di Aldo Brandirali, leader supremo del gruppo. Alle pareti, minacciosi cartelli esortavano a curare i baffi e a non portare barba, a fumare con moderazione, ecc.
Uscimmo di lì tutti iscritti all’Unione, e carichi di giornali da vendere. La guardia rossa conteneva un racconto esemplare su una lavatrice di condominio, che aveva sottratto gli inquilini alla servitù degli elettrodomestici privati. Le pagine centrali erano occupate dal testo della futura Costituzione della Repubblica Italiana. Giuridicamente era un po’ rozza – “I preti potranno dire messa, ma non riceveranno quattrini dallo Stato” – e prevedeva un sacco di fucilazioni; però pensai che, prima della rivoluzione, sarebbe stata senz’altro migliorata.
Pochi giorni dopo ero davanti al Minghetti, con il mio fazzoletto rosso al collo e la bandiera che sventolava. Passò la professoressa di italiano del ginnasio e mi disse: «Vedi che avevo ragione a chiamarti Mao-Mao?» In effetti aveva battezzato così me e una compagna di classe, Luciana Emiliani, dopo che in un tema avevamo preso posizione a favore del maggio francese. Le risposi con un grugnito.
L’avventura maoista durò pochi mesi. L’Unione non pareva avere una linea molto chiara, circa gli studenti. Un giorno alla settimana entravamo a scuola un’ora dopo, alle nove, e io venivo spedito alle otto a distribuire volantini che parlavano della Grande Rivoluzione Culturale davanti ad altre scuole più “proletarie”, come l’Istituto Tecnico Fioravanti, oppure davanti a fabbriche non lontane dal centro cittadino.
Nel frattempo, dall’Unione erano usciti quasi tutti. I miei compagni di classe avevano retto pochi giorni. La militanza degli studenti più anziani si era prolungata per poco più di un mese. Restavano, assieme a me, il capocellula Cifiello (uscì dall’Unione solo quando gli fu chiesto di piantare gli studi e di andare a lavorare in fabbrica) e la ragazza dai capelli rossi, peraltro inavvicinabile a causa del puritanesimo rigoroso che regnava tra i maoisti.
La crisi, per me, sopraggiunse dopo un poco. C’era uno sciopero generale, e l’Unione aveva formato un proprio corteo. Agitavamo i Libretti Rossi (nel frattempo erano arrivati quelli stampati in Cina), gridavamo “Stalin, Mao, Brandirali!”. Ci fermammo a salutare un pullman di turisti giapponesi, scambiati per “compagni cinesi” e ben felici di fotografarci. Già da tempo nutrivo dubbi; la messinscena mi confermò che stavo partecipando a una vera stronzata.
D’improvviso ecco che ci incrocia, all’altezza di Piazza Maggiore, un corteo tutto diverso. Non ha bandiere, procede veloce. Molti hanno il fazzoletto sul viso, i ranghi sono tenuti stretti da manici di piccone. Gridano un unico slogan: «Lotta continua! Potere operaio!» Non guardano nemmeno noi maoisti.
In un attimo faccio la mia scelta. Slaccio il fazzoletto con il ritratto di Mao e lo consegno a chi mi sta accanto. Corro a inseguire l’altro corteo, che intanto ha svoltato in via Rizzoli e sta imboccando via Zamboni. Dieci minuti dopo mi trovo a sfondare, con un segnale stradale divelto usato come ariete da decine di braccia, la porta dell’università che dà su via Belmeloro. La polizia carica ma viene respinta a più riprese. Confuso nella calca, faccio irruzione nel Rettorato. Inizia per me una nuova vita.
Qualche tempo dopo saprò che, il 16 febbraio 1970, l’Unione dei Comunisti Italiani Marxisti-Leninisti mi ha espulso per “indegnità politica e morale”. Ha espulso anche la ragazza dai capelli rossi, forse per errore. Di lei non so, da quel momento ci siamo persi di vista; ma a me, dell’espulsione, non importava più un accidente.